Consiglio di Stato,Sentenza|15 dicembre 2020| n. 8037.
Non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque d’inedificabilità, anche relativa.
Sentenza|15 dicembre 2020| n. 8037
Data udienza 11 novembre 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Sanzioni – Ingiunzione a demolire – Zona sottoposta a vincolo – Condizioni di condonabilità – Art. 32, comma 27, lett. d), L. n. 326/2003 – Accorpamento concretizzato nella creazione di un unico fabbricato – Dimensioni – Modifica sagoma, area di sedime e prospetti – Aumenti di superficie e volumetria – Nuova costruzione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8107 del 2011, proposto dalla signora Gi. De Ci., rappresentata e difesa dall’avvocato Ma. An., con domicilio eletto presso lo studio legale Pe. in Roma, viale (…),
contro
il Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., An. Cu., An. Pu., Gi. Ta. e An. Ca., con domicilio eletto presso lo studio “Società Gr. e as.” S.r.l. in Roma, Corso (…),
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Campania Sezione Quarta n. 2703/2011, resa tra le parti, concernente l’ingiunzione a demolire opere abusive.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 11 novembre 2020, in collegamento da remoto in videoconferenza, il Cons. Antonella Manzione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con appello n. r.g. 8107/2011 la signora Gi. De Ci. ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, n. 2703 del 2011 con la quale è stato respinto il ricorso (n. r.g. 1923 del 2011) proposto per l’annullamento dell’ordinanza n. 657 del 28 dicembre 2010, di ingiunzione a demolire un manufatto abusivo consistente in un corpo di fabbrica strutturato in acciaio e laterizi di superficie pari a metri quadrati 100, edificato in prossimità della tangenziale, oggetto di istanza di condono ex l. 24 novembre 2003, n. 326.
2. Il Tribunale adito nella propria decisione ha valorizzato la circostanza che l’abuso non era condonabile, per cui la relativa repressione in quanto atto dovuto e necessitato nei contenuti non richiedeva la previa comunicazione di avvio del procedimento, né un’esplicita motivazione aggiuntiva.
3. L’interessata contesta la sentenza in quanto:
– non sarebbe stato scrutinato il quarto motivo di ricorso, inerente la necessità del previo formale rigetto del condono prima di addivenire alla sanzione demolitoria, non avendo alcun valore al riguardo la nota del 14 aprile 2011, invocata dalla difesa erariale, in quanto mero scambio epistolare interno agli uffici;
– il lasso di tempo intercorso tra la comunicazione di avvio del procedimento, risalente al 26 aprile 2005, e il successivo atto demolitorio, datato 28 dicembre 2010, violerebbe il principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione;
-l’atto infine sarebbe affetto da plurime figure sintomatiche di sviamento di potere, siccome evidenziato nel ricorso di primo grado, le cui doglianze vengono pertanto integralmente riproposte. In particolare, la specificità della disciplina del tipo di condono invocato (c.d. “terzo condono”) consentirebbe la sanabilità anche di opere realizzate in zone soggette a vincolo, purché previo parere dell’Autorità preposta alla sua tutela (art. 32, comma 43, della l. n. 326/2003); esse sono rimaste in loco per ben sei anni senza che il Comune si sia determinato ad adottare il provvedimento di demolizione, dovendo a quel punto fare ricorso alla procedura di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto l’intervento era un semplice accorpamento di vecchi comodi rurali e non una nuova costruzione, ed era stato realizzato in una zona, la conca di Agnano, da tempo alterata nella sua originaria consistenza morfologica paesaggistica dall’insistenza di molteplici altre costruzioni.
4. Si è costituito in giudizio il Comune di Napoli chiedendo la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado.
5. Con nota versata in atti in data 10 novembre 2020 il difensore dell’appellante ha chiesto disporsi rinvio o cancellazione della causa dal ruolo adducendo di “essersi posto in autoisolamento” per “motivi personali” in relazione all’emergenza epidemiologica in atto.
