Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 30 ottobre 2018, n. 2552.
La massima estrapolata:
Qualora una persona sottoposta a misure di protezione viola gli impegni che ha volontariamente assunto all’atto della sottoscrizione del programma di protezione, o comunque si comporta in modo tale da vanificarne il contenuto concreto dello stesso, legittimamente la Commissione dispone la revoca della protezione se la condotta di vita dell’interessato rende superflua la misure di protezione, o sia indicativa del mutamento della situazione o comunque della cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione.
Sentenza 30 ottobre 2018, n. 2552
Data udienza 15 febbraio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8341 del 2017, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Pe., Pi. Ri., con domicilio eletto presso lo studio Carla Cordeschi in Roma, viale (…);
contro
Ministero dell’Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Gen. le Dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via (…);
Commissione Centrale ex Art. 10 L. 82/91 e altri non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2018 il Cons. Umberto Realfonzo e uditi per le parti gli avvocati Ca. Co. su delega di An. Pe. e l’Avvocato dello Stato Mario An. Sc.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con l’appello di cui in epigrafe il sig. -OMISSIS-, titolare di una concessionaria auto ed imprenditore di una società di vigilanza privata, chiede la riforma della sentenza con cui il Tar Lazio ha respinto il suo ricorso diretto all’annullamento della revoca, datata 30.9.2015, dello programma di protezione speciale nei confronti suoi e del suo nucleo familiare, che era stato in precedenza accordato perché, quale testimone di giustizia, aveva denunciato i tentativi di estorsione subiti da parte di appartenenti alla criminalità organizzata.
La Commissione Centrale ex art. 10 L. n. 82/1991 aveva revocato il programma ritenendo che il testimone aveva tenuto un comportamento ritenuto incompatibile con le esigenze di tutela.
A sostegno del ricorso sono state formulate due articolate rubriche di censura relative all’errore di motivazione; violazione della L. n. 82/91, artt. 9, 13, 13 quater, 16 bis e 16 ter, del D.M. n. 161/2004, artt. 7 e 10, violazione del programma di protezione del 27.11.2014, e della delibera della Commissione centrale del 30.7.2009.
Si è costituita in giudizio l’Avvocatura dello Stato eccependo in primo luogo l’inammissibilità dell’appello e comunque la sua infondatezza.
Uditi, all’Udienza pubblica di discussione, i difensori delle parti, l’appello è stato ritenuto in decisione
DIRITTO
1.§ . In linea preliminare deve essere favorevolmente esaminata l’eccezione preliminare di inammissibilità del gravame sollevata dalla Difesa Erariale per la quale l’appello in esame si limiterebbe a riproporre meccanicamente le identiche motivazioni contenute nel ricorso di primo grado.
Infatti, come la giurisprudenza ha più volte rilevato, l’art. 101 c.p.a. richiede che, l’appello debba specificamente censurare i capi della sentenza gravata (cfr. Consiglio di Stato sez. III 03 aprile 2017 n. 1529; Consiglio di Stato sez. V, 11 maggio 2017 n. 2189, ecc.).
Nel caso in esame, con il ricorso in appello, vengono meccanicamente riproposte le medesime doglianza già introdotte in primo grado e non si censura, come prescritto, specifici capi della sentenza.
L’appello è dunque in primo luogo inammissibile per violazione dell’art. 101, comma 1, c.p.a..
E questo sarebbe in ogni caso sufficiente per la definizione del giudizio.
2.§ . Tuttavia per ragioni di giustizia sostanziale, e senza che ciò possa inficiare la coerenza logica delle conclusioni che precedono, si deve anche rilevare che, nel merito, l’appello è comunque infondato.
Entrambe le rubriche possono essere unitariamente confutate
2.§ .1. Con una prima rubrica si lamenta che, ai sensi dell’art. 9, comma 2 della L. n. 82/1991, le misure di protezione disposte avrebbero dovuto essere mantenute intatte fino al momento della cessazione del pericolo per il testimone di giustizia e per i suoi familiari. Nel caso di specie, anche dopo la disposta revoca, la DDA di Catanzaro aveva reiterato la proposta di adozione del programma di protezione.
Al ricorrente sarebbe stato solamente addebitato il rientro non autorizzato, sia pure in più occasioni, nella località di origine per cui, versandosi in un’ipotesi di revoca facoltativa, l’Amministrazione, nel bilanciamento degli interessi, avrebbe dovuto tener conto delle esigenze di tutela dell’incolumità del testimone e del suo nucleo familiare.
2.§ .2. Con la seconda rubrica si lamenta la violazione degli artt. 9, 13, 13 quater, 16 bis e 16 ter, della L. n. 82/1991; degli artt. 7 e 10 del D.M. n. 161/2004, del programma di protezione del 27.11.2014, della delibera della Commissione centrale del 30.7.2009, nonché eccesso di potere sotto vari profili.
2.§ .3. L’assunto complessivamente non merita adesione.
