Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 11 novembre 2019, n. 7692.
La massima estrapolata:
La piena conoscenza, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi viene individuata nel momento in cui i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo.
Sentenza 11 novembre 2019, n. 7692
Data udienza 1 ottobre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2614 del 2011, proposto dal signor Si. Va., rappresentato e difeso dagli avvocati An. De. Ve. e An. Ma., con domicilio eletto presso l’avv. An. Del Ve. in Roma, viale (…),
contro
il Comune di (omissis), non costituito in giudizio,
nei confronti
– del signor En. Ca., rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Ra. e Gi. Ra., con domicilio eletto presso l’avv. El. Vi. in Roma, viale (…),
– del signor Gi. Gi., non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche Sezione Prima n. 55/2011, resa tra le parti, concernente l’impugnativa della concessione edilizia del 20 luglio 1990 per la costruzione di un laboratorio artigianale con annessa abitazione e della successiva variante del 20 dicembre 1991.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione dell’appellato signor En. Ca.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2019, il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti gli avvocati An. De. Ve. e Gi. Ra.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il presente appello è stata impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale delle Marche n. 55 del 2011, che ha dichiarato irricevibile per tardività l’impugnazione proposta – tramite ricorso straordinario trasposto a seguito della opposizione del controinteressato – dal signor Si. Va. avverso la concessione edilizia n. 178 rilasciata il 20 luglio 1990 al signor En. Ca. per la costruzione di un laboratorio artigianale con annessa abitazione e avverso la successiva variante n. 245 del 20 dicembre 1991 per la realizzazione di un muretto di recinzione di 50 centimetri.
Con il ricorso straordinario, notificato il 9 giugno 1992, sono stati proposti i seguenti motivi:
– violazione di legge in relazione all’art. 16 del r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, e alla legge 5 novembre 1971 n. 1086, per la incompetenza dei geometri alla redazione del progetto per le strutture in cemento armato, con cui si deduceva che il progetto della domanda di concessione in variante non sarebbe stato sottoscritto da un ingegnere;
– violazione delle NTA per la violazione delle distanze e delle altezze tra i fabbricati, eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione, con cui in particolare si deduceva la violazione delle distanze da parte del muro di recinzione e delle altezze nel corso della realizzazione dell’edificio, in difformità dai progetti presentati.
La sentenza ha dichiarato irricevibile il ricorso, in quanto i lavori risultavano comunque finiti a dicembre 1991, in base al certificato di abitabilità rilasciato il 23 dicembre 1991, nonché alla relazione del sopralluogo del tecnico comunale del 1 febbraio 1992, mentre il ricorso straordinario è stato notificato solo il 9 giugno 1992.
Con i motivi di appello si contesta la dichiarazione di irricevibilità del ricorso, sostenendo che si è avuta conoscenza dei vizi solo con la relazione del 2 aprile 1992 del tecnico incaricato dal signor Va. e che comunque, il 19 maggio 1992, data della relazione del coordinatore dell’ufficio tecnico comunale, i lavori non sarebbero terminati; si ripropongono poi le censure del ricorso di primo grado.
Si è costituito in giudizio il signor Ca. sostenendo la correttezza della dichiarazione di irricevibilità del ricorso essendo stato rilasciato il certificato di agibilità il 23 dicembre 1991; ha inoltre, eccepito la genericità del motivo di appello relativo alla violazione delle NTA neppure specificamente indicate; con riferimento alla incompetenza dei geometri riferita al progetto in variante ne ha dedotto l’infondatezza in quanto la concessione in variante aveva ad oggetto solo il muretto di recinzione.
In vista dell’udienza pubblica entrambe le parti hanno presentato memorie e repliche insistendo nelle rispettive posizioni.
Il sig. Ca. ha, inoltre, depositato in giudizio le sentenze della Corte d’appello di Ancona n. 367/2014 e della Corte di Cassazione n. 6917/2019 relative ad un giudizio civile instaurato dal signor Va. per la violazione delle distanze, che si è concluso con la decisione della Cassazione che ha escluso il danno per il signor Va. anche se ha riconosciuto la violazione delle altezze tramite innalzamento del terrapieno, mentre già la decisione della Corte d’appello aveva escluso la violazione delle distanze.
