Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 28 novembre 2019, n. 8119.
La massima estrapolata:
L’occupazione di un bene immobile di privati da parte della pubblica Amministrazione, che si denota illegittima perché mantenuta sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità non seguita nei termini da un provvedimento di esproprio, costituisca un illecito permanente, in quanto la realizzazione dell’opera pubblica su un fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà.
Sentenza 28 novembre 2019, n. 8119
Data udienza 8 ottobre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA NON DEFINITIVA
sui seguenti ricorsi riuniti:
1) ricorso numero di registro generale 7844 del 2012, proposto dai signori Al. Pu. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Gi. Pi. Ju., elettivamente domiciliati presso la signora An. De An. in Roma, via (…),
contro
– il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Fr., elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via (…);
– la Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Ca. e So. Sa., elettivamente domiciliata presso l’Ufficio di Rappresentanza della Regione medesima in Roma, via (…);
2) ricorso numero di registro generale 8077 del 2012, proposto dalla Regione Sardegna, in persona del Presidente in carica pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Ca. e Sa. Tr., elettivamente domiciliata presso l’ufficio di rappresentanza della Regione medesima in Roma, via (…),
contro
i signori Al. Pu. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Gi. Pi. Ju., elettivamente domiciliati presso la signora An. De An. in Roma, via (…),
nei confronti
del signor Ce. Pu., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Pi. Ju., con domicilio eletto presso lo studio An. De An. in Roma, via (…);
del Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pi. Fr., elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via (…);
per la riforma
quanto al ricorso n. 7844 del 2012:
della sentenza del T.a.r. per la Sardegna, Sezione II, n. 282 del 15 marzo 2012 nonché della precedente sentenza non definitiva del medesimo Tribunale n. 303 del 16 marzo 2010, rese inter partes, concernenti il procedimento espropriativo per la realizzazione di un campo comunale di calcio;
quanto al ricorso n. 8077 del 2012:
della sentenza non definitiva del T.a.r. per la Sardegna, Sezione II, n. 350 del 12 aprile 2011 nonché della sentenza del medesimo Tribunale, n. 282 del 15 marzo 2012, rese inter partes, concernente il risarcimento del danno derivante dal procedimento espropriativo per la realizzazione di un campo comunale di calcio.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’appello incidentale proposto dal Comune di (omissis);
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) ed altri;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 ottobre 2019 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati Gi. Pi. e Pi. Fr.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Visto l’art. 36, comma 2, c.p.a.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso n. 9 del 2000, proposto innanzi al T.a.r. per la Sardegna – originariamente dai signori Sa. Pu. e Ge. Sa. e proseguito dai loro eredi signori Al. Pu. ed altri – si era chiesto quanto segue:
a) l’accertamento dell’obbligo del Comune di (omissis) di restituire, “limitatamente alle quote loro spettanti di comproprietà e di usufrutto”, le superfici oggetto del procedimento espropriativo attivato da detto Ente civico per la realizzazione di un campo comunale di calcio;
b) in subordine, la condanna del Comune di (omissis) al risarcimento del danno;
c) in ogni caso, la condanna del Comune di (omissis) al risarcimento dei danni per l’occupazione temporanea delle aree dalla presa di possesso (27 maggio 1982) e fino alla data del ripristino, o in forma specifica o mediante risarcimento, per equivalente, dei diritti violati.
2. A sostegno della proposta azione, i ricorrenti avevano evidenziato che il T.a.r. sardo, con la sentenza n. 1522 del 10 settembre 1994, aveva annullato il decreto di occupazione e la delibera di approvazione del progetto con espressi effetti caducanti sul successivo decreto di espropriazione del 18 giugno 1987, intervenuto dopo che le opere erano state completamente realizzate.
3. Il Tribunale ha, quindi, emesso:
A) la sentenza non definitiva n. 303 del 16 marzo 2010, oggetto di riserva d’appello sia da parte dei ricorrenti che dell’Amministrazione comunale, con cui:
– ha riconosciuto il diritto dei ricorrenti ad agire soltanto per il risarcimento del danno, disattendendo la loro pretesa alla restituzione dei beni, stante la formulazione dell’art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001 in allora vigente;
– ha respinto le eccezioni, sollevate dalla difesa dell’Ente comunale, di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e di necessaria integrazione del contraddittorio nei confronti del signor Ce. Pu.;
– ha accolto la domanda di assegnazione di un termine per la chiamata in garanzia della Regione Autonoma della Sardegna, così come avvenuto con atto ritualmente notificato a cura del Comune di (omissis);
B) la sentenza non definitiva n. 350 del 12 aprile 2011, anch’essa oggetto di riserva d’appello da parte dei ricorrenti oltre che dell’Amministrazione regionale, con cui:
– ha respinto l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno;
– ha respinto l’eccezione di prescrizione della domanda di manleva;
– ha disposto consulenza tecnica d’ufficio ai fini dell’accertamento del valore venale del terreno occupato dal Comune di (omissis).
