Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 5 settembre 2018, n. 5199.
La massima estrapolata:
Nel processo amministrativo l’errore di fatto revocatorio, mentre è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale – senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento – non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione; l’errore di fatto revocatorio si sostanzia, infatti, in una svista o abbaglio dei sensi, che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi.
Sentenza 5 settembre 2018, n. 5199
Data udienza 22 marzo 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9620 del 2016, proposto da
Sa. Ma. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pa. Bo., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Me. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ni. Mo., Ma. Gi., To. Fi. Ma., Ma. Sc., con domicilio eletto presso lo studio Studio Legale Pa. e An. in Roma, via (…);
nei confronti
Comune di (omissis), non costituito in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato – Sezione V, n. 2913/2016, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Me. Spa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 marzo 2018 il Cons. Giovanni Grasso e uditi per le parti gli avvocati Pa. Bo. e Ni. Mo.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.- Con atto notificato nei tempi e nelle forme di rito, la società Sa. Ma. s.p.a., come in atti rappresentata e difesa, formulava domanda di revocazione della sentenza n. 2913 del 28 giugno 2016, resa inter partes e meglio distinta in epigrafe, con la quale il Consiglio di Stato aveva accolto l’appello proposto dalla controinteressata Me. s.p.a. nei confronti della sentenza del TAR Lombardia n. 1545/2015, relativa ai regolamenti comunali inerenti il canone concessorio non ricognitorio dovuto, ex art. 27 del Codice della strada, in correlazione alla occupazione di suolo pubblico strumentale alla realizzazione di reti di comunicazioni elettroniche.
A sostegno dell’impugnazione esponeva:
a) che, con il ricorso di prime cure, Me. s.p.a. aveva impugnato: a1) la nota in data 30 marzo 2015, con cui la società Sa. Ma. aveva richiesto il pagamento del canone concessorio; a2) il Regolamento unico delle entrate del Comune di (omissis), nella parte in cui prevedeva l’applicazione del contestato canone, unitamente alla delibera di approvazione e alle successive delibere con cui l’Amministrazione comunale aveva, in progresso di tempo, aggiornato e modificato detto regolamento;
b) che, con sentenza n. 1545/2015, il TAR Lombardia aveva accolto il ricorso di Me.;
c) che la sentenza era stata fatta oggetto di appello da parte della Sa. Ma. (nella qualità di concessionaria per la riscossione), la quale aveva criticamente valorizzato: c1) l’inammissibilità per tardività del ricorso di primo grado; c2) la legittimità del canone non ricognitorio;
d) che, con sentenza n. 2913 del 28 giugno 2016, il Consiglio di Stato aveva inopinatamente respinto l’appello, segnatamente disattendendo la doglianza di inammissibilità del ricorso di prime cure.
Sulle esposte premesse, lamentava che la sentenza fosse viziata di errore di fatto, nella parte in cui avrebbe omesso di apprezzare le circostanze di fatto che, nel proposto appello, fondavano l’argomentato giudizio di inammissibilità .
Più in dettaglio, il Consiglio non avrebbe valutato, ancorché in tesi emergente ex actis:
a) la tardività rispetto al Regolamento che, in origine, aveva istituito il canone non ricognitorio nel 1999, perché questo non era stato impugnato nel giudizio;
b) la tardività rispetto al nuovo Regolamento che, nel 2005, aveva ridefinito il canone non ricognitorio, perché, ancorchè impugnato nel ricorso, doveva ritenersi già conosciuto con l’atto di concessione del 25 marzo 2011.
2.- Nella resistenza della controinteressata Me. s.p.a,, intesa a diffusamente argomentare l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del mezzo, alla pubblica udienza del 22 marzo 2018, sulle reiterate conclusioni rese dai difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso è inammissibile.
Importa premettere che, per comune e consolidato intendimento, nel processo amministrativo l’errore di fatto revocatorio, mentre è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale – senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento – non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione; l’errore di fatto revocatorio si sostanzia, infatti, in una svista o abbaglio dei sensi, che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (cfr., ex permultis, Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2194; Id., sez. III, 21 marzo 2017, n. 1296; Id., sez. VI, 22 agosto 2017, n. 4055).
Ciò posto, nel caso di specie, osserva il Collegio che la sentenza impugnata ha cura di dare espressamente atto, nell’esame della relativa doglianza, dell’esistenza di una questione di tardività, peraltro respingendola con articolata motivazione.
Più in dettaglio, la decisione:
a) riporta, nella parte in fatto, sia pure con la necessaria sinteticità (cfr. art. 3 c.p.a.), i singoli motivi di appello, dando espressamente atto che, nell’assunto critico di parte appellante, la sentenza di prime cure sarebbe stata erronea “per aver ritenuto non tardivo il ricorso di primo grado” (v. pag. 4 della sentenza);
b) esamina, nella parte in diritto (par. 2), la relativa questione, respingendola siccome ritenuta infondata (segnatamente aderendo all’orientamento consolidato, secondo cui l’impugnazione degli atti regolamentari sarebbe sempre da riguardarsi quale tempestiva, le quante volte avvenga congiuntamente a quella degli atti applicativi).
A fronte di ciò, è del tutto evidente che l’ipotetico errore denunziato dalla ricorrente è, a tutto concedere, un errore di giudizio, oltretutto relativo a questione controversa: errore che, come tale, non è suscettibile di essere denunziato con lo strumento revocatorio, che equivarrebbe ad un ulteriore, e non ammesso, grado di giudizio.
2.- Per le esposte ragioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Sussistono, ad avviso del Collegio, giustificate ragioni per disporre, tra le parti costituite, l’integrale compensazione di spese e competenze di lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 marzo 2018 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella – Presidente
Claudio Contessa – Consigliere
Fabio Franconiero – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere
Giovanni Grasso – Consigliere, Estensore
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