Ordine di demolizione ex art. 31 DPR n. 380/01

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 24 agosto 2020, n. 5178.

La massima estrapolata:

L’ ordine di demolizione ex art. 31 DPR n. 380/01 configura un provvedimento vincolato, dal contenuto interamente predeterminato dal legislatore, da assumere previo accertamento della natura abusiva dell’opera in concreto realizzata, in ragione della sua edificazione in assenza del prescritto permesso di costruire.

Sentenza 24 agosto 2020, n. 5178

Data udienza 9 luglio 2020

Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Ordine di demolizione – Natura – Individuazione – Art. 31 TU edilizia – Applicazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6047 del 2019, proposto da
-OMISSIS- in proprio e nella qualità di erede di -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall’avvocato Al. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di Rimini, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati El. Fa. e Ma. As. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per l’annullamento e la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna Sezione Prima n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Rimini;
Visti tutti gli atti della causa;
Viste le note di udienza ex art. 4 D.L. n. 28/2020 depositate dall’avvocato Al. Ma. per le parti ricorrenti;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2020 svoltasi ai sensi dell’art. 84 comma 5, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, attraverso l’utilizzo di piattaforma “Mi. Te.”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ordinanza n. -OMISSIS- del 26 marzo 2012 il Comune di Rimini ha ingiunto – in qualità di proprietari – ai Sig.ri -OMISSIS-e -OMISSIS-, nonché – in qualità di committente – alla Società -OMISSIS- snc, la demolizione delle opere abusive realizzate su porzione di terreno distinto al C.F. al Fg. (omissis) map (omissis), sito in Rimini, -OMISSIS-, consistenti in:
1. realizzazione di servizio igienico in muratura di mt 2,78 x 3,05, corrispondente a mq 8,47, indicato al punto 3 del verbale tecnico del 16 aprile 2002;
2. in aderenza al servizio igienico sopra indicato realizzazione di un manufatto in legno di mt 4,50×2,50, per un totale di mq 13,12, h mt 2,00 min e 2,10 max, utilizzato come ufficio, indicato al punto 3.2 del verbale del 16 aprile 2002;
3. box in lamiera delle dimensioni di 5,25×2,50, per un totale di mq 13,12, realizzato in aderenza all’ufficio di cui sopra, indicato al punto 3.3 del verbale del 16 aprile 2002;
4. passo carrabile con cancello scorrevole arretrato di circa un metro dalla strada utilizzato per accedere all’area, indicato nell’ultimo capoverso del punto 3 del verbale del 16 aprile 2002;
5. manufatto delle dimensioni di m 9,55×2,75, per un totale di mq 26,27, di altezza interna netta di m 4,00, utilizzato come garage, indicato al punto 5.3 del verbale del 16 aprile 2002;
6. box in lamiera delle dimensioni di mt 5,00 x 2,30, per un totale di mq 11,50, altezza interna m 2,15, adibito a deposito, indicato al punto 6.1 del verbale del 16 aprile 2002;
7. tettoia delle dimensioni di m 2,00 x 2,25, per un totale di mq 4,50, altezza m 2,10, indicato al punto 6.2 del verbale del 16 aprile 2002;
8. box in lamiera in aderenza alla tettoia di m 6,20×2,30, per un totale di mq 14,26, altezza di m 2,30, utilizzato come deposito, indicato al punto 6.3 del verbale del 16 aprile 2002;
9.container adibito ad ufficio magazzino posto sul lato destro dell’ingresso delle dimensioni di m 8,98×4,80, per un totale di mq 43,10, di altezza netta di mt 2,40, indicato nell’ultimo capoverso del verbale del 14 giugno 2005;
10. cambio di destinazione di suolo agricolo in parcheggio pertinenziale per automezzi di impianto di stoccaggio e recupero di rifiuti speciali non pericolosi, per complessivi mq 3.200.
2. Il Sig. -OMISSIS-, in proprio e in qualità di liquidatore della Società -OMISSIS-. snc, nonché i Sig.ri-OMISSIS- e -OMISSIS- hanno agito in giudizio, dinnanzi al Tar Emilia Romagna, Bologna, impugnando la predetta ordinanza di demolizione n. -OMISSIS-/12, i presupposti verbali tecnici del 16 aprile 2002, prot. n. 67357 e del 14 giugno 2005, prot. n. 98564, nonché la relazione tecnica dell’11 ottobre 2011, prot. n. 150828 e ogni altro atto antecedente, conseguente, preordinato e comunque connesso.
A fondamento dell’impugnazione è stata dedotta la legittimità delle opere in contestazione, in gran parte sanate da condoni edilizi nel tempo intervenuti in relazione ai beni di proprietà dei ricorrenti, in altra parte autorizzate con DIA del 2 agosto 2004 e una minima parte consistenti in manufatti non necessitanti di titolo edilizio.
