Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 9 febbraio 2016, n. 550
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2327 del 2014, proposto da:
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (in seguito anche MATTM), Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero della Salute, Iss – Istituto Superiore di Sanità, Ispra – Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Autorità portuale di Livorno, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato;
contro
Si. s.p.a. – Sa. (società azioni centrale cementerie italiane), rappresentata e difesa dall’avv. Gilberto Giusti;
nei confronti di
Regione Toscana, Comune di Livorno, Provincia di Livorno, Comune di Collesalvetti; Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpat) – Toscana, in persona del legale rappresentante pro tempore, quest’ultima rappresentata e difesa dagli avv. Fabio Ciari e Lucia Bora;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Toscana -sezione seconda, n. 1341 del 2013, resa tra le parti, concernente caratterizzazione e messa in sicurezza d’emergenza, bonifica e ripristino ambientale -sito d’interesse nazionale di Livorno;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Si. -Sa. e dell’Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) – Toscana;
Vista l’ordinanza collegiale interlocutoria della Sezione n. 6150 del 2014 e vista la documentata relazione di adempimento del MATTM -Direzione generale per la salvaguardia del territorio e delle acque, prot. n. 4806/STA del 17 aprile 2015;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2015 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Nicoli, Giusti, e Cecchetti, quest’ultimo per delega di Ciari;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.Con la sentenza in epigrafe il Tar Toscana ha accolto il ricorso promosso dalla società Si. avverso e per l’annullamento del verbale della conferenza di servizi convocata preso il Ministero dell’ambiente in data 2 maggio 2012 e del conseguente decreto direttoriale del MATTM -Direzione generale per la tutela del territorio e delle risorse idriche, del 17 maggio 2012, col quale sono state approvate tutte le prescrizioni conclusive della suindicata conferenza di servizi decisoria relativamente al sito di bonifica nazionale di Livorno.
Il Tar ha premesso tra l’altro di avere più volte rilevato che gli articoli 17 del d.lgs. n. 22/1997 e 242, 252 e 253 del d.lgs. n. 152/2006 non consentono all’Amministrazione procedente di imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta, sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l’obbligo di bonifica, di rimozione e di smaltimento dei rifiuti e, in generale, l’obbligo della riduzione dei luoghi al pristino stato, obbligo da porre unicamente in capo al responsabile dell’inquinamento, soggetto responsabile che le autorità amministrative hanno l’onere di ricercare e di individuare con la conseguenza che ai fini della responsabilità de qua occorre che sussista e che sia provata, attraverso l’esperimento di un’adeguata istruttoria, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’azione o l’omissione e il superamento – o il pericolo concreto e attuale di superamento – dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al possessore dell’immobile solamente in ragione di tale ultima sua qualità.
In sentenza si è osservato come, nel caso in esame, dagli atti istruttori sia emersa l’insufficienza delle indagini effettuate e poste a base dell’obbligo, a carico della società, di procedere alla messa in sicurezza d’emergenza della falda acquifera del sito, essendosi manifestata, nel verbale della conferenza di servizi, una sorta di “equiordinazione” degli attuali proprietari delle aree dislocate sul sito ai fini dell’affermazione della loro responsabilità: il principio comunitario “chi inquina paga” -hanno soggiunto i giudici di primo grado- impone che l’Amministrazione compia adeguate indagini per accertare l’autore delle condotte che hanno determinato la contaminazione, in assenza di che le prescrizioni adottate finirebbero col gravare, inammissibilmente, anche (o solo) sul soggetto che, occasionalmente si trovi ad avere la disponibilità del bene, in evidente contrasto con la normativa in materia che addossa, anche l’onere degli interventi di emergenza, al responsabile del fatto (cfr. gli artt. 240, 242 e 244 del Codice dell’ambiente).
Nella specie, ha proseguito la sentenza, l’affermazione di responsabilità degli attuali proprietari non risulta sufficientemente indagata né sul piano della correlazione tra l’attività effettivamente svolta e il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione rilevate, né sul piano temporale, con riferimento alla data in cui i soggetti sono stati presenti sul sito, ovvero siano subentrati, per varie vicende contrattuali, ai precedenti proprietari…
Per un verso la ricorrente…ha acquistato il ramo d’azienda relativo alla produzione di calcestruzzi dalla precedente proprietaria Be., solo il 27 dicembre 2007 (ossia dopo che la contaminazione era già stata rilevata), per altro verso non pare che sussista alcuna ragionevole correlazione tra le sostanze inquinanti rinvenute e l’attività svolta dalla ricorrente.
