Nel processo amministrativo la rinuncia al mandato

Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 23 marzo 2020, n. 2017.

La massima estrapolata:

Nel processo amministrativo la rinuncia al mandato da parte dell’avvocato difensore, non seguita dalla nomina di un nuovo avvocato, non ha effetto interruttivo nel processo amministrativo ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 301 comma 3, c.p.c. e 79 c.p.a. – giacché in ossequio al principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt. 85 e 301 c.p.c. – il difensore rinunciante, fino alla sua sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo al processo in corso, sia per quanto riguarda la legittimazione a ricevere gli atti nell’interesse del mandante, sia per quanto riguarda la legittimazione a compiere atti nell’interesse di quest’ultimo.

Sentenza 23 marzo 2020, n. 2017

Data udienza 5 marzo 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7220 del 2017, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Sc. e Se. Vi., domiciliato ex lege presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato;
contro
il Ministero dell’economia e delle finanze e la Guardia di finanza, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’economia e delle finanze e della Guardia di finanza;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 marzo 2020 il consigliere Alessandro Verrico e udito l’avvocato dello Stato Vi. Ce.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso dinanzi al T.a.r. per il Piemonte (R.G. n. -OMISSIS-), l’odierno appellante, appuntato della Guardia di finanza, chiedeva l’annullamento:
a) della determinazione del comandante in seconda del Comando generale della Guardia di finanza del 29 agosto 2006, con la quale era stata disposta nei suoi confronti la perdita del grado per rimozione;
b) della nota prot. 42453/P del 18 settembre 2006 a firma del comandante del Reparto tecnico logistico amministrativo della Guardia di finanza;
c) della nota prot. 43618/P del 3 ottobre 2006 a firma del comandante del Reparto tecnico logistico amministrativo della Guardia di finanza;
d) degli atti tutti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi al procedimento.
2. Il T.a.r. Piemonte, con la sentenza n. -OMISSIS-, ha respinto il ricorso e ha compensato tra le parti le spese del giudizio. Il Tribunale, in particolare:
a) premette che il richiamo, effettuato nel provvedimento impugnato, alle norme riguardanti il procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici, ivi compreso l’art. 9 della l. n. 19/90, è inappropriato, prevalendo su tali norme quelle speciali contenute nel codice dell’ordinamento militare (c.o.m.) e specificamente richiamate per il personale della Guardia di finanza dall’art. 2136 del d.lgs. n. 66/2010;
b) ritiene che nella fattispecie i superiori del ricorrente in maniera non irrazionale o illogica abbiano esercitato il potere (discrezionale) di avviare il procedimento disciplinare solo dopo la definizione del procedimento penale instaurato a suo carico, atteso che non vi è alcuna prova del fatto che essi conoscessero esattamente i fatti per cui il ricorrente era indagato, ed in particolare che essi conoscessero il contenuto dell’hard-disk oggetto del sequestro penale;
c) non risulta ingeneratosi in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sul fatto che non sarebbe conseguito alcun procedimento disciplinare, considerato, da un lato, che non v’è prova che lo stesso si fosse convinto della irrilevanza disciplinare dei fatti a lui contestati come reato e, dall’altro, che tale preteso affidamento non risulta abbia indotto il ricorrente a prendere decisioni dalle quali si sarebbe altrimenti astenuto;
d) non è fondata la tesi del ricorrente secondo cui, essendosi definito il procedimento penale a suo carico in sede di udienza preliminare e con sentenza ex art. 444 c.p.p., non poteva trovare applicazione, in ragione dell’art. 103 del d.P.R. n. 3 del 57, il principio per cui il termine per l’avvio della azione disciplinare decorre dalla conoscenza che l’Amministrazione ha della sentenza o del decreto irrevocabile.