In particolare, secondo la prospettazione dedotta in ricorso:
– gli abusi descritti dai numeri 1 (servizio igienico in muratura di mq 8,47), 2 (in aderenza al servizio igienico prefato, manufatto in legno di mq 13,12 utilizzato come ufficio) e 3 (box in lamiera di mq 13,12 realizzato in aderenza all’ufficio) erano stati sanati dal condono n. 53337 del 22 dicembre 2004;
– il passo carrabile con cancello scorrevole di cui al numero 4 cit. non si traduceva in un’opera edilizia, esistendo comunque da oltre trenta anni, risultando, pertanto, non perseguibile per il lungo tempo trascorso;
– il manufatto/garage indicato al n. 5 dell’ingiunzione era stato sanato dai condoni nn. 66293 e 66300 del 14.8.2008;
– i due box in lamiera, il container e la tettoia scoperta individuati ai numeri 6, 7, 8 e 9 del provvedimento ingiuntivo configuravano manufatti precari, smontabili, appoggiati sul terreno e di dimensioni limitate e comunque tali per il contesto in cui erano stati realizzati e per il lungo tempo trascorso dalla loro realizzazione (30-40 anni) da non creare pregiudizio territoriale;
– il piazzale contestato al n. 10 dell’ingiunzione era stato eseguito con DIA, sospesa dal Comune di Rimini con provvedimento non seguito dai provvedimenti definitivi nel prescritto termine di 45 giorni, ragion per cui la DIA, per essere resa improduttiva di effetti, avrebbe dovuto essere rimossa con atti in autotutela, nella specie non intervenuti.
In ogni caso, i ricorrenti hanno dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, anche per il lungo tempo trascorso dalla loro realizzazione, in assenza di adeguata motivazione da parte dell’Amministrazione procedente, con conseguente maturazione di un affidamento in capo al privato.
3. Nel corso del giudizio di prime cure l’Amministrazione comunale ha adottato l’ordinanza n. 89955 del 22 giugno 2012, con cui, rilevato che con istanze di condono n. 724/94 del 1° marzo 1995, reg. 44522/A e reg. 44522/B era stata chiesta la legittimazione delle opere rilevate al punto 5 dell’ordinanza di demolizione n. -OMISSIS- del 26 marzo 2012, nonché preso atto che, ai sensi dell’art. 38 L. n. 47/85, la presentazione dell’istanza di concessione in sanatoria comporta la sospensione del procedimento repressivo unicamente per le opere che ne sono oggetto:
– ha annullato parzialmente l’ordinanza ingiunzione n. -OMISSIS- del 26 marzo 2012 limitatamente al ripristino disposto per le opere di cui al punto 5 cit.; nonché
– ha confermato per il resto il predetto ordine di demolizione, relativamente alle ulteriori opere elencate nell’ordinanza n. -OMISSIS- del 26 marzo 2012, non riconducibili ad istanze di condono edilizio o a provvedimenti di condono già emessi, né legittimate da ulteriori titoli edilizi.
4. Le parti ricorrenti hanno impugnato con motivi aggiunti l’ordinanza n. 89955 del 22 giugno 2012, il presupposto verbale tecnico richiamato dalla medesima ordinanza e ogni altro atto antecedente, conseguente, preordinato e comunque connesso.
Al riguardo, i ricorrenti hanno esteso all’ordinanza sopravvenuta i motivi di doglianza articolati con il ricorso principale, evidenziando, altresì, che:
– i manufatti di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’elenco contenuto nell’ordinanza di demolizione n. -OMISSIS-/12, oltre ad essere legittimati dal condono n. 53337 del 22 dicembre 2004, configuravano opere precarie, smontabili, appoggiate sul terreno e di dimensioni limitate, risalenti nel tempo e non idonee ad pregiudicare l’assetto del territorio circostante;
– il piazzale di cui al n. 10 dell’ordinanza di demolizione era stato comunque eseguito sulla base di DIA (n. 139031 del 2 agosto 2004) soltanto sospesa dal Comune di Rimini con provvedimento non seguito da misure definitive, né da atti di autotutela, con conseguente sua legittimazione per effetto del silenzio tenuto dall’Amministrazione, idoneo a formare un titolo edilizio implicito; in ogni caso, risultavano decorsi 7 anni, con conseguente consolidamento di un affidamento incolpevole in capo ai ricorrenti.
5. Il Comune di Rimini si è costituito in giudizio, al fine di resistere al ricorso.
6. Nel corso del giudizio succedeva al Sig. -OMISSIS-.
7. Il Tar, a definizione del giudizio, ha rigettato il ricorso, tenuto conto che:
-non risultava necessaria alcuna particolare motivazione per ordinare la demolizione di manufatti abusivi anche se l’abuso risaliva nel tempo;
– la concessione in sanatoria rilasciata alla dante causa dei ricorrenti e citata nel motivo di ricorso riguardava due manufatti ad uso ripostiglio ubicati in zona agricola non contemplati nell’ordine di demolizione;
– il piazzale di 3200 mq non era legittimato da alcun condono edilizio né titolo abilitativo poiché la D.I.A. presentata nel 2004 era in contrasto con le disposizioni di P.R.G.; la trasformazione di un terreno agricolo in parcheggio e zona di stoccaggio materiali, comportava una modifica del territorio autorizzabile solo con permesso di costruire, successivamente richiesto e negato dal Comune;
– risultava necessario il permesso di costruire anche per i manufatti considerati dai ricorrenti precari laddove destinati ad usi permanenti e prolungati nel tempo anche se non infissi al suolo, incidendo in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio; inoltre, quando l’abuso risulta di notevoli dimensioni ed è composto da diverse opere, in connessione funzionale tra loro, si è in presenza di un’unica trasformazione edilizia richiedente il permesso di costruire senza possibilità di una valutazione atomistica dei singoli abusi.
8. I ricorrenti in primo grado hanno appellato la sentenza di prime cure, denunciandone l’erroneità con l’articolazione di quattro motivi di impugnazione.
Con separata istanza, depositata in data 4 novembre 2019, la parte appellante ha chiesto la sospensione della sentenza gravata e degli atti impugnati in primo grado, richiamando i motivi di appello a sostegno del requisito del fumus boni iuris, nonché, in relazione al requisito del periculum in mora, rappresentando che il Comune aveva comunicato l’avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale delle opere oggetto di ordinanza di demolizione rimasta inottemperata.
