Un’edificazione realizzata sine titulo non può essere dotata di impianti di scarico delle acque bianche e nere

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 18 febbraio 2019, n. 1103.

La massima estrapolata:

Un’edificazione realizzata sine titulo, non può per ciò stesso (e solo per questo) essere ragionevolmente inibita dal venire dotata di impianti di scarico delle acque bianche e nere. Le lentezze amministrative che caratterizzano i processi di individuazione e di eliminazione degli immobili sine titulo ovvero di conclusione dei procedimenti di sanatoria riguardanti tali immobili (cui si aggiungono gli ulteriori tempi, spesso lunghi, necessari ad eliminare fisicamente gli immobili per i quali neppure ricorrono i presupposti per una sanatoria) sono idonei ad aggravare sensibilmente le condizioni dell’ambiente e del territorio le volte in cui tali edificazioni neppure risultano dotate di impianti di smaltimento dei reflui. Questi invero, salvo l’esistenza di fosse ovvero di altri sistemi di neutralizzazione chimica di detti reflui, a servizio delle edificazioni nate sine titulo, non possono avere altro destino che disperdersi ‘tal qualì nel terreno e nell’ambiente”.

Sentenza 18 febbraio 2019, n. 1103

Data udienza 31 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 296 del 2013, proposto dalla Mi. Ma. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, Se. Co., rappresentati e difesi dagli avvocati Gr. Co. e Ma. Ma., con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, Viale (…);
An. Or., rappresentata e difesa dagli avvocati Gr. Co. e Ma. Ma., con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, Viale (…);
Lo. Co. ed altri, rappresentati e difesi dall’avvocato Ma. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Viale (…);
contro
Ministero per i beni e le attività culturali, Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, Via (…);
nei confronti
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. Mu. e Um. Ga., domiciliata ex lege in Roma, Via (…);
Regione Lazio, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda), n. 4025/2012, resa tra le parti, concernente diniego di autorizzazione paesistica sulla domanda di condono edilizio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali, della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma e di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2019 il Cons. Italo Volpe e uditi per le parti gli avvocati Ma. Ma., Pa. De Nu. dell’Avvocatura generale dello Stato e Ro. Ro., in dichiarata delega dell’avvocato Um. Ga.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Col ricorso in epigrafe le persone fisiche ivi pure indicate, nonché la Mi. Ma. s.r.l. (di seguito “MM”), hanno impugnato la sentenza del Tar per il Lazio n. 4025/2012, pubblicata il 4.5.2012, che – con l’onere delle spese – ha respinto il loro originario ricorso volto all’annullamento:
– del provvedimento di diniego di autorizzazione paesistica del 24.10.2008;
– della nota 22.7.2008, con la quale si è espresso parere sfavorevole alla procedura di condono edilizio.
1.1. La sentenza premette in fatto – qui in sintesi – che:
– le persone fisiche in epigrafe erano, l’uno (marito), il proprietario di un terreno sul quale insisteva un capannone destinato ad attività industriale artigianale e, l’altra (moglie), l’esercente, nel capannone, di attività di deposito e commercio di attrezzature e macchinari industriali;
– di avere esse, nel 1995, presentato istanza di condono edilizio dell’immobile, in relazione alla quale la Soprintendenza, con nota 22.7.2008, aveva espresso parere negativo;
– di avere altresì, prima (il 31.1.2008), chiesto l’allaccio del capannone in fogna, onde dotarlo di servizi sanitari a norma, ricevendo però dalla Soprintendenza un avviso negativo con nota 13.2.2008;
– di avere, poi, chiesto un nulla-osta paesaggistico, onde ottenere il certificato di allaccio in fogna, per il quale la Soprintendenza s’era espressa (come già peraltro in passato) negativamente con nota 24.10.2008;
– oltre a ciò, relativamente alla predetta richiesta di condono (riguardante la costruzione del capannone e di una sua tettoia di pertinenza), era pure stato chiesto alla Soprintendenza archeologica il parere ex art. 32 della l.n. 47/1985. Parere espresso però negativamente il 22.7.2008 in quanto il capannone, per un verso, stava su area di interesse archeologico, mai controllata da questo punto di vista dalla Soprintendenza e tuttavia ragionevolmente oggetto di un tale interesse per la segnalata presenza di resti archeologici (un tracciato stradale antico e un’area di frammenti fittili) e, per altro verso, aveva compromesso lo stato dei luoghi dal punto di vista paesaggistico.
1.2. La sentenza quindi ha, in sintesi, deciso l’infondatezza:
– di un primo motivo (volto a sostenere che l’immobile non fosse abusivo), giacchè l’edificio in realtà lo era, in quanto mai effettivamente assistito da un titolo edilizio;