Con riferimento alla prima rubrica, come esattamente ricordato dal TAR, deve evidenziarsi che l’art. 13-quater del d.l. 15/01/1991, n. 8 (conv. in L. n. 82/191):
— pone il principio generale della temporaneità delle speciali misure di protezione, presidiato dal corollario del potere di revoca in conseguenza di condotte non appropriate da parte delle persone interessate ovvero di inosservanze degli impegni assunti a norma del precedente art. 12 comma 2, lettere b) ed e);
— elenca specificamente, a titolo esemplificativo, tra gli altri fatti che comportano la revoca della protezione sia “la commissione di reati indicativi del mutamento o della cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione” e sia “il ritorno non autorizzato nei luoghi dai quali si è stati trasferiti, nonché ogni azione che comporti la rivelazione o la divulgazione dell’identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure applicate”.
Nel sistema così delineato, i comportamenti posti in essere dal collaboratore sono, sia pure indicativamente, individuati direttamente dalla legge, mentre la valutazione della relativa incidenza e gravità è rimessa alla discrezionalità della Commissione Centrale la quale — quando le violazioni sono tali da rendere impossibile la prosecuzione delle misure tutorie, o comunque si pongono in difformità con le finalità del programma di protezione — può procedere alla revoca delle misure di protezione, anche a prescindere dalla valenza del contributo reso.
Infatti, qualora una persona sottoposta a misure di protezione viola gli impegni che ha volontariamente assunto all’atto della sottoscrizione del programma di protezione (o comunque si comporta in modo tale da vanificarne il contenuto concreto dello stesso) legittimamente la Commissione dispone la revoca della protezione se la condotta di vita dell’interessato rende superflua la misure di protezione, o sia indicativa del mutamento della situazione o comunque della cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione (cfr. Consiglio di Stato sez. III 25 settembre 2017 n. 4456; Consiglio di Stato sez. II 18 dicembre 2015 n. 584; Cons. Stato Sez. VI, 24-04-2009, n. 2541).
Naturalmente l’ampia discrezionalità di tali provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato sez. III 25 settembre 2017 n. 4456) implica che il sindacato di legittimità di questo Giudice non possa estendersi ad un inammissibile valutazione del merito delle scelte, ma debba limitarsi alla valutazione, sul piano dell’eccesso di potere, della ricorrenza di possibili vizi di irragionevolezza, irrazionalità, errore sui presupposti, ed ingiustizia manifesta.
Sotto questo profilo, alla luce delle concrete circostanze del caso, le valutazioni del provvedimento appaiono del tutto esenti da mende.
Del resto, non sono state in concreto contestate dall’interessato le circostanze di fatto grado. Dall’istruttoria era infatti emerso che l’interessato:
— aveva continuato, senza autorizzazione, a permanere nella località di origine, pregiudicando così la incolumità sua e dei suoi familiari;
— nonostante le diffide notificategli, aveva fatto solo saltuariamente rientro in località protetta;
— a seguito di un dissidio per motivi economici con un suo conoscente, lo aveva minacciato di morte, e per questo era stato indagato e gli era stato imposto il divieto di detenzione ed il porto di armi;
— in un’altra occasione, in violazione delle prescrizioni impostegli, si era incamminato a piedi lungo la Statale 18 in direzione di Lamezia Terme, minacciando di sdraiarsi sull’asfalto per impedire il transito dell’auto del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, presente in loco per un impegno istituzionale.
Le ripetute inadempienze e intemperanze comportamentali dimostrano non solo che l’appellante aveva disatteso volontariamente agli obblighi contrattuali sottoscritti ed aveva violato le più elementari norme di sicurezza e riservatezza, ma soprattutto che la sua condotta di per sé costituiva una vera e propria rinuncia alle misure di protezione sull’evidente implicito presupposto dell’inutilità delle stesse per l’interessato.
Il mutamento del rischio e della cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione era indirettamente dimostrata dal fatto che non aveva avuto alcun ritegno nell’esporsi in pubblico e da commettere fatti costituenti reato.
Con un ultimo profilo si lamenta che, a seguito della revoca, avrebbero dovuto almeno essere disposte in favore del testimone di giustizia misure speciali di protezione, adottabili anche a prescindere dal trasferimento in località protetta, essendo insufficienti le misure ordinarie.
Alla luce delle considerazioni che precedono, non si ravvisa alcun profilo di illegittimità della mancata adozione delle speciali misure di protezione in favore dell’appellante, in quanto alla luce degli elementi emersi non si emergevano reali ragioni di sicurezza per cui si sarebbe dovuto procedere in tal senso.
In ogni caso il profilo della sua sicurezza era stato comunque considerato e ragionevolmente salvaguardato dall’Amministrazione. Dunque ha ragione il TAR quando osserva che la Commissione Centrale, nell’adottare il provvedimento impugnato, aveva incaricato il Servizio Centrale di Protezione di segnalare la posizione del ricorrente alle competenti Autorità di Pubblica Sicurezza, ai fini della sicurezza dell’appellante.
Entrambi i motivi sono dunque infondati.
3.§ . In conseguenza l’appello deve essere dichiarato inammissibile e comunque respinto perchè infondato. La sentenza merita dunque integrale conferma.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando:
1. respinge l’appello, come in epigrafe proposto.
2.Condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente giudizio che vengono liquidate in Euro 3.000,00 oltre agli accessori come per legge in favore dell’Amministrazione resistente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini – Presidente
Umberto Realfonzo – Consigliere, Estensore
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti – Consigliere
Pierfrancesco Ungari – Consigliere