9. Il Comune di Rimini si è costituito in giudizio, resistendo all’appello.
10. Con memoria depositata in vista della camera di consiglio del 5 dicembre 2019 la parte appellante ha insistito nella richiesta di sospensione dell’efficacia della sentenza appellata, replicando alle deduzioni svolte dall’Amministrazione comunale.
11. Con ordinanza n. 6163 del 9 dicembre 2019 la Sezione ha accolto l’istanza cautelare presentata dalla parte appellante, nonché ha ordinato al Comune la produzione, anche in forma cartacea, della concessione in sanatoria n. 227872 del 22.12.2004 cit., unitamente ai relativi allegati e agli atti del procedimento, corredati da apposita relazione di chiarimenti in ordine all’ambito oggettivo di applicazione del provvedimento n. 227872/04.
12. Il Comune appellato ha adempiuto all’ordine istruttorio, depositando in data 3 gennaio 2020 una relazione di chiarimenti, unitamente agli allegati ivi richiamati.
13. In vista dell’udienza pubblica di discussione la parte appellante con memoria depositata in data 8 giugno 2020 ha preso posizione sulla relazione dei chiarimenti, rilevando, altresì, che:
– “quelli che l’allegato 2 della relazione indica come numeri 1, 2 e 3 sono due servizi igienici annessi ad un manufatto in legno e un box in lamiera, anch’esso appoggiato al suolo. Dalla numerazione è nato il dissenso tra le parti: mentre parte ricorrente si riferiva ai numeri 1, 2 e 3 dello stato di fatto della sanatoria, la relazione si riferisce ad altri manufatti con gli stessi numeri in adiacenza a quelli oggetto della concessione in sanatoria”;
– il cancello scorrevole non necessitava di permesso di costruire, non potendo qualificarsi come opera edilizia;
– il piazzale di cui al numero 10 dell’ordinanza demolitoria doveva ritenersi legittimato da DIA non annullata;
– i manufatti configuravano entità precarie prive di impatto paesaggistico e volumetrico.
Per l’effetto, i singoli manufatti non avrebbero potuto essere assoggettati alla sanzione demolitoria, dovendo essere sanzionati ai sensi dell’art. 13 L.R. n. 23/2004, nel testo sostituito dall’art. 43 L.R. n. 15/2013, “salvo che l’interessato provveda al ripristino dello stato legittimo” (pag. 3 memoria).
14. Il Comune appellato con memoria depositata in data 15 giugno 2020 ha replicato alle avverse deduzioni.
15. La parte appellante ha depositato note di udienza in data 7 luglio 2020, controdeducendo rispetto a quanto argomentato dall’Amministrazione comunale in sede di replica e insistendo nelle proprie conclusioni.
16. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza pubblica del 9 luglio 2020.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di appello la sentenza di prime cure viene censurata nella parte in cui, rigettando il secondo motivo di ricorso principale e dei motivi aggiunti, ha statuito soltanto sul tempo decorso dalla realizzazione delle opere in contestazione, quando invece il ricorrente aveva contestato non solo il dato temporale, ma anche l’irragionevolezza e la sproporzione della sanzione demolitoria, afferente a residui singoli abusi risalenti nel tempo, pertinenziali rispetto alle opere oggetto dei condoni e della DIA, finalizzati ad un insediamento esistente giusta autorizzazione dell’amministrazione procedente; elementi non esaminati dal primo giudice, con conseguente integrazione di un vizio ex art. 112 c.p.c., per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Anche dalla sentenza penale prodotta in primo grado emergerebbe la preesistenza dell’insediamento come attività produttiva in una parte del territorio non più destinato a parco; parimenti il piazzale oggetto dell’ordine di demolizione, era stato “realizzato da precedenti scavi con materiale inerte, nel lungo tempo intercorso successivamente agli anni tra il 1987 e il 1993 e poi successivamente” (pag. 8 appello).
Il motivo di appello è infondato.
1.1 Preliminarmente, si osserva che non risulta utilmente invocabile a sostegno del motivo di impugnazione la sentenza penale di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, prodotta dalla parte ricorrente in primo grado sub doc. 12 deposito del 18 giugno 2012.
Il giudicato penale, invocabile nei confronti della parte pubblica in sede amministrativa ai sensi dell’art. 654 c.p.p (nella specie risulta, invece, irrilevante l’art. 652 c.p.p. non facendosi questione di azione risarcitoria), si forma esclusivamente in presenza di una sentenza di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento, in relazione ai fatti nella loro realtà fenomenica – condotta, evento, nesso di causalità con esclusione di antigiuridicità, colpevolezza e di qualsiasi altra questione che, derivando dai fatti accertati, può assumere rilevanza ai fini della qualificazione giuridica dei rapporti controversi (Consiglio di Stato Sez. VI, 24 marzo 2020, n. 2060)- e nei confronti dell’Amministrazione che abbia preso parte al giudizio (cfr. Consiglio di Stato Sez. II, 24 ottobre 2019, n. 7245).