4. Costituitesi l’Amministrazione comunale e la Regione Autonoma della Sardegna, entrambe al fine di resistere, e con l’intervento ad adiuvandum del signor Ce. Pu. in qualità di comproprietario per la quota della metà delle aree oggetto di causa, il Tribunale, con la epigrafata sentenza n. 282 del 15 marzo 2012, ha quindi così deciso il ricorso al suo esame:
– ha confermato il capo della sentenza n. 303/2010 con cui è stata respinta la domanda di restituzione reale dei terreni occupati e trasformati ai fini della realizzazione dell’opera pubblica;
– ha accolto la domanda di risarcimento del danno, quantificando il danno patrimoniale pari al valore venale del bene in Euro 33.000,00, il danno non patrimoniale in Euro 3.300,00 e il danno da illegittima occupazione dell’area nella misura del 5% del valore annuo dei terreni;
– ha disposto che le parti addivengano “alla stipula di un contratto di acquisto del bene di fatto già appreso dal Comune”;
– ha individuato nella Regione Autonoma della Sardegna e nel Comune di (omissis) le Amministrazioni tenute al risarcimento del danno nella misura rispettivamente del 60 % e del 40 %;
– ha condannato dette Amministrazioni al pagamento delle spese di lite, in favore di parte ricorrente, nell’importo complessivo di Euro 10.000,00.
5. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:
– “la prima causa dell’illiceità che ha determinato il danno” è costituita dall’illegittimità del decreto regionale di approvazione della variante al piano di fabbricazione, del 23 febbraio 1981, in quanto ritenuto illegittimo ed annullato dalla stessa Amministrazione regionale, con atto del 5 marzo 1985, in quanto adottato senza il previo parere obbligatorio del Provveditorato alle opere pubbliche e della Sezione Urbanistica regionale;
– la conseguente responsabilità della Regione persiste anche dopo il richiamato provvedimento di autoannullamento, che “incide solo parzialmente giacché, come accertato dal CTU, l’ultimazione dei lavori di realizzazione del campo comunale di calcio era già avvenuta il 22 giugno 1983”;
– “quanto meno dal 1985, la condotta tenuta dal Comune di (omissis) è sicuramente concorrente con quella della Regione nella produzione del danno, e tale concorrenza si qualifica di particolare gravità a far data dall’entrata in vigore del DPR n. 327/2001, che all’art. 43 conteneva uno strumento che avrebbe consentito già a quella data una definizione in via amministrativa della questione”
6. Avverso tale pronuncia sia i signori Pu. sia la Regione Autonoma della Sardegna hanno interposto appello, ed in particolare:
A) i primi (signori Pu.), con atto notificato il 31 ottobre 2012 e depositato il 7 novembre 2012, hanno chiesto la riforma, integrale o parziale, delle sentenze in epigrafe nn. 303/2010 e 282/2012 e, lamentando, attraverso cinque motivi di gravame (pagine 15-25), quanto di seguito sintetizzato:
A.I) sarebbe erroneo il capo della sentenza non definitiva n. 303/2010, con cui è stata rigettata la domanda di restituzione reale, nonché il capo della sentenza definitiva n. 282/2012 che ha confermato tale statuizione, in quanto l’art. 42 bis del d.lgs. n. 327 del 2001, che ha sostituito l’art. 43 del medesimo testo unico, non prevede più che il giudice, su richiesta dell’Amministrazione, possa escludere la restituzione del bene, di guisa che viene reiterata tale domanda restitutoria;
A.II) avrebbe errato il Tribunale nell’aver cristallizzato il valore venale del bene alla data del 31 ottobre 2011, in quanto, trattandosi di un debito di valore, deve essere rivalutato fino alla data di restituzione dello stesso o di emanazione dell’atto di acquisizione sanante;
A.III) avrebbe errato il Tribunale nel quantificare, recependo le valutazioni del CTU, il valore venale del terreno, in Euro 11.143 a mq., in quanto, in realtà, ammonta ad Euro 41.602,50, avendo il consulente tenuto conto del valore edificabile di 1 mc/mq invece che di 1,30 mc/mq, come risulta dalla tabella in calce alla Tavola 1 del P.d.F., ed in considerazione del fatto che le aree erano già classificate in zona S3 prima dell’occupazione d’urgenza;