– di un secondo motivo (volto ad evidenziare l’assenza di reperti archeologici in situ), in quanto – pur in assenza di riscontri effettivi in ordine alla presenza di tali reperti – la Soprintendenza aveva tuttavia adeguatamente spiegato i motivi del suo ragionevole convincimento circa la loro esistenza;
– di un terzo motivo (di difetto di motivazione), in quanto l’argomentazione degli atti impugnati era invece sufficiente;
– di un quarto motivo (volto ad evidenziare che l’avviso contrario all’allaccio in fogna era stato giustificato con motivi di abusivismo edilizio e non con riguardo ai profili dell’interesse archeologico della zona), perché – in effetti – era proprio l’abusivismo dell’edificio (più che la sua interferenza con l’interesse archeologico della zona) a giustificare l’avviso contrario all’allaccio in fogna;
– un quinto motivo (di disparità di trattamento), in quanto ogni pur eventuale irregolarità commessa in precedenza, e non colta per tempo dall’Amministrazione, non avrebbe per ciò stesso giustificato un assenso nel caso di specie;
– un sesto motivo (di violazione dell’art. 7 della l.n. 241/1990), perché quelli censurati “pur avendo efficacia immediatamente lesiva, sono tuttavia atti infraprocedimantali, di natura consultiva, inseriti in procedimenti (quello di rilascio dell’istanza di condono e di nulla osta paesaggistico) di competenza del comune, al quale spetterà l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento, previa comunicazione ex art. 10 bis dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”.
2. Con l’appello – pur non enunciandosi specifiche censure – si deduce l’erroneità della sentenza in quanto, ad avviso della parte, essa:
– afferma prematuramente l’abusività dell’immobile (che potrà dirsi, eventualmente, tale solo dopo un provvedimento formale del Comune, non avendo la Soprintendenza competenze al riguardo), vista la persistente pendenza dell’istanza di condono;
– reputa assodata la rilevanza archeologica del sito quanto, invece, essa è ancora tutta da dimostrare;
– ha respinto ingiustificatamente il terzo motivo di ricorso in primo grado;
– non ha colto che la Soprintendenza, giustificando il suo avviso negativo con la pretesa natura abusiva dell’immobile, ha fatto scorretto uso dei suoi poteri, neanche soffermandosi sul fatto che – con le dovute cautele – un allaccio in fogna ben può essere assentito anche per immobili siti in aree d’interesse archeologico;
– non ha tenuto altresì in conto il denunciato vizio di disparità di trattamento;
– ha superficialmente valutato la portata dell’ultima censura di primo grado.
3. In questo giudizio il Ministero si è solo costituito.
4. Il giudizio è poi proseguito ad iniziativa dei pure costituitisi eredi della persona fisica, nel frattempo deceduta, sopra indicata come il “marito”, nonché dei soci della MM.
5. Roma Capitale, costituitasi, con memoria del 7.12.2018 ha difeso le motivazioni della sentenza appellata, precisando peraltro, in fatto, che nelle more del giudizio di appello, il suo competente ufficio con nota n. QI 147414 del 12.9.2018, aveva comunicato alla parte privata il preavviso (avverso il quale “gli odierni ricorrenti non presentavano osservazioni nei termini di legge”) di rigetto dell’istanza di condono sulla base del suindicato parere negativo n. 21306/08 emesso dalla Soprintendenza, essendo le opere edilizie abusive realizzate in area sottoposta ai seguenti vincoli:
– “Beni paesaggistici ex art. 134, comma 1, lett. a) del Codice dei beni culturali e del paesaggio e del D.M. 24/02/1986”;
– “P.T.P. 15/12 Appia TPa/28”.
6. La parte appellante, con memoria del 27.12.2018, precisato in fatto che, nel frattempo, la MM era stata cancellata dal registro delle imprese, ha riepilogato i propri argomenti.
7. La causa quindi, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 31.1.2019, è stata ivi trattenuta in decisione.
8. Il presente giudizio deve essere evidentemente reso in funzione delle circostanze e della situazione di fatto esistenti all’epoca degli atti impugnati.
9. Alla stregua di ciò, allora, ancorchè incontestatamente edificato sine titulo, l’immobile per cui è causa deve poter essere definitivamente qualificato abusivo soltanto a seguito del provvedimento finale di Roma Capitale – competente ratione materiae – col quale essa avrà chiuso il procedimento di sanatoria avviato su istanza della parte privata.
10. Occorre poi considerare che un’edificazione, per quanto realizzata sine titulo, non può per ciò stesso (e solo per questo) essere ragionevolmente inibita dal venire dotata di impianti di scarico delle acque bianche e nere.
E ciò specie quando è la stessa proprietà dell’edificazione a mostrare un grado di attenzione per l’inquinamento dei sedimi e delle falde sottostanti che, altrimenti (ossia in assenza di un impianto di scarico a servizio dell’edificazione), l’uso (abitativo o meno) dell’immobile può provocare.