Nel caso di specie, invece, la sentenza in parola:
– non ha pronunciato l’assoluzione degli imputati ex art. 530 c.p.a., ma ha emesso una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato ex art. 529 c.p.p., tenuto conto che non era “d’altra parte evidente l’insussistenza del fatto, l’innocenza degli imputati o la presenza di altre causa di non punibilità . Come sopra evidenziato, infatti, il mutamento di destinazione d’uso dell’area avrebbe imposto la necessità di un permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera Denunzia di inizio Attività, mentre l’elemento soggettivo in capo agli imputati non può essere escluso, stante la conoscenza (o conoscibilità ) del Piano Regolatore e dei vincoli pubblici esistenti nella zona e numerose essendo state le interlocuzioni con l’Amministrazione comunale, in relazione anche alle pregresse istanze di sanatoria” (pag. 13 sentenza);
– è intervenuta a definizione di un giudizio in cui l’Amministrazione non ha preso parte;
– ha comunque dato atto nel contenuto motivazionale che “la condotta degli imputati non integri il reato di lottizzazione abusiva, ma la meno grave contravvenzione di realizzazione di opere edilizie in assenza di titolo abilitativo” (pag. 4 sentenza); il che è coerente con la qualificazione giuridica delle opere abusive data dall’Amministrazione con i provvedimenti impugnati in prime cure, attraverso cui non è stata contestata la fattispecie di lottizzazione abusiva ex art. 30 DPR n. 380/01, bensì quella di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, ai sensi dell’art. 31 DPR n. 380/01 (espressamente richiamato in sede provvedimentale).
Ne deriva che la sentenza penale in commento non può fondare il motivo di appello, in quanto inidonea a produrre un effetto conformativo nell’ambito del presente giudizio ex art. 654 c.p.c. e comunque recante statuizioni (in ordine alla qualificazione della condotta degli imputati come realizzazione di opere edilizie in assenza di titolo abilitativo) coerenti con l’accertamento amministrativo contestato nella presente sede.
1.2 Ciò premesso, si osserva che il Tar ha correttamente rilevato che in materia edilizia non è necessaria alcuna particolare motivazione per ordinare la demolizione di manufatti abusivi anche se l’abuso è assai risalente nel tempo.
L’ordine di demolizione ex art. 31 DPR n. 380/01, infatti, configura un provvedimento vincolato, dal contenuto interamente predeterminato dal legislatore, da assumere previo accertamento della natura abusiva dell’opera in concreto realizzata, in ragione della sua edificazione in assenza del prescritto permesso di costruire.
Non occorre, invece, una motivazione specifica in relazione al tempo intercorso o alla proporzionalità della sanzione ripristinatoria all’uopo da emettere, non risultando l’Amministrazione procedente titolare di un potere discrezionale, implicante una scelta in ordine alla tipologia di sanzione in concreto da assumere.
Pertanto, non dovendosi bilanciare l’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso con l’interesse privato alla conservazione di un’utilità, risalente nel tempo, conseguita in assenza del necessario titolo abilitativo, la demolizione risulta congruamente motivata mediante la descrizione del manufatto realizzato e l’indicazione della norma violata: “Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l’adozione dell’ingiunzione di ripristino, una motivazione ulteriore rispetto all’indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi….” (Consiglio di Stato Sez. II, 07 febbraio 2020, n. 988).
1.3 L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie dimostra l’infondatezza delle censure articolate dalla parte appellante.
Il Comune di Rimini, una volta accertato che le opere in concreto realizzate erano qualificabili come nuova costruzione e, pertanto, necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire (valutazione contestata con i successivi motivi di appello), era tenuto ad adottare la sanzione demolitoria, non ostandovi circostanze ulteriori, rappresentate dal tempo intercorso fra l’illegittima edificazione e l’adozione dell’ordine ingiuntivo, dall’asserita strumentalità delle opere ad un’attività economica svolta dal proprietario autorizzata dall’Amministrazione competente o dal contesto territoriale di riferimento, non connotato all’attualità dalla destinazione a parco.
Come correttamente ritenuto dal primo giudice, risulta sufficiente la motivazione sottesa alle ordinanze di demolizione impugnate nel presente giudizio, non potendo riconoscersi rilevanza alle ulteriori circostanze dedotte a sostegno del motivo di appello.
Difatti, ferma rimanendo la necessità di un accertamento riferito alla natura giuridica delle opere per cui è controversia, al fine di verificare la possibilità di una loro qualificazione in termini di nuova costruzione, richiedente il previo rilascio del permesso di costruire – questioni oggetto dei successivi motivi di appello, al cui esame, dunque, si rinvia – nella specie, essendo stati impugnati atti vincolati, il vaglio di legittimità non poteva essere condotto, scrutinando la ragionevolezza e la proporzionalità della decisione in concreto assunta dall’Amministrazione comunale, tenuto conto che la tipologia di sanzione all’uopo adottabile (ripristinatoria) non dipendeva da scelte discrezionali del Comune procedente, bensì era interamente predeterminata dal legislatore.
Come precisato da questo Consiglio, infatti, “costituisce jus receptum il principio a mente del quale l’ordine di demolizione è atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 17 luglio 2018, n. 4368)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 24 aprile 2019, n. 2627).
Il Comune di Rimini, dunque, attraverso gli atti impugnati in prime cure, ha adeguatamente motivato l’ordinanza di demolizione, descrivendo compiutamente le opere oggetto di accertamento, nonché individuando il pertinente parametro normativo assunto come violato, integrato dalla lettera g.1) Allegato L.R. n. 31/02, dall’art. 13 L.R. n. 23/04 e dall’art. 31 DPR n. 380/01, facendosi questione di interventi di nuova costruzione necessitanti del previo rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza è condizione sufficiente per l’emissione dell’ordine di demolizione.