A.IV) avrebbe errato il Tribunale nel quantificare il danno da occupazione temporanea, non avendolo parametrato al valore attuale;
A.V) il Tribunale, nell’imporre il contratto di acquisto dell’area, avrebbe introdotto una condizione priva di copertura normativa e comunque molto gravosa per i ricorrenti sul piano fiscale;
B) la seconda (Regione Autonoma della Sardegna), con atto notificato il 31 ottobre 2012 e depositato il 15 novembre 2012, lamentando, attraverso due motivi di gravame (pagine 7-19), quanto di seguito sintetizzato:
B.I) sulla sentenza non definitiva n. 350/2011: il Tribunale avrebbe errato nel respingere le eccezioni di prescrizione del diritto fatto valere dai ricorrenti e della domanda di manleva proposta dal Comune di (omissis) non avendo tenuto conto del decorso del termine rispettivamente quinquennale e decennale di prescrizione a far data dalla trasformazione del bene – non interrotto dalla domanda di annullamento degli atti espropriativi – ovvero dalla proposizione della domanda risarcitoria il 21 dicembre 1999, e del fatto che, una volta intervenuto l’autoannullamento dell’atto illegittimo nel 1985, nessuna responsabilità può essere ascritta all’ente regionale bensì solo a quello comunale;
B.II) sulla sentenza definitiva n. 282/2012: avrebbe errato il Tribunale nel ritenere applicabile l’art. 43 del testo unico espropriazione anche dopo l’intervento della Corte costituzionale che lo ha dichiarato incostituzionale: detto intervento, infatti, è sì successivo alla predetta sentenza non definitiva ma senza che questa sia passata in giudicato, essendo stato comunque leso il diritto di difesa della Regione che è intervenuta a seguito dell’integrazione del contraddittorio soltanto dopo la sentenza n. 350/2011;
B.II.1) non avrebbe considerato il Tribunale che la Regione ha provveduto ad autoannullare la variante già nel 2005, successivamente riapprovando la variante al Programma di fabbricazione, e comunque non avrebbe spiegato per quale ragione la sua responsabilità è stata ritenuta prevalente rispetto a quella del Comune e non avrebbe tenuto conto dell’aggravamento del danno provocato dall’inerzia dei proprietari nel proporre la domanda risarcitoria e del decorso del termine prescrizionale per i danni maturati prima del quinquennio anteriore alla proposizione della stessa.
6. In data 11 gennaio 2013, il Comune di (omissis) si è costituito in entrambi i giudizi con memoria di controdeduzioni innanzitutto per eccepire la tardività degli avversati appelli rispetto al termine dimidiato ex art. 119, comma 1, lett. f) c.p.a.; ha poi proposto appello incidentale avverso le sentenze n. 303/10 e n. 282/12 del T.a.r. per la Sardegna, in quanto:
i) il T.a.r. non avrebbe considerato che è decorso il termine prescrizionale quinquennale due mesi prima della proposizione del ricorso di primo grado a far data (10 settembre 1994) dalla sentenza di annullamento della dichiarazione di pubblica utilità perché, essendo già stata realizzata l’opera pubblica, si era prodotto il fenomeno dell’occupazione appropriativa per effetto dell’irreversibile trasformazione del fondo;
ii) il T.a.r. avrebbe comunque errato nel determinare il quantum del risarcimento riconosciuto ai signori Pu., in quanto non ha tenuto conto del ritardo col quale si sono determinati a far valere l’annullamento della variante al p.d.f., concorrendo in tal modo alla formazione del danno successivamente lamentato;
iii) il T.a.r. avrebbe omesso di considerare l’intervenuta prescrizione delle annualità precedenti i 5 anni dalla notifica del ricorso introduttivo;
iv) l’eventuale risarcimento dei danni riconosciuto ai sigg. Pu. dovrà essere comunque rideterminato alla luce dell’inerzia tenuta in primo grado, in quanto non risulta la proposizione di alcuna istanza di prelievo e sono trascorsi oltre 10 anni prima che venisse fissata la data d’udienza per la decisione del Tribunale, con conseguente ingiusta moltiplicazione del danno reclamato nei confronti del Comune.