Per contro…sarebbe stato necessario indagare, dove possibile, in che modo e in che misura sia potuta avvenire la probabile trasmigrazione, attraverso la falda acquifera, di tali sostanze prodotte da altre aziende i cui siti di produzione confinano con quello della ricorrente….
Di qui l’accoglimento del ricorso e l’annullamento degli atti impugnati, con condanna del Ministero dell’ambiente alle spese.
2.Il MATTM e gli altri soggetti pubblici specificati in epigrafe, tutti patrocinati dall’Avvocatura generale dello Stato, hanno proposto appello contro la sentenza con un unico, articolato motivo, concernente violazione e falsa applicazione degli articoli 240 e 242 del Codice dell’ambiente, violazione del principio comunitario “chi inquina paga” ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione apparente.
Si è costituita l’ARPAT per eccepire la propria carenza di legittimazione passiva nel processo e in ogni caso per aderire alla posizione del Ministero appellante.
Anche Sa. s.p.a., quale incorporante per fusione della s.p.a. Si., si è costituita per resistere, controdeducendo in modo ampio e concludendo per la reiezione dell’appello e per la conferma della sentenza.
3. Con ordinanza interlocutoria n. 6150 del 2014 la Sezione ha disposto l’acquisizione, agli atti di causa, d’informazioni sull’esito dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea disposti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con le ordinanze n. 21 e n. 25 del 2013.
4. Il MATTM -Direzione generale per la salvaguardia del territorio e delle acque, con documentata nota del 17 aprile 2015, ha segnalato alla Sezione la sopravvenuta pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 4 marzo 2015, dopodiché l’appellante e la società appellata hanno illustrato le rispettive posizioni con memorie conclusive e all’udienza del 3 dicembre 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
5. In via preliminare va rilevato che nell’atto d’appello il Ministero critica anzitutto il rilievo, svolto in sentenza e ritenuto dirimente ai fini dell’esonero di Si. “da ogni obbligo ambientale”, relativo all’acquisto del ramo d’azienda di Be., avvenuto nel dicembre del 2007, ossia dopo che la contaminazione era stata già rilevata.
Sotto questo primo profilo, secondo l’appellante, la sentenza avrebbe omesso di valutare gli effetti dell’intervenuta cessione del ramo d’azienda da Be. a Si..
Il Ministero osserva in particolare che, per effetto dei passaggi societari illustrati a pagina 5 del ricorso in appello, Si. deve ritenersi succeduta in universum jus nella posizione di Be., per effetto del trasferimento del complesso dei rapporti giuridici che facevano capo a quest’ultima (nell’appello si sottolinea che Si. e Be. svolgono entrambe la medesima attività, di produzione e vendita di calcestruzzo preconfezionato e di inerti).
La successione in universum jus suddetta si ha infatti non solo nei casi di fusione di imprese o di incorporazione, ma anche nelle ipotesi di cessione di ramo d’azienda.
Sotto un secondo profilo, la sentenza viene contestata nella parte in cui è stata ritenuta insussistente una ragionevole correlazione tra le sostanze inquinanti rinvenute e l’attività di Si..
Nell’appello si deduce che il superamento delle concentrazioni di soglia di contaminazione -CSC di sostanze inquinanti rinvenute in situ (per i terreni, con riferimento ai parametri cromo, nichel e idrocarburi pesanti; quanto alle acque sotterranee, per i parametri ferro, manganese, solfati e ammoniaca: v. pagina 37 e seguenti del verbale di conferenza di servizi del 2 maggio 2012, sesto punto all’o.d.g.; sul vasto e generale stato di contaminazione delle acque di falda si veda anche a pag. 67 del verbale) è da ritenersi collegato all’attività, di produzione di calcestruzzo, svolta da Si..
Infatti ferro, manganese e cromo sono impiegati nella produzione del calcestruzzo quali additivi.
Nell’appello si soggiunge che l’addebito di responsabilità per l’inquinamento di un sito può essere accertato anche sulla base di circostanze indiziarie e presuntive, sufficienti per gravità, precisione e concordanza a far concludere circa l’esistenza di un nesso causale tra le contaminazioni rilevate e l’attività dell’impianto gestito nel tempo.