1.4 Ne deriva, dunque, l’infondatezza del primo motivo di appello, tenuto conto che il Tar.
– da un lato, non è incorso in un’omessa pronuncia, avendo chiarito che nella specie non fosse necessaria “alcuna particolare motivazione per ordinare la demolizione di manufatti abusivi anche se l’abuso è assai risalente nel tempo”, ritenendo, dunque, che il Comune non dovesse specificare ragioni ulteriori rispetto a quelle fondanti le decisioni amministrative censurate, con conseguente rigetto del corrispondente motivo di ricorso, attraverso cui veniva dedotta la necessità di una motivazione rafforzata, che prendesse in esame le peculiarità del caso concreto. Il riferimento al dato temporale recato nella sentenza di prime cure non può, dunque, integrare il vizio di omessa pronuncia, per avere il giudice di prime cure omesso di statuire sulle ulteriori circostanze caratterizzanti il caso concreto dedotte dalla parte ricorrente, tenuto conto che il Tar, avendo escluso la necessità di una “particolare motivazione per ordinare la demolizione di manufatti abusivi”, ha statuito sul corrispondente motivo di impugnazione, evidenziando come il Comune non dovesse ulteriormente prendere in esame e giustificare la propria decisione in ragione della “particolare” fattispecie concreta prospettata dal ricorrente;
– dall’altro, ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali, supra richiamati, affermatisi in materia edilizia, essendo sufficiente che l’Amministrazione procedente descriva le opere abusive, indicando la norma violata, senza la necessità di motivare sulle ulteriori e particolari deduzioni rassegnate dalla parte ingiunta, quali quelle riferite al dato temporale, alla strumentalità delle opere allo svolgimento di un’attività economica debitamente autorizzata in una parte del territorio non più destinata a parco, nonché all’entità e alla consistenza dell’abuso; circostanze non valorizzabili per graduare la sanzione in concreto da applicare alla stregua della gravità dell’illecito all’uopo contestato, dovendo comunque provvedersi alla demolizione ove si sia in presenza di una nuova costruzione edificata in assenza del prescritto permesso di costruire.
2. Con il secondo motivo di appello la sentenza di prime cure viene censurata, non avendo il Tar valutato la documentazione prodotta dal ricorrente, con riferimento ai manufatti nn. 1, 2 e 3 cit., da ritenere compresi nella portata applicativa della concessione in sanatoria del 22.12.2004 (n. 9 produzione 18.6.2012).
Il motivo di appello è infondato.
2.1 Come riportato nella descrizione dei fatti di causa, la Sezione con ordinanza n. 6163 del 9 dicembre 2019, tra l’altro, ha ordinato al Comune la produzione, anche in forma cartacea, della concessione in sanatoria n. 227872 del 22.12.2004 (sanatoria n. 53347), unitamente ai relativi allegati e agli atti del procedimento, corredati da apposita relazione di chiarimenti in ordine all’ambito oggettivo di applicazione del provvedimento n. 227872/04.
Il Comune, in adempimento all’ordine istruttorio, ha depositato in data 3 gennaio 2020 una relazione di chiarimenti, unitamente agli allegati ivi richiamati.
Dalla documentazione in atti (in specie dal documento n. 9 prodotto da parte ricorrente in primo grado il 18 giugno 2012, dal documento n. 10 prodotto dalla parte resistente in data 26 giugno 2012 e dalla relazione di chiarimenti con annessi allegati prodotta dalla parte appellata in data 3 gennaio 2020) emerge che i manufatti in parola non risultano compresi nella portata oggettiva della concessione in sanatoria del 22.12.2004 n. 227872.
In particolare, come emergente dal contenuto motivazionale del provvedimento n. 227872/04, la concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell’art. 39 L. n. 724/94 è stata rilasciata in relazione alle opere abusive realizzate in fabbricato ubicato in Rimini, -OMISSIS- distinto al NCEU al Foglio (omissis) Mappale (omissis) e consistenti “nella realizzazione di due manufatti in materiale precario ad uso accessorio (ripostiglio) in zona agricola e rappresentato nell’elaborato grafico dello stato di fatto trasmesso con nota prot. n. 172952 del 23/09/2013 ed allegato alla pratica”.
I manufatti oggetto di condono edilizio, pertanto, risultano essere soltanto due e risultano destinati ad uso ripostiglio.
Le ordinanze di demolizione impugnate nel presente giudizio, invece, quanto alle opere elencate ai numeri 1, 2 e 3, fanno riferimento a:
– la realizzazione di servizio igienico in muratura di mt 2,78 x 3,05, corrispondente a mq 8,47, indicato al punto 3 del verbale tecnico del 16 aprile 2002;
– in aderenza al servizio igienico sopra indicato, la realizzazione di un manufatto in legno di mt 4,50×2,50, per un totale di mq 13,12, h mt 2,00 min e 2,10 max, utilizzato come ufficio, indicato al punto 3.2 del verbale del 16 aprile 2002;
– box in lamiera delle dimensioni di 5,25×2,50, per un totale di mq 13,12, realizzato in aderenza all’ufficio di cui sopra, indicato al punto 3.3 del verbale del 16 aprile 2002.
Emerge, pertanto, la diversità tra i manufatti oggetto del condono edilizio n. 227872/04 e le opere oggetto di ingiunzione di demolizione, tenuto conto che:
– i manufatti oggetto del condono edilizio sono due, mentre le opere oggetto di demolizione sono tre, ragion per cui non può ritenersi che la concessione edilizia in sanatoria sia comunque riferibile a tutte le opere oggetto di ordine di demolizione;
– i manufatti oggetto del condono edilizio sono destinati ad uso ripostiglio, mentre due delle opere oggetto di demolizione sono destinate a servizio igienico e ufficio, ad ulteriore dimostrazione di come le opere oggetto di sanatoria non potessero coincidere con quelle oggetto dei provvedimenti di demolizione, in ragione della diversa destinazione d’uso;
– alla stregua di quanto emergente dall’elaborato grafico dello stato di fatto trasmesso con nota prot. n. 172952 del 23/09/2013, allegato alla concessione edilizia in sanatoria n. 227872/04 e dall’allegato 2 alla relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione in data 3 gennaio 2020, in adiacenza alle opere oggetto di condono edilizio sul mappale 238 sono stati realizzati ulteriori tre manufatti, corrispondenti a quelli oggetto dell’ordinanza di demolizione; il che conferma l’infondatezza della censura svolta con il motivo di appello, facendosi questione nel presente giudizio di opere ulteriori rispetto a quelle condonate, non assentite da alcun tiolo edilizio.