7. In data 24 settembre 2018 si è costituita la Regione Sardegna, nel giudizio innescato dall’appello n. 7844 del 2012 con atto di stile.
8. In vista della trattazione nel merito del ricorso le parti hanno svolto difese scritte.
9. I ricorsi, discussi alla pubblica udienza dell’8 ottobre 2019, sono stati introitati in decisione.
10. Sussistono evidenti ragioni di connessione soggettiva e oggettiva che giustificano la riunione dei ricorsi in esame.
11. Va in primo luogo disattesa l’eccezione di tardività dei gravami, sollevata in ragione del fatto che la loro notifica è intervenuta in data 30 ottobre 2012 e quindi sarebbe successiva al termine dimidiato di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza del 15 marzo 2012. Non si applica, infatti, l’art. 119, comma 1, lett. f) c.p.a. che così recita: “nei giudizi aventi ad oggetto le controversie relative a…: i provvedimenti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate all’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità “. A tali conclusioni deve pervenirsi alla luce dell’oggetto della domanda articolata in prime cure dai ricorrenti non essendo rivolta all’annullamento degli atti della procedura espropriativa (ma unicamente alla tutela, in via risarcitoria specifica, ovvero per equivalente, del loro diritto di proprietà ). Si osserva, infatti, in giurisprudenza che “Non trova applicazione il termine dimezzato per la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, ex art. 23 della l. TAR (ora, art. 119 c.p.a.) che non abbia ad oggetto l’annullamento di atti della procedura espropriativa, venendo in rilievo una controversia meramente risarcitoria. La riconducibilità della domanda nell’esclusivo alveo dell’azione di condanna al risarcimento in forma specifica per danni verificatisi in un procedimento ablatorio (mediante restituzione del bene nelle originarie condizioni) e al ristoro del danno conseguente all’illegittima sottrazione del bene al suo ordinario utilizzo, comporta l’inapplicabilità al giudizio del rito abbreviato di cui all’art. 119, comma 1, lett. f), c.p.a., mancando la ratio per la quale il legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati” (cfr. T.a.r. per la Campania, sede di Napoli, sez. V, 29 agosto 2017, n. 4184; si veda anche Cons. Stato, ad. plen, 30 luglio 2007, n. 9; id., sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1605; id., sez. IV, 30 dicembre 2016, n. 5551).
12. Non resta quindi che esaminare il merito delle deduzioni sollevate dagli appellanti.
12.1 E’ meritevole di essere esaminato con precedenza l’appello, segnatamente il primo dei due riportati in epigrafe, n. 7844/2012 proposto dai signori Pu..
12.1.1 Risulta fondato il primo motivo in tale sede sollevato (v. § A.I), col quale si reitera la domanda di restituzione del bene lamentandosi l’erroneità del capo della sentenza non definitiva n. 303/2010, con cui è stata rigettata tale domanda nonché il capo della sentenza definitiva n. 282/2012 che ha confermato tale statuizione. Invero, come rammentato, di recente, dalla Sezione (sentenza 18 luglio 2019, n. 5050), è principio consolidato quello per cui l’occupazione di un bene immobile di privati da parte della pubblica Amministrazione, che si denota illegittima perché mantenuta sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità non seguita nei termini da un provvedimento di esproprio, costituisca un illecito permanente, in quanto la realizzazione dell’opera pubblica su un fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà . Solo l’acquisizione del fondo da parte dell’Amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni (Cass. civ., sez.un., 19 gennaio 2015, n. 735; Cons. Stato, ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2; id., sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636). Ne deriva che, in caso di illecito spossessamento di un sedime del privato, da parte della pubblica Amministrazione, e di sua irreversibile trasformazione per la costruzione di un’opera pubblica, il privato, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, può domandare la restituzione del bene o, in alternativa, abdicare al suo diritto chiedendo il risarcimento del danno da perdita del bene, commisurato al valore del fondo (Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2018, n. 3105). Parte appellante, nel reiterare la domanda di restituzione del bene erroneamente disattesa dal Tribunale, manifesta chiaro interesse per il ripristino della relazione di disponibilità materiale, oltre che giuridica, delle aree illecitamente occupate dall’Amministrazione comunale. Non può allora non conseguirne, in riforma della sentenza impugnata ed in accoglimento per questa parte dell’originario ricorso introduttivo (la domanda ut supra descritta al § 1.a), l’accoglimento della originaria restitutoria e simmetrica condanna del Comune, nell’attuale disponibilità delle aree in questione, alla restituzione ai loro proprietari delle stesse, illegittimamente occupate. Non si può invero ritenere che la pur formulata domanda di risarcimento del danno valga come rinuncia abdicativa implicita (della proprietà dominicale), la quale comporterebbe il venir meno della richiesta di restituzione. Ciò perché in ogni caso la domanda di risarcimento (§ 1.b) è stata pur sempre presentata in via subordinata e non via principale, quale definitiva ed inequivoca alternativa ad una pretesa di restituzione degli immobili oggetto di proprietà .