6. Alla pubblica udienza dell’11 novembre 2020, svoltasi con modalità da remoto ai sensi dell’art. 25, comma 2, del decreto legge 137 del 28 ottobre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
7. Preliminarmente il Collegio ritiene di dover respingere l’istanza di rinvio, alternativa, peraltro, a quella di cancellazione dal ruolo, non essendo correlata ad obiettive problematiche di salute e tenuto conto che “l’autoisolamento” o “quarantena volontaria” non sarebbe stata affatto preclusiva della discussione da remoto, ove richiesta dalla parte perché ritenuta necessaria a chiarire ulteriormente i termini della controversia.
8. Nel merito, l’appello è infondato, e come tale da respingere.
9. Rileva il Collegio che punto essenziale della controversia è la condonabilità o meno dell’abuso edilizio posto in essere dalla ricorrente, nonché l’invocata pregiudizialità del relativo procedimento prima di addivenire all’impugnata ingiunzione demolitoria.
Dirimente appare al riguardo la circostanza, incontestata tra le parti, che l’intervento è stato realizzato in zona sottoposta a vincolo ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, divergendo le reciproche prospettazioni sulle conseguenze di tale disciplina, stante che ad avviso della ricorrente essa non sarebbe ostativa all’accoglimento della domanda. Sul punto, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, rispetto alla quale la Sezione non ha ragione di discostarsi, afferma che ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n. 269/2003, convertito nella l. n. 326/2003, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, tra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) siano state realizzate prima dell’imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (cfr., per tutti, Cons. Stato, Sez. VI, 17 gennaio 2020 n. 425, id., 11 dicembre 2018, n. 6991, 16 agosto 2017, n. 4007 e 18 maggio 2015, n. 2518).
Pertanto, parimenti fermo è il principio, tra quelli sinteticamente appena enunciati, per cui non possono essere comunque sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque d’inedificabilità, anche relativa (cfr. così pure Cons. Stato, Sez. II, 15 ottobre 2019, n. 703).
Nel caso di specie, la parte ha insistito nella errata qualificazione dell’abuso da parte del Comune di Napoli, che ne avrebbe travisato la consistenza, laddove esso si era concretizzato nel mero “accorpamento di vecchi comodi rurali che esistevano da anni”, sì da realizzare un deposito, dunque un’opera “praticamente” senza carico urbanistico (motivo sub 3 del ricorso di primo grado, riproposto in appello). Con ciò pretermettendo che la natura e consistenza delle strutture preesistenti va valutata in comparazione con il risultato finale dell’attività edilizia, al fine di ricondurre lo stesso, avuto riguardo alla base di partenza, al singolo paradigma definitorio previsto dalla legge. Il “semplice” accorpamento cui fa riferimento l’appellante si è concretizzato nella creazione di un unico fabbricato, di dimensioni pari a mq. 100, modificando pertanto, se non la destinazione d’uso, la sagoma, l’area di sedime e i prospetti, a tacere degli aumenti di superficie e volumetria. Il Collegio ritiene pertanto da condividere la scelta sistematica del Comune di Napoli che ne ha assimilato la realizzazione ad una “nuova costruzione”.
E comunque, anche a voler accedere, in via di mera astrazione, alla tesi di parte, l’istanza di condono non era corredata del necessario e pregiudiziale nulla osta paesaggistico, lacuna che ne rendeva pur sempre improcedibile il relativo iter.
10. Tale ragione di infondatezza dell’appello travolge anche le ulteriori censure di primo grado quivi riproposte, in quanto non specificamente attinenti alla questione sopra evidenziata, rispetto alla quale dunque, non sarebbero in grado, anche in ipotesi di fondatezza, di superare l’elemento ostativo al condono che sorregge indirettamente il provvedimento impugnato.