Peraltro, in sede di memoria conclusionale, la stessa parte appellante ha dato atto che ” Dalla numerazione è nato il dissenso tra le parti: mentre parte ricorrente si riferiva ai numeri 1, 2 e 3 dello stato di fatto della sanatoria, la relazione si riferisce ad altri manufatti con gli stessi numeri in adiacenza a quelli oggetto della concessione in sanatoria” (pag. 2 memoria dell’8 giugno 2020); ragion per cui sembra che la stessa parte appellante ammetta che i manufatti oggetto dell’ordine di demolizione siano diversi da quelli condonati, in quanto realizzati in adiacenza a quelli oggetto della concessoria in sanatoria; il che, come osservato, corrisponde a quanto desumibile dalla documentazione in atti.
2.2 Le opere in esame non potrebbero, peraltro, neanche caratterizzarsi per la natura pertinenziale; profilo, comunque, non specificatamente dedotto nell’ambito del secondo motivo di appello.
La giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis, sez. VI, 25 marzo 2020, n. 2084) ha, infatti, precisato che la nozione di pertinenza urbanistica è più ristretta rispetto a quella civilistica, definita dall’articolo 817 del codice civile.
La qualifica di pertinenza urbanistica è, infatti, applicabile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cd. principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica.
La pertinenza urbanistico-edilizia è, dunque, configurabile allorquando sussista un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce.
A differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi, il manufatto può essere considerato una pertinenza quando, da un lato, sia preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, essendo funzionalmente inserito al suo servizio, dall’altro, sia sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporti carico urbanistico, esaurendo la sua finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale.
Le opere in esame non potrebbero qualificarsi come pertinenza urbanistica, in quanto, da un lato, sono caratterizzate da dimensioni rilevanti, dall’altro, sono comunque suscettibili di autonoma utilizzazione, non avendo, dunque, valenza meramente accessoria, potendo essere impiegate per la conservazione di cose non strettamente strumentali ad una costruzione principale, peraltro, nella specie neanche specificatamente individuata.
Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base della natura dei materiali utilizzati per la realizzazione dei relativi manufatti, in ipotesi idonei a consentirne una facile rimozione, tenuto conto che in subiecta materia “si deve seguire “non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale”, per cui un’opera, se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee, non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie, anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 1° aprile 2016)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 12 marzo 2020, n. 1783).
Pertanto, facendosi questione di manufatti risalenti nel tempo, a prescindere dal materiale impiegato per la loro edificazione, non può ritenersi che si sia in presenza di opere precarie, attesa la loro destinazione alla realizzazione di esigenze non temporanee.
Ne deriva che, facendosi questione di manufatti dotati di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, di ingombro rilevante, incidenti in modo significativo sui luoghi esterni, non risultano integrati gli estremi della pertinenza urbanistica (non necessitante di permesso di costruire).
2.3 Alla stregua delle considerazioni svolte, legittimamente, il Comune, ravvisata l’edificazione di nuove costruzioni non assistite dall’occorrente permesso di costruire o comunque non legittimate da altro tiolo edilizio – non potendo essere comprese nella portata applicativa della concessione n. 227872/04, né essere qualificate come pertinenza urbanistica – ne ha disposto la demolizione.
3. Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta l’erroneità della sentenza di prime cure, nella parte in cui il Tar non ha ritenuto assentito il piazzale n. 10 da DIA non annullata, provvedendo, autonomamente, sia a riscontrare un contrasto con il PRG non rilevato dall’Amministrazione, sia a ritenere che la trasformazione di un terreno agricolo in parcheggio e zona di stoccaggio materiali comportasse la modifica del territorio.
Il motivo di appello è infondato.
Al riguardo, si osserva che la DIA prodotta in primo grado dall’odierno appellante (sub doc. 11 deposito del 18 giugno 2012) afferiva ad un intervento di “ampliamento del piazzale-parcheggio di tipo permeabile di pertinenza dell’attività destinato ad accogliere gli automezzi utilizzati dalla stessa”, con realizzazione di un nuovo accesso carrabile e pedonale lungo la strada privata costeggiante l’area di intervento (cfr. relazione asseverata relativa alla DIA in parola).
L’ordinanza di demolizione impugnata in prime cure, invece, ha ad oggetto il cambio di destinazione di suolo agricolo in parcheggio pertinenziale per automezzi di impianto di stoccaggio e recupero di rifiuti speciali non pericolosi.
Ne deriva, dunque, la diversità tra l’intervento oggetto di DIA, riferito al successivo ampliamento di un piazzale già destinato a parcheggio, e l’intervento oggetto del provvedimento di demolizione, con cui si contesta l’originario cambio di destinazione di suolo agricolo in parcheggio.
Sicché, la DIA richiamata nell’atto di appello, riguardando un intervento diverso e successivo a quello sanzionato, non può essere invocata per legittimare l’opera edilizia per cui è controversia.
Correttamente il Comune, rilevato che il previo cambio di destinazione d’uso dell’area – da agricola a parcheggio – non era assistito da alcun titolo edilizio, ha applicato la relativa sanzione ripristinatoria.