3. Il ricorrente originario ha proposto appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente accoglimento integrale del ricorso di primo grado. In particolare, l’appellante ha sostenuto le seguenti censure in tal modo rubricate:
i) “Erroneità dell’impugnata sentenza per violazione degli artt. 103 e 117 d.P.R. 10/01/1953 n. 3, degli artt. 1392 e 1393 D.Lvo 15/03/2010, nonché dell’art. 9 della L. 07/02/1990 n. 19. Violazione del principio di immediatezza dell’azione disciplinare e di autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, nonché del principio di irretroattività della legge ex art. 11 preleggi”: l’appellante sostiene l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui basa la decisione su una normativa ratione temporis inapplicabile al caso di specie, segnatamente il d.lgs. n. 66 del 2010, entrato in vigore dopo la conclusione del procedimento disciplinare in questione, ed in particolare sostiene l’inapplicabilità al caso di specie, per la regola del tempus regit actum, dell’art. 1393 c.o.m.;
ii) “Erroneità dell’impugnata sentenza per violazione degli artt. 103 e 117 D.P.R. 10/01/1953 n. 3, degli artt. 1392 e 1393 D.Lvo 15/03/2010, dell’art. 9 della L. 07/02/1990 n. 19 e s.m.i., dell’art. 250 c.p.p.. Violazione del principio di buona fede e affidamento”: secondo l’appellante, l’Amministrazione sarebbe venuta a conoscenza dei fatti costituenti illecito penale e disciplinare quantomeno in occasione della perquisizione penale eseguita dai Carabinieri in data 2 febbraio 2004, alla presenza del comandante e del vice-comandante della (omissis), diretti superiori gerarchici del ricorrente, sulle cui risultanze si fonda il procedimento disciplinare;
iii) “Erroneità dell’impugnata sentenza per violazione degli artt. 103 e 117 D.P.R. 10/01/1953 n. 3, degli 20 artt. 1392 e 1393 D.Lvo 15/03/2010, dell’art. 9 della L. 07/02/1990 n. 19, nonché dell’art. 416 c.p.p.. Violazione del principio di immediatezza dell’azione disciplinare e di autonomia del procedimento disciplinare rispetto al penale”: l’appellante deduce che nel caso di specie, non essendovi stata richiesta di rinvio a giudizio (essendosi il procedimento penale concluso con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.), non vi erano ragioni per sospendere il procedimento disciplinare, che avrebbe dovuto essere avviato immediatamente essendo l’Amministrazione in possesso degli elementi istruttori sin dalla perquisizione del 2 febbraio 2004;
iv) “Erroneità dell’impugnata sentenza per violazione degli artt. 103 e 117 D.P.R. 10/01/1953 n. 3, degli artt. 1392 e 1393 D.Lvo 15/03/2010, dell’art. 9 della L. 07/02/1990 n. 19. Violazione del principio di immediatezza dell’azione disciplinare e di autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale”: la pronuncia impugnata sarebbe erronea per non aver considerato che il ricorrente non è stato indagato e sanzionato per condotte connesse allo svolgimento delle sue funzioni, né vi era particolare complessità o difetto degli elementi conoscitivi del fatto contestato. Risulterebbe peraltro erroneo il richiamo all’art. 9 della l. 19 del 1990.
3.1. Si è costituita in giudizio l’Amministrazione delle finanze depositando memoria difensiva e concludendo per l’integrale rigetto dell’appello.
3.2. In data 10 gennaio 2020 i difensori dell’appellante avvocati Al. Sc. e Se. Vi. hanno depositato dichiarazione di rinuncia al mandato.