Ciò, peraltro, soprattutto in considerazione dei tempi notoriamente non celeri che buona parte degli enti locali impiegano per inibire e condurre ad abbattimento le edificazioni sine titulo ovvero che gli stessi impiegano per concludere l’esame di istanze di sanatoria di edificazioni erette sine titulo (e, successivamente, per inibire e condurre ad abbattimento le edificazioni per le quali dette istanze, dopo la loro presentazione, sono respinte).
In altri termini, le lentezze amministrative che caratterizzano i processi di individuazione e di eliminazione degli immobili sine titulo ovvero di conclusione dei procedimenti di sanatoria riguardanti tali immobili (cui si aggiungono gli ulteriori tempi, sovente non brevi, necessari ad eliminare fisicamente gli immobili per i quali neppure ricorrono i presupposti per una sanatoria) sono idonei ad aggravare sensibilmente le condizioni dell’ambiente e del territorio le volte in cui tali edificazioni neppure risultano dotate di impianti di smaltimento dei reflui. Questi invero, salvo l’esistenza di fosse ovvero di altri sistemi di neutralizzazione chimica di detti reflui, a servizio delle edificazioni nate sine titulo, non possono avere altro destino che disperdersi ‘tal qualì nel terreno e nell’ambiente.
Tanto deve dunque indurre a riflettere le Amministrazioni competenti, a partire da quelle locali, sul fatto che, in presenza di istanze degli stessi privati interessati, volte a realizzare (a loro spese) collegamenti con impianti fognari già esistenti, soluzione sicuramente non ottimale è quella di un mero diniego di siffatti allacci e questo per la sola ragione formale che le edificazioni coinvolte sono sorte, appunto, sine titulo.
Deve semmai essere preoccupazione delle Amministrazioni competenti, una volta che le edificazioni sine titulo risultino a tutti gli effetti abusive (perché si siano conclusi negativamente, ma formalmente, anche i relativi procedimenti di sanatoria), fare in modo che, allora, le edificazioni e tutti i relativi allacci – inclusi quelli eventualmente assentiti e realizzati nelle more dell’accertamento dell’assoluta abusività delle costruzioni – vengano rimossi, effettivamente e definitivamente, in tempi assolutamente brevi.
11. Chiarito quanto precede, nel caso di specie occorre allora osservare che i censurati atti della Soprintendenza risultano illegittimi, quanto alle loro parti riguardanti l’asserita abusività dell’edificazione per cui è causa e la conseguente ritenuta non assentibilità di un allaccio fognario a cura e spese della parte privata, dimostratasi desiderosa di farlo, nella misura in cui essi si esprimono:
– per un verso, in esercizio di competenze non strettamente proprie della Soprintendenza medesima;
– per altro verso, con motivazioni praticamente di stile.
A tale ultimo riguardo, invero, occorre osservare che gli avvisi contrari della Soprintendenza poggiano, in pratica, su una qualificazione dell’area quale d’interesse archeologico e sul fatto che, di conseguenza, l’eventuale realizzazione dell’allaccio fognario avrebbe compromesso detto interesse.
Tuttavia vale osservare che:
– da un lato, l’affermazione dell’interesse archeologico del sito è stata indotta dalla sola presenza, nelle vicinanze, di reperti in superfice e, dunque, a vista, mentre nessuna campagna di indagine sotterranea risulta essere mai stata condotta in zona;
– da un altro lato, che la successiva affermazione (secondo la quale la realizzazione del collegamento fognario avrebbe potuto compromettere il presunto interesse archeologico del sito) urta con la considerazione (di natura logica, in primo luogo) secondo la quale – seguendo il ragionamento della Soprintendenza – in alcun luogo il cui sotterraneo mostrasse tratti d’interesse archeologico potrebbero mai eseguirsi interventi di allaccio fognario. Cosa che invece, all’evidenza, non è;
– da un altro lato ancora, e di contro, che un assenso ai lavori di collegamento fognario, a cura e spese della parte privata che li ha richiesti, può costituire valida occasione (se adeguatamente monitorata) per riscontrare realmente la presenza o meno di reperti di effettivo interesse archeologico nel sottosuolo.
Dunque, gli atti censurati – quanto meno nei termini sopra indicati – risultano affetti da quei vizi di motivazione e di contraddittorietà prospettati nell’originario ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e, di conseguenza, l’appello va ora accolto e, in riforma della sentenza impugnata, l’originario ricorso di primo grado è accolto per quanto di ragione.
Per il resto, rimane impregiudicata la successiva attività amministrativa di Roma Capitale, quanto al definitivo e formale accertamento della abusività dal punto di vista edilizio della costruzione.
12. Tenuto conto dell’esito complessivo del giudizio, ricorrono giustificati motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, accoglie l’originario ricorso di primo grado per quanto di ragione.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente FF
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Italo Volpe – Consigliere, Estensore

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