Come precisato da questo Consiglio, infatti, “[c]on riferimento alla realizzazione di parcheggi, la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato la necessità del permesso di costruire edilizio, in quanto la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17 dicembre 2018, n. 7103). Si è altresì chiarito condivisibilmente che sono riconducibili entro la categoria della trasformazione edilizia le opere che modificano significativamente la realtà urbanistica e territoriale, indipendentemente dal fatto che la loro realizzazione richieda attività edificatoria in senso stretto. In tale categoria sono inclusi gli interventi di trasformazione del suolo, quali, ad esempio, la sua cementificazione o lo spianamento di un terreno al fine di ottenerne un piazzale, in quanto anche essi creano un nuovo assetto urbanistico: tali mutamenti di destinazione possono avere luogo solo se siano stati espressamente consentiti da una previsione urbanistica, sicché deve giudicarsi legittimo il provvedimento con il quale il Comune impedisca la stabilizzazione del terreno e la successiva sistemazione mediante posa di “‘rete a nido d’api” (ricoperta da una manto erboso), dal momento che un intervento di spargimento di ghiaia su un’area che ne era precedentemente priva rappresenta attività urbanisticamente rilevante nella misura in cui appaia preordinata, come nel caso di specie, alla modifica della precedente destinazione (Cons. Stato sez. VI, 3 luglio 2018, n. 4066)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 dicembre 2019, n. 8611).
Pertanto, facendosi questione nel caso di specie di realizzazione di un piazzale destinato a parcheggio, con mutamento dell’originaria destinazione d’uso dell’area (agricola), occorreva ottenere il previo rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza giustifica l’applicazione della sanzione ripristinatoria.
La successiva presentazione della DIA per l’ampliamento di un’opera abusivamente realizzata, dunque, non può, fondare le censure articolate dall’appellante:
– sia perché trattasi di atto successivo alla commissione dell’illecito edilizio e riferito ad un intervento edilizio diverso da quello sanzionato;
– sia, comunque, perché nel caso di specie il Comune ha contestato la realizzazione di un’opera sottratta al regime giuridico della DIA, richiedente il previo rilascio del permesso di costruire, sicché la disciplina in materia di DIA, incentrata sulla previsione di termini perentori per l’esercizio del potere repressivo in capo all’Amministrazione procedente (decorsi i quali un intervento inibitorio richiederebbe la ricorrenza dei presupposti propri dell’autotutela decisoria) non potrebbe essere richiamata nel caso in esame, in quanto applicabile a fattispecie (tipologie di intervento edilizio) diverse da quelle rilevanti nel presente giudizio.
Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base della sentenza penale richiamata nell’atto di appello (comunque priva di un effetto conformativo suscettibile di prodursi nel presente giudizio, secondo quanto già osservato nella disamina del primo motivo di appello), avendo il giudice penale -alla stregua delle statuizioni supra trascritte, con accertamento funzionale all’individuazione del regime prescrizionale in concreto applicabile – escluso il reato di lottizzazione abusiva, ma non quello di realizzazione dell’opera sine titulo; in coerenza con quanto contestato dall’Amministrazione comunale con i provvedimenti impugnati in prime cure.
4. Con l’ultimo motivo di appello viene dedotta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha escluso la necessità del previo rilascio del permesso di costruire in relazione alle rimanenti opere.
Difatti:
– per il cancello scorrevole di cui al n. 4 dell’elenco recato nell’ordinanza di demolizione “ipotizzare un permesso di costruire è del tutto incongruo” (pag. 11 appello);
– le opere contrassegnate dai nn. 6, 7, 8 e 9 nell’ordinanza di demolizione dovevano qualificarsi come manufatti pertinenziali a quelli assentiti o condonati; ragione per cui, in assenza di una loro qualificazione come interventi di nuova costruzione da parte delle norme tecniche degli strumenti urbanistici ex art. 3, comma 1, lett. E 6) DPR n. 380/2001, non avrebbero potuto ritenersi soggetti al previo rilascio del permesso di costruire.
Peraltro, siffatte opere non avrebbero potuto essere valutate complessivamente, in quanto, come anche emergente dalla sentenza penale acquisita al giudizio, si tratterebbe di opere realizzate in un lungo arco temporale, non potendosi configurare un intervento urbanistico sin dall’inizio pensato come unitario. In ogni caso, la valutazione complessiva dovrebbe risentire del “fatto che l’ambito degli abusi è fortemente ridotto rispetto all’iniziale contestazione” (pag. 12 appello), non potendosi configurare, quindi, un abuso di notevoli dimensioni; si tratterebbe, comunque, di una valutazione (complessiva) non operata nell’ambito del provvedimento amministrativo.
Il motivo è parzialmente fondato.
4.1 In particolare, le censure possono trovare accoglimento soltanto in relazione all’installazione del cancello scorrevole, in relazione al quale non ricorrono gli elementi costitutivi dell’opera edilizia, non risultando, pertanto, soggetto al previo rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza non può giustificare la sanzione demolitoria applicata con i provvedimenti impugnati in prime cure.