3.3. In data 26 febbraio 2020 è stato depositato il certificato di morte dell’avvocato domiciliatario Ma. Co..
4. All’udienza del 5 marzo 2020 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.
5. L’appello è infondato e deve pertanto essere respinto.
6. In via preliminare il Collegio, in relazione alla situazione che ha interessato nel corso del giudizio la difesa della parte appellante, rileva che:
a) sebbene residuino dubbi in ordine alla coincidenza tra il soggetto deceduto (dal certificato di morte: Ma. Co., nato il (omissis)) e il difensore a cui la parte ha conferito procura speciale (nel ricorso in appello: avvocato Ma. Co. – (omissis); nel “Modulo Deposito Ricorso”: Ma. Co. – (omissis)), quand’anche si volesse ritenere assodata tale circostanza, essa sarebbe irrilevante in quanto, per costante giurisprudenza, allorché la parte sia costituita in giudizio a mezzo di più procuratori autorizzati a difenderla disgiuntamente, la morte di uno di loro non è causa interruttiva, atteso che in tal caso la parte colpita dall’evento – la cui rappresentanza e difesa sono assicurate dagli altri procuratori costituiti – non subisce alcun pregiudizio mentre la controparte non può fare valere, come motivo di nullità, la mancata interruzione, che non è rilevabile d’ufficio (Cass. civ., Sez. III, n. 15293 del 30 ottobre 2002; Sez. I, n. 8189 del 29 agosto 1997; Sez. III, n. 2052 del 7 marzo 1997; Sez. lav., n. 1171 del 15 febbraio 1996; Sez. III, 25 giugno 1990, n. 6400);
b) alle medesime conclusioni si perviene pure tenendo conto che l’avvocato Ma. Co. viene indicato nell’atto di appello quale domiciliatario dell’appellante: secondo costante giurisprudenza, il decesso del domiciliatario della parte non integra un evento interruttivo del giudizio, ma determina la domiciliazione della parte processuale presso la segreteria del giudice (Cons. Stato, sez. IV, ord. 3 ottobre 2000, n. 5249; conf. Cass. civ., sez. lav., 1° giugno 2018, n. 14100; Cons. Stato, sez. V, ord. 21 febbraio 2017, n. 782; Cass. civ., sez. un., 24 giugno 2011, n. 13908);
d) inoltre, nel processo amministrativo la rinuncia al mandato da parte dell’avvocato difensore, non seguita dalla nomina di un nuovo avvocato, non ha effetto interruttivo nel processo amministrativo ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 301 comma 3, c.p.c. e 79 c.p.a. – giacché in ossequio al principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt. 85 e 301 c.p.c. – il difensore rinunciante, fino alla sua sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo al processo in corso, sia per quanto riguarda la legittimazione a ricevere gli atti nell’interesse del mandante, sia per quanto riguarda la legittimazione a compiere atti nell’interesse di quest’ultimo (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2018, n. 3597).
6.1. Dalle considerazioni che precedono emerge pertanto che la parte appellante risulta ancora difesa dagli avvocati Al. Sc. e Se. Vi., sebbene abbiano depositato dichiarazione di rinuncia al mandato loro conferito e domiciliata ex lege presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
7. Preliminarmente all’esame del merito della controversia, il Collegio intende premettere la seguente ricostruzione dei fatti posti alla base della sanzione impugnata:
i) nell’anno 2004 veniva instaurato nei confronti dell’appellante un procedimento penale, nell’ambito del quale:
– lo stesso veniva sottoposto ad indagini per l’accertamento di ipotesi di reato di cui agli artt. 600-ter e 600-quater c.p.;
– lo stesso subiva, in data -OMISSIS-, una perquisizione da parte dei Carabinieri della Stazione di -OMISSIS-, all’esito della quale gli venivano sequestrati n. 3 personal computers e numeroso materiale informatico con contenuto illecito;
– veniva effettuata dai Carabinieri di -OMISSIS-, una perquisizione presso i locali della (omissis) di -OMISSIS-, ove il ricorrente prestava servizio, all’esito della quale veniva sequestrato un hard-disk;
ii) in data 13 settembre 2005 l’appellante veniva posto in congedo assoluto perché ritenuto non idoneo al servizio a causa di un “-OMISSIS-“;
iii) in data 14 dicembre 2005 il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di -OMISSIS- pronunciava, nei confronti del ricorrente, sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. per il reato di cui agli artt. 81, comma 1, e 600-quater c.p., applicandogli una pena di Euro. 4.000,00 di multa, oltre alla confisca del materiale sequestrato; la sentenza diveniva irrevocabile in data 16 gennaio 2006;
iv) con nota prot. n. 11641 del 6 giugno 2006, veniva comunicato all’appellante l’avvio dell’inchiesta formale a suo carico;
v) il procedimento disciplinare si concludeva infine in data 29 agosto 2006 con la determinazione impugnata, con cui veniva irrogata la sanzione della perdita del grado con decorrenza dal 13 settembre 2005.