Inoltre, l’imputabilità dell’inquinamento può derivare da condotte attive ma può discendere anche solamente da condotte omissive, e a questo fine l’autorità pubblica preposta alla tutela ambientale può avvalersi pure delle presunzioni semplici di cui agli articoli 2727 e seguenti cod. civ. prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che inducano a ritenere verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che si sia verificato un superamento delle soglie di concentrazione d’inquinanti, e che il superamento dei parametri coinvolti sia attribuibile ad autori determinati.
Nella specie, la presenza nel tempo di società attive nella produzione e nel confezionamento di calcestruzzo e l’utilizzo di sostanze, poi rinvenute nelle acque sotterranee, compatibili con l’attività svolta da Si., giustificano l’adozione del provvedimento impugnato in primo grado.
Sempre in via preliminare va rammentato che l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 21 del 2013, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione interpretativa: “se i princìpi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del 21 aprile 2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13 e 24 considerando) – in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
L’interpretazione prospettata dall’Adunanza Plenaria si faceva carico di superare alcune criticità insorte nell’esame di una pluralità di casi, in cui il responsabile dell’inquinamento risultava nella maggior parte dei casi irreperibile per avere, con operazioni negoziali di sospetta portata elusiva, alienato la cosa inquinata, mentre il nuovo proprietario trovava proprio nelle richiamate disposizioni inerenti alla limitazione della sua responsabilità (essendo ammessa solo una responsabilità di tipo patrimoniale correlata al valore commerciale del cespite) una sorta di commodus discessus al fine di liberarsi dei ben più gravosi oneri economici connessi alla integrale bonifica del sito.
Con sentenza del 4 marzo 2015 (resa nella causa C-534/13), la Corte del Lussemburgo ha confermato e chiarito il proprio orientamento (invero, già espresso nella sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08), non diverso da quello preponderante emerso nell’Ordinamento italiano e richiamato dalla stessa ordinanza di rinvio dell’Adunanza plenaria, affermando che “la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”.
La decisione conferma la legittimità della disposizione che esclude l’imposizione, a carico del proprietario estraneo all’inquinamento del sito, di misure di prevenzione o di riparazione.
Tornando alla controversia odierna occorre poi ricordare che con la sentenza impugnata il Tar ha accolto il ricorso della società Si., e ha annullato il verbale della conferenza di servizi del 2 maggio 2012 contenente la richiesta di attivazione d’interventi di messa in sicurezza d’emergenza, e il DDG del 17 maggio 2012 di approvazione delle prescrizioni stabilite nel verbale, per due ragioni in realtà autonome tra loro, vale a dire a) per insufficiente istruttoria e difetto di motivazione, con particolare riferimento alla carenza d’indagini sulla correlazione tra l’attività -di confezionamento di calcestruzzo pronto per l’edilizia- svolta da Si., e il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione -CSC, per i parametri indicati sopra; e b) per l’estraneità di Si. all’inquinamento in quanto subentrata a Be. solo alla fine del 2007, vale a dire dopo il rilevamento della contaminazione; sicché è da ritenere che per l’accoglimento dell’appello vadano confutate con successo ambedue le -concettualmente separate- statuizioni del Tar.
Ciò posto l’appellante, nell’introdurre, in appello, il criterio della prova per presunzioni (su cui v. anche la memoria difensiva del MATTM del 2 novembre 2015, da pag. 4), integra in sede giudiziale, in maniera inammissibile, la motivazione dell’atto impugnato in primo grado, come desumibile dal verbale del 2 maggio 2012.
E invero, nel fare richiamo alla riconducibilità del superamento delle concentrazioni di soglia di contaminazione all’attività di produzione di calcestruzzo, l’appellante finisce per modificare, in sede processuale, in maniera inammissibile, la motivazione posta a base del provvedimento impugnato in primo grado, con il quale l’Amministrazione aveva ritenuto di poter richiedere l’attivazione degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza a prescindere da qualsiasi ricerca e accertamento di responsabilità individuali e in definitiva sulla sola base dell’appurata contaminazione dei suoli di proprietà (peraltro, limitatamente a quanto consta al settore nord -est dell’area), e delle acque di falda (in modo diffuso).
A questo proposito, come rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 2376 del 2011, pronunciata su una controversia non priva di somiglianze con quella odierna, la predetta forma di integrazione della motivazione risulta inammissibile in quanto si risolve nell’introduzione, per la prima volta in sede processuale, di elementi di fatto che avrebbero dovuto essere oggetto di istruttoria e di contraddittorio in sede procedimentale.