Difatti, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, “l’apposizione di un cancello, funzionale alla delimitazione della proprietà, si inquadra tra gli interventi di finitura di spazi esterni di cui all’articolo 6, comma 2, lettera c) del D.P.R. n. 380/2001, applicabile ratione temporis, per cui rientra fra le ipotesi di edilizia libera (Cons. Stato Sez. VI Sent., 02/01/2020, n. 34), con la conseguenza che non risulta suscettibile di incidere su valori paesaggistici protetti, salva l’esistenza di specifiche prescrizioni particolarmente restrittive, nella specie non evocata (Cons. Stato, Sez.VI, 20/11/2013, n. 5513)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 maggio 2020, n. 3036); “le opere di delimitazione della proprietà rientrano tra quelle di finitura di spazi esterni di cui all’articolo 6, comma 2, lettera c) del D.P.R. 380 del 2001, ossia tra le attività di edilizia libera, tra le quali in particolare una recinzione effettuata in parte con muretto e sovrastante rete metallica ed in parte con paletti, rete metallica e canne vegetali con cancello d’ingresso in ferro” (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 gennaio 2020, n. 34); nonché “il cancello, che secondo la giurisprudenza di questo Giudice non comporta realizzazione di nuova superficie edificata né tantomeno di volume – così da ultimo C.d.S. sez. VI 8 gennaio 2019 n. 18, quindi non richiede il permesso di costruire e in mancanza di esso non potrà, di regola, essere sanzionato con la demolizione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 dicembre 2019, n. 8849).
4.2 Le censure riferite agli immobili, contrassegnati dai numeri 6, 7, 8 e 9 di cui all’ordinanza di demolizione, non risultano fondate, tenuto conto che, anche prescindendo dalla valutazione unitaria degli abusi e, quindi, procedendo ad una loro valutazione atomistica (come chiesto dall’appellante), si sarebbe comunque in presenza di immobili non integranti i presupposti della pertinenza urbanistica, configurando nuove costruzioni richiedenti il previo rilascio del permesso di costruire, come correttamente ritenuto dal Comune appellato con i provvedimenti impugnati in prime cure.
Come osservato supra, nell’esaminare il secondo motivo di appello, la qualifica di pertinenza urbanistica è riferibile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1107).
L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie esclude la possibilità di qualificare le opere per cui è controversia in termini di pertinenza urbanistica.
In particolare, si fa questione, nell’ambito dell’ultimo motivo di appello, di:
– un box in lamiera delle dimensioni di mt 5,00 x 2,30, per un totale di mq 11,50, altezza interna m 2,15, adibito a deposito, indicato al punto 6.1 del verbale del 16 aprile 2002 (n. 6 elenco di cui all’ordinanza di demolizione);
– una tettoia delle dimensioni di m 2,00 x 2,25, per un totale di mq 4,50, altezza m 2,10, indicata al punto 6.2 del verbale del 16 aprile 2002 (n. 7 elenco di cui all’ordinanza di demolizione);
– un box in lamiera in aderenza alla tettoia di m 6,20×2,30, per un totale di mq 14,26, altezza di m 2,30, utilizzato come deposito, indicato al punto 6.3 del verbale del 16 aprile 2002 (n. 8 elenco di cui all’ordinanza di demolizione);
– un container adibito ad ufficio magazzino posto sul lato destro dell’ingresso delle dimensioni di m 8,98×4,80, per un totale di mq 43,10, di altezza netta di mt 2,40, indicato nell’ultimo capoverso del verbale del 14 giugno 2005 (n. 9 elenco di cui all’ordinanza di demolizione).
Ne deriva che:
– in relazione alle opere di cui ai numeri 6, 8 e 9 cit., si fa questione di manufatti di dimensioni rilevanti, suscettibile di autonoma utilizzazione (deposito per i box e ufficio magazzino per il container), idonei a incidere, dunque, in modo significativo sui luoghi esterni;
– in relazione alla tettoia, parimenti, trattasi di opera, comunque di rilevanti dimensioni, funzionale all’attività dell’azienda di stoccaggio e trattamento di rifiuti non pericolosi (cfr. pag. 5 appello), e pertanto suscettibile di autonoma utilizzazione nell’ambito del ciclo produttivo dell’impresa esercitata sull’area per cui è controversia; il che impedisce una sua qualificazione in termini di pertinenza urbanistica (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30 luglio 2019, n. 5383).
Similmente a quanto osservato nella disamina del secondo motivo di appello, non potrebbe giungersi a diversa conclusione neanche facendo leva sulla natura precaria delle opere, tenuto conto che si fa questione di manufatti risalenti nel tempo, da ritenere, a prescindere dal materiale impiegato per la loro edificazione, asserviti alla realizzazione di esigenze non temporanee.
Si è, dunque, in presenza di interventi qualificabili come nuova costruzione, comportanti una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio e, pertanto, necessitanti – come correttamente ritenuto dal Comune appellato con i provvedimenti impugnati in prime cure – del previo rilascio del permesso di costruire; la cui carenza legittima l’adozione della misura ripristinatoria recata nell’ordine di demolizione.
5. Le spese processuali, come liquidate in dispositivo, seguono il criterio della soccombenza, da imputarsi secondo una valutazione globale dell’esito della lite (Cass. Sez. II n. 3240 del 2017) in capo alla parte ricorrente, tenuto conto che l’appello è risultato infondato per la grande maggioranza delle opere oggetto di controversia.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, in parte accoglie l’appello, ai sensi e nei limiti di quanto indicato in motivazione, in altra parte lo rigetta e, per l’effetto, riforma in parte qua, nei suddetti limiti, la sentenza impugnata, per il resto la conferma.
Condanna la parte appellante al pagamento in favore del Comune appellato delle spese processuali del giudizio, liquidate nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (tremila/00) oltre accessori di legge per il primo grado di giudizio e di Euro 3.500,00 (tremilacinquecento/00), oltre accessori di legge, per il grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellanti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2020 svoltasi, ai sensi dell’art. 84 comma 6, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, attraverso l’utilizzo di piattaforma “Mi. Te.”, con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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