12.1.2 A tale doverosa statuizione restitutoria non osta, come invece erroneamente opinato dal Tribunale, quanto previsto dall’art. 43 testo unico espropriazione, la cui ricaduta applicativa nella presente vicenda è interdetta dalla pronuncia annullatoria della Corte costituzionale, valorizzata dagli appellanti nell’evidenziare la diversa formulazione tra le due norme, succedutesi nel tempo, in punto di obbligo restitutorio delle aree illecitamente occupate. E’ ben noto che, con sentenza dell’8 ottobre 2010, n. 293, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, l’art. 43 d.P.R. 327 del 2001 e che, successivamente, il legislatore, per colmare il vulnus legislativo creato da tale pronuncia, ha inserito nel “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità ” l’art. 42 bis mediante la legge 15 luglio n. 111. Va posto in debito rilievo che tale ultima norma non prevede più che il giudice, su richiesta dell’Amministrazione, possa escludere la restituzione del bene. Più precisamente il comma 3 dell’art. 43 prevedeva che “Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 ovvero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l’amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo”. Trattasi di quella che è stata definita in dottrina “acquisizione giudiziaria” proprio per evidenziare la particolarità di una vicenda acquisitiva che si fonda sì su una valutazione dell’interesse pubblico, in comparazione con quello privato, ad opera dell’autorità amministrativa, ma nel corso del giudizio instaurato dal proprietario avverso il decreto di esproprio, quello dichiarativo di pubblica utilità, o un atto ad esso presupposto, ovvero esperito per la restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico. Tale statuizione normativa non si rinviene nell’art. 42 bis e pertanto, non essendo sopravvissuta alla riforma indotta dall’intervento della Corte delle leggi, non è più suscettibile di applicazione, stante la portata retroattiva delle pronunce d’incostituzionalità, se non in presenza di diritti ormai acquisiti, non configurabili nel caso di specie per il mancato passaggio in giudicato delle sentenze non definitive n. 303 del 16 marzo 2010 e n. 305 del 12 aprile 2011. Secondo consolidato orientamento pretorio, infatti, “Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza” (cfr. Cass. civ. sez. III, 28 luglio 1997 n. 7057).
Non può essere quindi condiviso quanto osservato dal Tribunale in favore dell’applicabilità della norma pur dichiarata incostituzionale, atteso che le due sentenze non definitive che ne hanno fatto applicazione erano entrambe oggetto di riserva di impugnativa e successivamente appellate in modo da impedire il loro passaggio in giudicato. In conclusione, se è vero che le sentenze non definitive sono state emesse prima della declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 43, è parimenti vero che queste ultime non sono mai passate in giudicato e pertanto le relative statuizioni risultano ineluttabilmente travolte dalla declaratoria di incostituzionalità laddove fanno applicazione della norma di cui all’art. 43 dichiarata successivamente incostituzionale, tantopiù in presenza di una domanda (restitutoria) che collideva con quanto consentito alle Amministrazioni dal predetto art. 43 del testo Unico sull’Espropriazione.
12.2 Per ragioni di coerenza logica della presente decisione, si impone quindi la disamina dell’appello incidentale proposto dal Comune di (omissis), essendosi in tale sede dedotto, col primo mezzo, che, alla data della sentenza del T.a.r. 10 settembre 1994, sarebbe cominciato a decorrere il termine quinquennale di prescrizione cosicché si sarebbe consolidato il diritto dominicale in capo all’Ente mercé l’irreversibile trasformazione del bene già intervenuta tempo prima ed il cui effetto acquisitivo nemmeno sarebbe interdetto dall’art. 55 del testo unico espropriazione. Denota l’infondatezza del rilievo quanto sopra osservato a proposito della espunzione dal nostro ordinamento dell’occupazione appropriativa o accessione invertita, come definitivamente sancito dalla Corte di Cassazione in composizione allargata: “In materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente” (Cass. civ., sez. un., 19 gennaio 2015, n. 735).