Diversamente opinando il processo finirebbe per diventare il luogo di celebrazione del procedimento, e non, come invece deve essere, il momento deputato al controllo di legittimità di una decisione provvedimentale adottata all’esito di un procedimento già concluso.
Ciò implica che la legittimità dei provvedimenti impugnati non può che essere valutata considerando gli elementi e la motivazione su cui gli stessi si fondano, dato che, se così non fosse, si ammetterebbe, di fatto, un’azione diretta ad accertare se sussistono i presupposti per l’adozione del provvedimento prima e a prescindere dall’esercizio del potere nella sede procedimentale.
In altri termini, e concludendo sul punto, la sede dedicata a stabilire se l’inquinamento è imputabile alla società appellata è il procedimento; in quel contesto, nel rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale, l’Amministrazione potrà far valere eventuali circostanze che depongano nel senso dell’imputabilità dell’inquinamento della società odierna appellata.
Ciò conferma la correttezza della decisione appellata con la quale i giudici di primo grado hanno rilevato come l’impugnata richiesta d’interventi di messa in sicurezza d’emergenza non fosse sorretta da un’adeguata istruttoria e motivazione in ordine all’accertamento di un’effettiva responsabilità in capo all’autore dell’inquinamento, non essendo consentita, come più volte affermato dalla Sezione (anche con la citata decisione n. 2376 del 2011: si veda il p. 5., sull’illegittima imposizione di misure di bonifica basate in via esclusiva sulla mera proprietà del sito contaminato), l’imposizione d’interventi di messa in sicurezza d’emergenza a carico di un soggetto quale mero proprietario dell’area contaminata.
Bene quindi la sentenza (v. DIRITTO, pagine 7 e 8) ha escluso che potesse venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva gravante sul proprietario semplicemente in ragione di tale sua qualità; e bene ha ribadito l’insufficienza delle indagini effettuate e poste a base dell’obbligo, a carico di Si., di procedere alla messa in sicurezza d’emergenza della falda acquifera del sito, essendosi manifestata, nel verbale della conferenza di servizi, una inaccettabile “equiordinazione” degli attuali proprietari delle aree dislocate sul sito ai fini dell’affermazione della loro responsabilità, indagata in modo insufficiente anzitutto sul piano della correlazione tra l’attività effettivamente svolta e il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione rilevate.
In ogni caso, anche a prescindere dal fatto che risultano svolte attività industriali nelle proprietà confinanti con quella dell’appellata, non è stata comprovata in maniera adeguata la riconducibilità dei superamenti delle soglie di concentrazione degli inquinanti suindicati all’attività della società Si., non bastando la mera compatibilità tra sostanze inquinanti e attività di produzione di calcestruzzo. Dagli atti dell’istruttoria la responsabilità di Si. risulta tutt’altro che compiutamente accertata.
In definitiva, nelle condizioni date, alla ricorrente in primo grado non potevano essere legittimamente richiesti gli interventi in questione.
Una volta confermata la correttezza della statuizione della sentenza con la quale i giudici di primo grado hanno fatto discendere l’illegittimità degli atti impugnati (verbale e DDG di approvazione delle prescrizioni) dall’insufficienza istruttoria e motivazionale dedotta in primo grado e ribadita dall’appellata, perde peso, divenendo irrilevante -e quindi, in ultima analisi, inammissibile per carenza d’interesse-, il primo profilo dell’appello, basato sull’assunto per cui, per effetto dei passaggi societari illustrati nel ricorso in appello, Si. dovrebbe ritenersi succeduta inuniversum jus nella posizione di Be..
Da tutte le considerazioni svolte sopra discende il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata, non prima, però, di avere dichiarato la carenza di legittimazione passiva di ARPAT, atteso che la sua partecipazione alla conferenza di servizi del 2 maggio 2012 si è concretizzata in una mera attività istruttoria, interna al procedimento, svolta su richiesta del Ministero competente all’adozione del provvedimento finale, come tale priva di contenuto provvedimentale, e di lesività, autonomi.
Nelle oggettive peculiarità della controversia il collegio ravvisa, in base al combinato disposto di cui agli articoli 26, comma 1, c. p. a. e 92, comma 2, c. p. c., eccezionali ragioni per l’integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, previa dichiarazione della carenza di legittimazione passiva dell’Arpat,
lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Spese del grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 dicembre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Stefano Baccarini – Presidente
Roberto Giovagnoli – Consigliere
Andrea Pannone – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria il 09 febbraio 2016.
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