Consiglio di Stato, Sentenza 27 ottobre 2020, n. 6557.
Nel processo amministrativo la valutazione di merito sulla compensazione delle spese giudiziali non è sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione, essendo fondata su considerazioni di opportunità ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede di gravame se non nel caso di evidente irrazionalità.
Sentenza 27 ottobre 2020, n. 6557
Data udienza 15 settembre 2020
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Sanatoria – Diniego – Processo amministrativo – Compensazione delle spese giudiziali – Valutazione di merito – Insindacabilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7695 del 2010, proposto dai signori Ma. Fa. e Ri. Ro., rappresentati e difesi dall’avvocato St. Pa., con domicilio eletto presso lo studio Gr. & As. in Roma, Corso (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ro. Va., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Gi. Ba. in Roma, Viale (…),
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della Toscana, Sezione III, n. 926/2010, resa tra le parti, in tema di diniego di sanatoria edilizia e di demolizione di opere.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 15 settembre 2020, il Cons. Italo Volpe;
Nessuno personalmente presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso in epigrafe le persone fisiche ivi pure indicate hanno impugnato la sentenza del Tar per la Toscana n. 926/2010, pubblicata il 6 aprile 2010, che – con l’onere delle spese – ha dichiarato in parte inammissibili, in parte improcedibili e per il resto respinto nel merito i motivi, anche aggiunti, di due originari ricorsi introduttivi, riuniti fra loro, volti all’annullamento:
– quanto a quello n. 1372/2006, con richiesta di condanna dell’Amministrazione intimata al pagamento delle spese di lite:
— in via principale:
— del diniego di sanatoria prot. 20359, n. 2005/716/Z, del 18 aprile 2006 del Comune di (omissis) (di seguito “Comune”);
— della lettera del Comune prot. n. 20359-8495 del 18 maggio 2006 di comunicazione del diniego e di archiviazione della pratica;
— di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, anche eventualmente non comunicato al ricorrente;
— con primi motivi aggiunti:
— dell’ingiunzione n. 13 del 7 marzo 2007 di demolizione di opere, a seguito di diniego di sanatoria;
— dell’ingiunzione n. 14 del 7 marzo 2007 di demolizione, a seguito di diniego di sanatoria, nella sola parte riguardante la demolizione di un “muretto in cemento armato”;
— di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, anche eventualmente non comunicato al ricorrente;
— con secondi motivi aggiunti:
— del provvedimento n. 122 del 13 dicembre 2007 di verifica dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione n. 13/2007;
— del provvedimento n. 123 del 13 dicembre 2007 di verifica dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione n. 14/2007;
— di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, anche eventualmente non comunicato al ricorrente;
– quanto a quello n. 1716/2008:
— in via principale:
— dell’ordinanza del Comune n. 60 del 18 giugno 2008 di revoca dell’ingiunzione n. 13/2007 e del conseguente provvedimento di verifica della sua inottemperanza;
— dell’ordinanza n. 61 del 18 giugno 2008 di revoca dell’ingiunzione n. 14/2007 e del conseguente provvedimento di verifica della sua inottemperanza;
— delle ordinanze nn. 63 e 64 del 18 giugno 2008 di ingiunzione alla demolizione di opere abusive;
— di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, anche eventualmente non comunicato al ricorrente;
— con motivi aggiunti:
— dei provvedimenti nn. 27 e 26 del 5 febbraio 2009 di verifica dell’inottemperanza alle ordinanze n. 63/2008 e n. 64/2008.