La confermata abusività dell’intervento, infatti, una volta riconosciuto che non era valutabile la relativa istanza di condono, rendeva obbligatoria l’adozione del conseguito provvedimento sanzionatorio. La circostanza che il Comune non abbia previamente formalizzato la sua reiezione si palesa del tutto priva di pregio, vuoi perché essa può considerarsi implicitamente assorbita nella disposta ingiunzione a demolire, destinata sotto tale profilo ad assumere la configurazione di un vero e proprio atto complesso; vuoi soprattutto perché la improcedibilità consegue all’incompletezza, anche “ontologica”, della pratica, e comporta l’arresto del procedimento prima ancora del suo avvio, risolvendosi in una sostanziale archiviazione, le cui ragioni, intrinseche nella disciplina dell’istituto, non necessitano di particolare esplicitazione. Essa pertanto sarebbe stata sicuramente opportuna, nell’ottica dei rapporti di correttezza e buona fede che devono improntare le relazioni tra il privato e la pubblica amministrazione (v. da ultimo l’art. 1, comma 2 bis, della l. n. 241/1990, come novellato dall’art. 12, comma 1, della l. n. 120/2020), ma non necessaria al punto da rendere la relativa mancanza idonea ad incidere sulla validità del successivo atto sanzionatorio. A ridetta incompletezza -recte, inadeguatezza- della domanda consegue finanche, come noto, il mancato inizio della decorrenza dei termini per la maturazione del silenzio assenso, potendo la stessa essere considerata sostanzialmente tamquam non esset.
11. La natura necessitata, nell’an e nel quomodo, dei provvedimenti sanzionatori, rende superflue, come sinteticamente evidenziato dal T.A.R. per la Campania, sia la comunicazione di avvio del relativo procedimento, sia l’individuazione della motivazione sottesa all’adozione del provvedimento, essendo l’interesse pubblico al ripristino della legalità intrinseco all’esigenza di salvaguardare le corrette scelte di governo del territorio che il previsto rilascio di titoli di legittimazione va a tutelare.
Nel caso di specie, peraltro, la previa informativa vi era pure stata (26 aprile 2005), tant’è che la parte si duole dell’eccessivo intervallo temporale intercorso tra il suo inoltro e l’adozione del provvedimento finale. Essa lamenta, cioè, paradossalmente, il troppo tempo concessole per argomentare la propria difesa in seno al procedimento, ascrivendo allo stesso la necessità che il Comune ne argomentasse le ragioni. Rileva il Collegio che caso mai tale argomentazione aggiuntiva si sarebbe resa necessaria nei confronti della collettività, essendo effettivamente incomprensibile la lungaggine procedurale nella repressione -doverosa- dell’abuso edilizio in controversia.
Va da sé che egualmente priva di pregio è la doglianza in ordine proprio a suddetta tempistica repressiva, costituendo ius recpetum, da ultimo cristallizzato anche nei principi enunciati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, che la natura permanente degli illeciti edilizi e, per contro, la imprescrittibilità del potere di vigilanza sul territorio di cui, oggi, all’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, lo rendono attivabile senza limiti di tempo, non potendo ipotizzarsi una qualsiasi forma di tutela dell’affidamento del privato sulla sostanziale “tolleranza” o “ignoranza” degli abusi realizzati (cfr. Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8, ove si legge, seppure quale mero obiter, che nel caso in cui l’amministrazione abbia -doverosamente, sia pure tardivamente- adottato un ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria, “non vengano in rilievo neppure ai fini motivazionali, le categorie tipiche dell’autotutela decisoria, quanto – piuttosto – il diverso tema del tardivo esercizio di un’attività repressiva che è e resta doverosa indipendentemente dal decorso del tempo e dalla valutazione dei diversi interessi in gioco “).
Nel contesto di tale ricostruita cornice si collocano anche le censure -in verità, pure di non chiara intellegibilità – che invocano proprio le disposizioni generali sul potere di vigilanza, sostenendone il travisamento. Con ciò confondendo il piano dei ritardi, sicuramente biasimevole, ma non significativo di scelte particolari a favore dell’autore dell’illecito, con quello della sostanza, che resta la necessità di reprimere, rimuovendolo, l’illecito stesso. E’ evidente infine che il degrado di un territorio, quand’anche riconducibile al perpetrarsi di tali evidenziate prassi di scarso presidio da parte delle Amministrazioni a ciò preposte, ovvero perfino al rilascio di titoli edilizi a costruzioni analoghe, ormai cristallizzatisi nel tempo, non legittima ex se l’emulazione dell’abuso, sommando illiceità ad illiceità .
12. In ragione delle suesposte osservazioni l’appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, 12 maggio 2011, n. 2703, di rigetto del ricorso di primo grado n. r.g.1923/2011.
13. Le spese di giudizio del grado di appello seguono la soccombenza, e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante alle spese del grado di giudizio, che liquida in euro 2.000 (duemila/00) a favore del Comune di Napoli, oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Carlo Deodato – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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