12.3 Né il rilevato obbligo restitutorio è interdetto da quanto eccepito dal Comune appellato in ordine alla possibile configurazione della fattispecie dell’usucapione abbreviata. Invero, l’Adunanza plenaria (sentenza n. 2/2016) ha escluso la valenza ad usucapionem del possesso mantenuto dall’Amministrazione su un bene occupato sine titulo in quanto, a fronte di tale condotta materiale, il proprietario del bene non si vedeva riconosciuta dall’ordinamento, all’epoca in cui operava l’istituto dell’occupazione acquisitiva, alcuna azione utile per recuperare il possesso del fondo.
In costanza dell’applicazione di tale istituto, infatti, si riteneva che il proprietario del bene perdesse tale qualità al momento dell’irreversibile trasformazione del fondo e, pertanto, non avesse la possibilità giuridica di recuperarne il possesso: è, dunque, coerente concludere che, in assenza della facoltà di tutela reale del diritto dominicale in capo al proprietario inciso dall’occupazione sine titulo, esulasse specularmente la valenza prospetticamente acquisitiva del possesso dell’indebito occupante. Del resto, come la prescrizione estintiva non corre a danno del titolare del diritto che non sia nelle condizioni giuridiche di farlo valere, così l’usucapione (quale forma di prescrizione acquisitiva) non è concepibile allorché il proprietario non abbia alcuna facoltà giuridica di rientrare in possesso del bene. (Cons. Stato, sez. IV, 1° agosto 2017, n. 3838; id., sez. IV, 30 agosto 2017, n. 4106; id., sez. IV, 13 agosto 2019, n. 5703).
13. Ritiene quindi il Collegio che sia maturo per la decisione il secondo dei due epigrafati ricorsi ed esattamente il n. 8077/2012 proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna.
13.1. Infondato è il primo motivo dedotto con tale gravame avverso la sentenza non definitiva n. 350/2011, a proposito del quale si deduce, da un lato, la decorrenza del termine prescrizionale e, dall’altro, l’esclusione di ogni responsabilità dell’Amministrazione regionale dopo che aveva provveduto ad annullare nel 1985 l’atto risultato illegittimo. A tal uopo la Regione appellante valorizza la successione cronologica dei fatti di causa, evidenziando che già con decreto del 5 marzo 1985 aveva disposto l’annullamento d’ufficio dell’atto di approvazione della variante al Programma di fabbricazione (oltre che provvedere alla sua riapprovazione), costituente presupposto degli atti della procedura espropriativa de qua, nelle more del giudizio, instaurato davanti al T.a.r della Sardegna e sfociato nella sentenza annullatoria n. 1522 del 10 settembre 1994. Assume, pertanto, parte appellante di avere emendato il procedimento dell’illegittimità denunciata eliminando la causa efficiente del danno riconducibile ad atti da essa promananti, di guisa che il termine prescrizionale quinquennale sarebbe abbondantemente decorso nella persistente occupazione dell’area, iniziata già in data 26 aprile 1982, a seguito della realizzazione del progettato campo sportivo. Il rilievo, nel suo duplice versante critico, non può essere condiviso, in quanto, come correttamente osservato dal Tribunale, osta alla decorrenza del termine prescrizionale la natura permanente dell’illecito che si è protratto nel tempo attraverso la persistente occupazione dell’area mediante l’opera pubblica ormai realizzata.
13.2 Nemmeno può ritenersi che la condotta occupativa sia ascrivibile al solo ente comunale, quale soggetto committente delle opere, già solo per il fatto che la loro costruzione, il 22 giugno 1983, è avvenuta in esecuzione degli atti urbanistici di matrice regionale, di tale che esse sottendono interessi che involgono entrambi gli enti territoriali. Non può quindi escludersi che concorra la responsabilità dell’ente regionale già solo per il fatto che, come correttamente evidenziato dal Tribunale, l’opera pubblica era già stata realizzata al momento dell’autoannullamento della variante quando cioè la condotta occupativa permanente, culminata nella immutazione dello stato dei luoghi, si era già consumata. Tanto più che lo stesso ente regionale successivamente emetteva, in data 18 giugno 1987, il decreto di esproprio n. 5/53, anch’esso travolto dalla sentenza del T.a.r. Sardegna n. 1552/1994 che annullava il decreto di occupazione d’urgenza n. 2/1982 del Comune di (omissis) e la dichiarazione di pubblica utilità di cui alla delibera C.C. n. 5/1982.