1.1. La sentenza, in fatto, ha riepilogato, qui in sintesi, che:
– il ricorrente, quale comproprietario di un fabbricato e di un terreno in territorio comunale, aveva presentato il 20 dicembre 2005 domanda di concessione in sanatoria ex artt. 135 e 139 della l.r. n. 1/2005 per le seguenti opere realizzate sine titulo:
— garage in muratura in luogo di preesistente struttura, in tubolari di ferro e coperta di onduline plastificate, già oggetto di sanatoria n. 312/1982;
— tettoia utilizzata come ricovero per cani;
— tettoia nelle vicinanze del fabbricato di abitazione;
— muro di recinzione in cemento armato;
— sistemazioni esterne;
— installazione di un serbatoio GPL;
— muretto in cemento armato;
— asfaltature di tratti antistanti le cancellate;
– il Comune aveva denegato la sanatoria e l’atto era stato impugnato nei termini detti;
– il 7 marzo 2007 seguivano le ingiunzioni di demolizione nn. 13 e 14, a loro volta impugnate coi citati primi motivi aggiunti;
– il 13 dicembre 2007 seguivano i provvedimenti nn. 122 e 123, di dichiarazione di inottemperanza alle ingiunzioni nn. 13 e 14 del 2007, a loro volta impugnate coi ricordati secondi motivi aggiunti;
– poi, a seguito di rilievi del Tar (ordinanza n. 476/2007) circa la mancata specificazione nell’ordinanza di demolizione delle c.d. pertinenze urbanistiche, il Comune aveva emesso il 18 giugno 2008 le ordinanze nn. 60 e 61 di revoca delle già adottate ingiunzioni di demolizione nn. 13 e 14 del 2007, nonché dei conseguenti provvedimenti di inottemperanza nn. 122 e 123 del 2007;
– quindi il Comune aveva adottato il 18 giugno 2008, ai sensi dell’art. 132 della l.r. n. 1/2005, l’ordinanza n. 163 di demolizione delle opere edilizie abusive indicate nel rapporto informativo della P.M. n. 20292 del 28 dicembre 2005, già oggetto del diniego di sanatoria, nonché l’ordinanza di demolizione n. 64 relativa al citato muretto di cemento armato. Atti, questi, impugnati col secondo ricorso n. r.g. 1716/2008;
– infine il Comune aveva adottato il 5 febbraio 2009 i provvedimenti nn. 26 e 27 di verifica dell’inottemperanza delle ordinanze nn. 64 e 63 del 2008. Atti impugnati con gli ultimi motivi aggiunti citati.
1.2. In diritto, la sentenza ha, qui in sintesi, affermato che:
– v’erano i presupposti per la riunione dei due ricorsi;
– partendo dal primo, relativo al diniego di sanatoria:
— l’abuso principale (il locale garage, già oggetto della sanatoria n. 418/1991) consisteva in un ampliamento del manufatto (di volume finale pari a mc 265, rispetto ad originari mc 101,51), peraltro realizzato tutto in muratura (in precedenza essendo costituito solo da tubolari e plastica);
— bene aveva il Comune negato la sanatoria. La norma ex adverso invocata (art. 139 della l.r. n. 1/2005) era inapplicabile “atteso che nella specie non si versa nell’ipotesi di opere eseguite in difformità (…), atteggiandosi, invero, il manufatto de quo come un autonomo, nuovo organismo edilizio, come tale assoggettabile al previo rilascio della concessione edilizia: la categoria edilizia da assegnare al locale de quo in concreto è quella di nuova costruzione come tale assoggettabile a concessione edilizia) non già quella di un manufatto realizzato in difformità di una preesistenza”;
— non valeva dubitare (in relazione alla sanzione demolitoria) di una omessa considerazione dell’incidenza sulla preesistente parte eseguita in conformità, perché “è del tutto irrilevante ed inconferente sol che si consideri che oggetto di gravame è un provvedimento di diniego di sanatoria, non già un provvedimento a contenuto demolitorio-ripristinatorio, allo stato, ancora eventualmente da emettersi”;
— non ricorreva, come pure sostenuto, un’opera di natura pertinenziale e rientrante nella categoria delle addizioni funzionali, perché “il locale, per le caratteristiche costruttive, le dimensioni e consistenza si configura come un organismo che non presenta le connotazioni tipiche di una pertinenza edilizia e tanto non foss’altro alla luce della significativa circostanza per cui il manufatto adibito a garage reca una volumetria che è ben al di sopra della misura del 20% del volume del fabbricato cui si vorrebbe far accedere (supera del 100% il volume preesistente)”;
— quanto alle opere seconde, terze, quarte, quinte e settime (il cui diniego si spiegava con la loro non conformità urbanistica), esse:
— non erano pertinenze (perché “vanno considerate unitariamente, in un insieme sistemico di organismi edilizi che, appunto, assume una rilevante presenza sul territorio e, in particolare, costituisce significativa alterazione dello stato dei luoghi, di guisa che i vari manufatti abbisognavano del preventivo rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 78 comma 1 lettera a) della legge regionale n. 1/05”) e rientravano nella categoria delle nuove costruzioni;
— quanto alle sistemazioni esterne e al muretto in cemento armato, il Comune non era tenuto (come ritenuto) ad imporre prescrizioni per la loro regolarizzazione;
— la recinzione, come realizzata, contrastava con la disciplina urbanistica locale (correttamente il Comune aveva opposto “a) il contrasto con la disciplina dettata dal Regolamento edilizio che vieta la realizzazione di muri di recinzione con altezza superiore ai 90 cm, partendo dal piano di campagna naturale e non già come sostenuto in ricorso da un piano di campagna artificialmente creato a mezzo di sbancamenti e reinterri; b) il mancato rispetto delle distanze dai confini stradali nella costruzione o ricostruzione di muri di cinta”).