Nella memoria la difesa del sig. Ca. ha chiesto anche la pronuncia di condanna a carico della controparte ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
All’udienza pubblica del 1 ottobre 2019 il giudizio è stato trattenuto in decisione.
Con il primo motivo di appello si sostiene l’errore del giudice di primo grado, rispetto alla dichiarazione di irricevibilità del ricorso straordinario, richiamando la relazione del coordinatore dell’ufficio tecnico comunale del 19 maggio 1992, che avrebbe attestato la prosecuzione dei lavori a tale data nonché la relazione del tecnico incaricato dalla parte Va. del 2 aprile 1992, da cui il ricorrente avrebbe avuto effettiva conoscenza dei profili di illegittimità dei provvedimenti impugnati.
Tale motivo di appello è infondato.
In base alla consolidata giurisprudenza, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un titolo edilizio rilasciato a terzi viene individuata nel momento in cui i lavori hanno avuto inizio nel caso si contesti in radice l’edificabilità dell’area, mentre per le altre censure con la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 29 luglio 2011, n. 15; Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 5170; Sez. V n. 3777 del 27 giugno 2012; Sez. IV, 10 giugno 2014, n. 2959).
Il completamento dei lavori è, quindi, considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata (Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8705; Cons. Stato, Sez. IV, 20 gennaio 2014, n. 264).
Peraltro, tali affermazioni vengono anche contemperate con la tutela delle esigenze di certezza dell’ordinamento, per cui il terzo non può essere considerato libero di decidere, se e quando accedere agli atti. La giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha, infatti, cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello della certezza degli atti amministrativi ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale. Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quando questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, se lo stato di avanzamento dei lavori sia già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, il ricorrente ha l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, al fine di verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa. Non può, quindi, limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso. Nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra. Infatti, il principio di trasparenza, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla piena conoscenza della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena abbia contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente (Cons. Stato, Sez. IV, 21 gennaio 2013, n. 322).
Quindi, se il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (Cons. Stato, IV Sez., 28 ottobre 2015, n. 4909). Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, quindi, individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori (Cons. Stato, Sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3191).
In conclusione, la “piena conoscenza”, ai fini della decorrenza del termine per la impugnazione di un titolo edilizio viene individuata nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), al completamento dei lavori o, in relazione al grado di sviluppo degli stessi, nel momento in cui si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, del manufatto in costruzione (Cons. Stato, Sez. II, 12 agosto 2019, n. 5664; Sez. IV, 26 luglio 2018, n. 4583; id., 23 maggio 2018, n. 3075); mentre la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale (Cons. Stato, Sez. II, 26 giugno 2019, n. 4390).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie non può che essere confermata la sentenza di primo grado che ha dichiarato la irricevibilità del ricorso straordinario notificato il 9 giugno 1992 avverso la concessione edilizia rilasciata il 20 luglio 1990 e la successiva variante del 20 dicembre 1991.
Infatti, anche a prescindere dalla prova di una conoscenza anteriore degli interventi edilizi censurati, dagli atti di causa risulta, comunque, che i lavori relativi almeno al titolo edilizio del 20 luglio 1990 siano stati completati almeno nel dicembre 1991, essendo stato rilasciato il certificato di abitabilità il 23 dicembre 1991. Tale certificato dà espressamente atto della conclusione dei lavori il 23 dicembre 1991. Inoltre, in base alla relazione di sopralluogo del 1 febbraio 1992 ed alla conseguente ordinanza di sospensione dei lavori, a tale data risulta realizzato anche il muretto di recinzione (se anche in difformità dalla concessione).
Infatti sia la relazione di sopralluogo che l’ordinanza di sospensione fanno riferimento all'”innalzamento della quota di imposta del fabbricato di metri 1,60″ e alla “sopraelevazione del muro di confine” di circa 1 metro. Ne deriva che il 23 dicembre 1991, o al più tardi il 1 febbraio 1992, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, era perfettamente percepibile dal vicino interessato la lamentata violazione delle distanze e delle altezze, con conseguente tardività del ricorso straordinario notificato il 9 giugno 1992.