13.3 La corresponsabilità dichiarata dal Tribunale non è inficiata dalle deduzioni sollevate dalla Regione in ordine alla domanda di manleva formulata dal Comune nel corso del giudizio di prime cure ed accolta dal Tribunale, in quanto:
– la domanda in questione era stata proposta dal Comune nel primo atto difensivo, depositato il 28 marzo 2000, quando pertanto il termine di prescrizione non poteva dirsi di certo ancora decorso a far tempo dalla proposizione della domanda risarcitoria del 21 dicembre 1999, momento individuato quale dies a quo dalla Regione;
– con l’accoglimento della domanda di manleva ed il successivo ampliamento del contraddittorio originario si è prodotta l’estensione del giudizio risarcitorio nei riguardi del terzo;
– gli stessi ricorrenti originari hanno aderito alla domanda di manleva del Comune quantomeno nella memoria di replica del 27 gennaio 2012 depositata in prime cure.
13.4 Va, quindi, conclusivamente respinto l’atto di appello, proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, avverso la sentenza non definitiva n. 350/2012.
13.5 Non resta che esaminare il secondo motivo – di cui al § B.I) – sollevato dall’appellante al fine di avversare, questa volta, la sentenza definitiva n. 282/2012. Con un primo profilo di censura, l’appellante lamenta l’erronea applicazione dell’art. 43 del testo unico espropriazione, stante il succitato intervento della Corte costituzionale che lo ha dichiarato incostituzionale: detta censura, per le considerazioni rese al § 12.1.2 in ordine alla coincidente deduzione resa dagli appellanti del ricorso n. 7844/2012 (che si omette di ripetere per brevità, e che vanno considerate integralmente riportate e trascritte in questo capo di decisione) deve reputarsi fondata. Peraltro, si osserva per incidens che l’eccezione di inammissibilità articolata dal Comune rispetto a tale motivo di censura sollevato dalla Regione, sarebbe nell’ordine:
a) inammissibile o comunque improcedibile per difetto di interesse, considerato che analoga censura è stata sollevata dai privati, e positivamente vagliata da questo Collegio, per cui la portata oggettiva dell’accoglimento giocoforza si estenderebbe alla Regione;
b) a monte, infondata, in quanto la Regione avrebbe interesse a sollevare il motivo, considerato che l’accoglimento dello stesso, in teoria, sarebbe stato idoneo ad incidere sui capi comportanti l’affermazione di responsabilità del detto Ente.
13.6 Al fine di respingere invece quanto in tale sede dedotto dalla Regione in ordine alla non riconducibilità del danno ad un proprio comportamento lesivo, valgono ancora le considerazioni rese al § 13.2.
14. Il Collegio, giunti a questo punto della disamina delle contrapposte impugnative ed articolazioni difensive, ritiene di prendere atto dell’illegittimità, in quanto sine titulo, della detenzione delle aree da parte del Comune di (omissis), con conseguente applicabilità dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri e dunque con il diritto dei signori Pu. ad ottenere, previa riduzione in pristino, la restituzione del fondo, come identificato, qualora non sia emesso l’atto di acquisizione.
Il procedimento espropriativo attivato dalla Regione e dal Comune non è stato infatti portato tempestivamente a compimento attraverso l’adozione di un decreto di esproprio valido ed efficace e pertanto si configura una occupazione perpetratasi illegittimamente dopo la scadenza del termine a tal uopo previsto, occupazione che non consente di radicare il diritto dominicale in capo all’Amministrazione dopo il venir meno della cd. occupazione appropriativa coniata in sede pretoria. Da ciò deriva, non ostandovi – come detto – l’art. 43 t.u.esp. dopo il suo annullamento ad opera della Consulta, l’obbligo del Comune di (omissis) di provvedere alla restituzione delle aree ai legittimi proprietari come richiesto in questa sede reiterando la domanda formulata in prime cure. Il Comune di (omissis), che è nell’attuale disponibilità del bene, può quindi trattenere il bene soltanto provvedendo al suo acquisto nelle forme di diritto privato o mediante lo strumento dell’acquisizione sanante di cui all’art. 42 bis. Invero l’Adunanza plenaria (sentenza n. 2 cit.) ha stabilito che nulla vieta al giudice, adito in sede di cognizione o nell’ambito del rito sul silenzio, di imporre all’Amministrazione di “decidere, ad esito libero, nel rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali, se intraprendere il procedimento per acquisire il bene ex art. 42-bis o adottare una diversa soluzione” e cioè restituire il bene o contrattare con il privato un accordo di natura transattiva.