8. Passando all’esame del merito, il Collegio ritiene di dover esaminare direttamente i motivi di censura sollevati nel primo grado del giudizio, essendo gli stessi sostanzialmente e criticamente ribaditi nella presente sede di gravame e costituendo il perimetro invalicabile del thema decidendum ex art. 104 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5868 del 2015).
9. Al riguardo va dato atto che, con un unico complesso motivo di ricorso, il ricorrente in primo grado deduceva che:
a) la sanzione disciplinare impugnata è da considerare illegittima per violazione dell’art. 103 del d.P.R. n. 3/1957 (T.U. degli impiegati dello Stato) e del generale principio per cui l’azione disciplinare dev’essere avviata nell’immediatezza dei fatti, atteso che nel caso di specie il procedimento disciplinare è iniziato a distanza di circa due anni dalla scoperta dei fatti, dopo la sentenza di patteggiamento in fase di indagini preliminari;
b) non è applicabile alla fattispecie il termine di cui all’art. 9 l. n. 19/1990, perché relativo alle sole sentenze di condanna e non a quelle di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.;
c) non vi erano le ragioni per la sospensione del procedimento disciplinare, non essendo mai richiesto il rinvio a giudizio, quindi dovendosi provvedere con contestazione immediata;
d) l’Amministrazione era consapevole della sussistenza dell’ipotesi di reato nei confronti del ricorrente sin dalla perquisizione del 2 febbraio 2004;
e) la mancata sospensione dal servizio del ricorrente, unitamente al trascorrere del lungo lasso temporale prima della contestazione disciplinare, ha ingenerato un legittimo affidamento in capo al ricorrente;
f) l’Amministrazione nell’irrogare la sanzione ha omesso di considerare la particolare situazione clinica del ricorrente, che aveva condotto alla dichiarazione della sua inidoneità al servizio a causa di un “-OMISSIS-“.
9.1. Le censure, che in quanto strettamente connesse devono essere trattate unitariamente, non sono fondate.
9.2. Il Collegio rileva in primo luogo, che, a differenza di quanto erroneamente ritenuto dal primo giudice, alla fattispecie in esame risulta inapplicabile ratione temporis la normativa di cui al d.lgs. n. 66 del 2010 (c.o.m.), essendo entrata in vigore successivamente allo svolgimento (e alla conclusione) del procedimento disciplinare.
9.3. Deve pertanto ritenersi applicabile l’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, secondo cui: “Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge. La destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni”.
9.4. La disposizione, applicabile a tutti i pubblici dipendenti:
a) presenta un ambito di applicazione espressamente circoscritto alla avvenuta adozione di una “sentenza irrevocabile di condanna”, con la conseguenza che in caso di sentenza di condanna penale i termini del procedimento disciplinare sono indefettibilmente quelli di cui art. 9 cit. (v., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 18 febbraio 2020, n. 1233);
b) secondo la costante giurisprudenza (da ultimo Corte cost. n. 150 del 2019; cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2217 e, in generale, sez. III, 3 agosto 2015, n. 3812; sez. V, 22 maggio 2013, n. 2781; sez. IV, 9 gennaio 2013, n. 80), è pacificamente applicabile, quanto alla prescrizione del termine di avvio del procedimento disciplinare, anche in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., atteso che tale pronuncia è pienamente equiparabile, ai fini disciplinari, ad una sentenza irrevocabile di condanna (Cons. Stato, sez. VI, 18 settembre 2015, n. 4350);
c) risulta nella specie essere stata rispettata, in quanto, sebbene l’Amministrazione per l’instaurazione del procedimento disciplinare abbia – nell’esercizio legittimo della possibilità ad essa riconosciuta normativamente – deciso di attendere la conclusione del processo penale, la stessa, a fronte della sentenza pronunciata in data 14 dicembre 2005 e divenuta irrevocabile in data 16 gennaio 2006, comunicava al ricorrente, con nota prot. n. 11641 del 6 giugno 2006, l’avvio dell’inchiesta formale a suo carico, peraltro nel momento in cui il militare si trovava in congedo perché riconosciuto inidoneo al servizio di istituto per patologia psico-fisica.