Rispetto a tali circostanze di fatto, è irrilevante quanto sostenuto dall’appellante con riferimento alla mancata conoscenza della relazione di sopralluogo del 1 febbraio 1992; questa, infatti, anche se non ancora conosciuta dall’appellante, dà atto che a quella data erano stati realizzati l’innalzamento del terreno e il muretto di recinzione sopraelevato rispetto al progetto approvato. Il vicino era quindi in grado di percepire l’avvenuta realizzazione delle opere.
Sostiene poi l’appellante che nella relazione del coordinatore dell’ufficio tecnico del 19 maggio 1992 sarebbe attestata la prosecuzione dei lavori ancora a tale data. Tale circostanza è irrilevante rispetto alla tardività della impugnazione dei titoli edilizi, in quanto la relazione del 19 maggio 1992, si riferisce a lavori in difformità dai titoli edilizi, che non possono dunque rilevare rispetto alla impugnazione dei titoli stessi.
Né può rilevare la relazione del tecnico di fiducia della parte ricorrente del 2 aprile 1992, trattandosi di un incarico peritale affidato privatamente dalla parte, che avrebbe avuto l’onere comunque di impugnare nel termine di sessanta giorni dalla “piena conoscenza” interpretata secondo la giurisprudenza sopra citata, dunque eventualmente esercitando tempestivamente l’accesso agli atti o comunque facendo nei termini esaminare i progetti al proprio tecnico di fiducia, circostanza che non giustifica, quindi, il ritardo nella presentazione del ricorso straordinario.
Il ricorso straordinario non può, dunque, che essere considerato irricevibile per tardività con conferma della sentenza appellata sul punto.
Con la memoria depositata il 19 luglio 2019 la difesa del sig. Ca. ha chiesto la liquidazione delle spese ed onorari “nella misura aggravata ex art. 96 c.p.c.”.
Ritiene il Collegio la inammissibilità di una tale domanda per l’assoluta genericità, in relazione alla molteplicità delle ipotesi previste ai sensi dell’art. 96 c.p.c. richiamate anche dall’art. 26 c.p.a..
Entrambe le norme, oltre alla condanna al risarcimento danni per avere resistito o agito in giudizio con dolo o colpa grave prevedono la condanna della parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di “una somma equitativamente determinata”, ai sensi dell’art. 26 c.p.a., “in presenza di motivi manifestamente infondati”. Inoltre, ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a., peraltro nel testo entrato in vigore dopo la proposizione del presente giudizio anche in appello, “il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio”.
Ritiene comunque il Collegio anche la infondatezza della domanda se qualificata come domanda di risarcimento danni per lite temeraria, non risultando provati i presupposti della mala fede o colpa grave, per l’affermazione di tale responsabilità .
Infatti, per la consolidata giurisprudenza, si tratta di una ipotesi di responsabilità aquiliana, per cui incombe sul soggetto che chiede il risarcimento l’onere di provare il dolo o la colpa grave, che non sono integrati dalla infondatezza del ricorso o dal contrasto delle prospettazioni del ricorrente con l’orientamento della giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23 aprile 2019, n. 2578).
Quanto al potere del giudice di disporre anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 26 c.p.a., la condanna della parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, o di irrogare la sanzione pecuniaria prevista dal comma 2 dell’art. 26 c.p.a., in caso di azione o resistenza in giudizio “temeraria”, ritiene il Collegio che comunque non sussistano i presupposti per l’esercizio di un tale potere d’ufficio.
La temerarietà richiesta dall’art. 26, comma 2, c.p.a. viene infatti individuata nella “consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormale” (Cons. Stato, Sez. V, 27 agosto 2014, n. 4384).
La condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata prevista anche dall’art. 96, comma 3, c.p.c., in base alla giurisprudenza della Cassazione, se non richiede la domanda di parte né la prova del danno, esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, richiede l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza) (cfr. Cass. civ., Sez. III, 12 luglio 2019, n. 18745).
Pertanto, le spese, in considerazione della soccombenza, devono essere liquidate nella somma complessiva di euro 2000,00 (duemila,00) oltre accessori di legge a carico della parte appellante e in favore della parte appellata costituita in giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e per l’effetto conferma la sentenza di primo grado.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese di giudizio nella somma complessiva di euro 2000,00 (duemila,00) oltre accessori di legge in favore della parte appellata costituita in giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Fulvio Rocco – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere
Giovanni Orsini – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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