In attuazione di tale disposizione occorre che l’Amministrazione provveda alla quantificazione di quanto dovuto in favore dei legittimi proprietari del bene secondo il criterio del valore venale, le cui eventuali contestazioni saranno di pertinenza del giudice ordinario. Infatti, il danno da illegittima detenzione delle aree private da parte del Comune, non legittimamente espropriate, né altrimenti acquisite al patrimonio dell’ente, deve coprire il solo valore d’uso del bene, dal momento della sua illegittima occupazione (ovvero dalla scadenza del periodo di occupazione legittima) fino alla giuridica regolarizzazione della fattispecie, ovvero fino alla restituzione dell’area o al suo legittimo acquisto, vuoi con il consenso della controparte mediante contratto, vuoi mediante l’adozione del provvedimento autoritativo di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, confluendo peraltro in tale ultima ipotesi la posta risarcitoria, in senso lato, nell’indennizzo dovuto per l’acquisizione sanante, come evincibile dal disposto del comma 3 del citato art. 42 bis.
Resta quindi ferma la possibilità da parte del Comune, nel termine di 90 (novanta) giorni decorrenti dalla notifica della presente sentenza a cura di parte ovvero dalla pubblicazione della stessa, di attivare il relativo procedimento per acquisire legittimamente i beni mediante l’adozione del provvedimento ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001.
15. Ritiene il Collegio di rinviare alla prossima udienza pubblica del 24 marzo 2020 ogni eventuale decisione in ordine alla domanda risarcitoria per l’occupazione temporanea secondo le plurime contrapposte difese [i motivi A.II) A.III) A.IV) A.V) dell’appello n. 7844/2012 e i motivi ii), iii) e iv) dell’appello incidentale] in ordine sia ai criteri di riparto delle responsabilità ascritte agli enti territoriali sia ai criteri di quantificazione del quantum risarcitorio.
16. In conclusione, il Collegio ritiene che gli appelli in esame, previamente riuniti, siano suscettibili di decisione soltanto parziale e nei termini che seguono:
– vanno accolti gli appelli n. 7844/2012, proposto dai signori Pu. e n. 8077/2012, proposto dalla Regione Autonoma Sardegna nei limiti dell’erronea applicazione dell’art. 43 del testo unico espropriazione e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza n. 282/2012, deve essere ordinato al Comune di (omissis) di restituire, previo ripristino dello stato dei luoghi, le aree indebitamente occupate, ferma restando la possibilità di provvedere alla loro acquisizione mediante libera contrattazione, permuta, o acquisizione sanante ex art. 42 bis d.lgs. n. 327 del 2001 nel termine di giorni 90 (novanta) dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, della presente sentenza;
– va respinto il primo motivo dell’appello incidentale, proposto dal Comune di (omissis), oltre che l’eccezione di usucapione sollevata;
– rinvia alla prossima udienza pubblica del 24 marzo 2020, la eventuale disamina di ogni censura afferente alla domanda risarcitoria sub 1.c) ai fini sia del riparto della responsabilità tra gli enti comunale e regionale sia della determinazione del quantum risarcitorio;
– rinvia, altresì, al definitivo ogni determinazione in ordine alle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, non definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti (R.G. n. 7844/2012 e R.G. n. 8077/2012), previamente riuniti, così decide:
– accoglie l’appello n. 7844/2012, proposto dai signori Pu. e l’appello n. 8077/2012, proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, ordina al Comune di (omissis) di restituire le aree occupate agli appellanti ferma restando la possibilità di provvedere alla loro acquisizione mediante libera contrattazione, permuta, ovvero di verificare la ricorrenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento di occupazione sanante nel termine di giorni 90 (novanta) dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, della presente sentenza;
– respinge il primo motivo dell’appello incidentale proposto dal Comune di (omissis) nonché l’eccezione di usucapione;
– rinvia alla prossima udienza pubblica del 24 marzo 2020, salvo proroghe debitamente motivate, la eventuale disamina di ogni censura afferente alla domanda risarcitoria per l’occupazione temporanea ai fini sia del riparto della responsabilità tra gli enti comunale e regionale sia della determinazione del quantum risarcitorio;
– rinvia al definitivo ogni determinazione sulle spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere, Estensore
Francesco Frigida – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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