9.6. Ciò considerato quanto al rispetto della tempistica procedurale, il Collegio, in ordine alla censura inerente al difetto di istruttoria, motivazione e proporzionalità, precisa che per costante giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 21 gennaio 2020, n. 484; sez. IV, 15 gennaio 2020, n. 381):
a) “la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento. In particolare, le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità ” (Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2017, n. 1858; conf. id., sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791; sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1968; sez. III, 20 marzo 2015, n. 1537);
b) in sede disciplinare, l’Amministrazione può legittimamente tener conto delle risultanze emerse nelle varie fasi del pregresso procedimento penale, sì da evitare ulteriori accertamenti istruttori alla luce del principio di economicità del procedimento, ma a condizione che di tali risultanze sia autonomamente valutata la rilevanza in chiave disciplinare (Cons. Stato, Sez. IV, 10 agosto 2007, n. 4392);
c) ciò, peraltro, può valere anche nel caso in cui il processo penale si sia concluso con il proscioglimento dell’imputato, a fortiori se determinato dall’estinzione del reato per prescrizione, atteso che “uno stesso comportamento del militare mentre, in sede penale, può essere valutato in maniera tale da giustificare una sentenza di proscioglimento, in sede disciplinare, può essere, viceversa, qualificato dall’Amministrazione competente come illecito disciplinare” (Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2015, n. 5367).
9.7. Ciò premesso in termini generali, il Collegio, in relazione alla fattispecie in esame, rileva che l’Amministrazione nel corso del procedimento disciplinare che ha condotto all’irrogazione dell’impugnata sanzione provvedeva a valutare congruamente i fatti addebitabili al carabiniere, non limitandosi a richiamare le motivazioni del procedimento penale.
Non sono configurabili, pertanto, vizi di motivazione ed istruttoria nell’operato amministrativo. Il provvedimento, infatti, è stato preceduto da approfondita istruttoria e corredato da congrua, logica e coerente motivazione, atteso che l’Amministrazione, oltre ad utilizzare le risultanze istruttorie della sede penale quali elementi fattuali idonei a supportare il giudizio disciplinare, valutandone la rilevanza in tale diversa prospettiva, analizzava la complessiva condotta tenuta dal carabiniere nell’episodio contestato.
9.8. Risulta inoltre assente il lamentato difetto di proporzionalità della sanzione irrogata, in quanto la natura e la gravità dei fatti addebitabili al militare denotano l’assoluta mancanza dell’etica professionale del senso morale e dell’onore, che devono essere dimostrati dal pubblico dipendente nello svolgimento del servizio d’istituto.
Le condotte addebitate all’appellante si pongono invero in totale spregio dei doveri assunti con il giuramento e sono tali da pregiudicare irrimediabilmente il rapporto fiduciario con l’Amministrazione, dovendo al riguardo essere tenuti in considerazione i superiori interessi pubblici, nonché le aspettative riposte dall’Amministrazione e dal consorzio civile in ogni operatore.
10. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere respinto.
11. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, anche in relazione ai profili di sinteticità e chiarezza, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. IV, n. 1233 del 2020; n. 5008 del 2018; sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462; sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733; sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. Sez. VI, n. 11939 del 2017; n. 22150 del 2016)].
13. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello R.G. n. 7220/2017, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento in favore del Ministero appellato delle spese del grado di giudizio, nella misura di euro 5.000,00 (cinquemila,00), oltre accessori di legge se dovuti.
Manda alla Segreteria di comunicare la presente decisione agli indirizzi PEC degli avvocati difensori Al. Sc. e Se. Vi..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità dell’appellante.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2020, con l’intervento dei magistrati:
Vito Poli – Presidente
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere, Estensore
Roberto Caponigro – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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