– i due motivi aggiunti connessi al primo ricorso erano improcedibili. Invero, riguardavano le ordinanze di demolizione nn. 13 e 14 del 2007 e i provvedimenti nn. 122 e 123 del 2007 di verifica di inottemperanza che, tuttavia, erano già stati rimossi dal Comune in autotutela, con conseguente venir meno dell’interesse alla decisione (spostatosi piuttosto sui nuovi provvedimenti a contenuto demolitorio-ripristinatorio impugnati col secondo ricorso);
– quanto al secondo ricorso (avverso le revoche nn. 60 e 61 del 2008 e le nuove ordinanze demolitorio-ripristinatorie nn. 63 e 64 del 2008):
— era inammissibile l’impugnativa degli atti di autotutela (ossia le citate ordinanze nn. 60 e 61), che avevano piuttosto “portata satisfattiva dell’interesse sostanziale e processuale, avendo con essi il Comune riconosciuto la illegittimità delle pregresse ordinanze di demolizione e dei conseguenti provvedimenti di verifica dell’inottemperanza, sicché alcun interesse sussiste in capo alla parte ricorrente in ordine alla impugnabilità degli stessi, con conseguente inammissibilità in parte qua del ricorso”;
— era improponibile il primo motivo di gravame (doglianza di mancata applicazione delle norme garantistiche di partecipazione al procedimento) perché se “l’instaurazione di un contraddittorio nei confronti del destinatario di un atto è volto in definitiva a consentire la revisione del divisamento assunto dall’Amministrazione, nella specie tale risultato è stato raggiunto a mezzo del rimedio che autonomamente il Comune (…) ha posto in essere e tanto impedisce l’insorgere di un interesse specifico e qualificato ad impugnare gli atti di rimozione assunti dal Comune”;
— era infondata anche la censura di violazione della privacy per effetto delle foto riprodotte nei provvedimenti impugnati (in quanto raffiguranti anche elementi espressivi di dati personali) perché “Le foto attengono a fatti e circostanze che sono stati appurati da organi investiti da appositi poteri pubblici di accertamento e riguardano aspetti del tutto oggettivi, di fisiologico rilevamento, dello stato dei luoghi, senza che vadano ad influenzare su sfere di tipo privatistico e/o di riservatezza”;
— erano infondati nel merito:
— l’assunto che le opere in questione fossero assoggettate a DIA, e non a permesso di costruire, e che i manufatti fossero di natura pertinenziale (con conseguente applicazione del relativo regime giuridico e sanzionatorio), perché esse (ossia, il garage in muratura e le due tettoie) “hanno consistenza e caratteristiche tipologiche da farli sicuramente rientrare nella categoria delle costruzioni, tali da comportare una significativa alterazione dello stato dei luoghi”. Inoltre (quanto al rilievo della pertinenzialità ) “i manufatti possono avere anche una funzione per così dire servente, ma altro è il concetto civilistico di pertinenza e altro è il concetto urbanistico della stessa pertinenza, avente una sua autonoma configurazione edilizia e che per ciò stesso, come nel caso in esame non esime certo il soggetto che realizza siffatte costruzioni dal richiede e munirsi del permesso di costruire”;
— la doglianza per cui il Comune non avrebbe tenuto conto che la preesistente struttura era stata assentita in sanatoria (la n. 312/1982), di fatto ordinando la demolizione dell’intero manufatto (quindi anche del precedente volume consentito), perché “la costruzione abusiva che qui viene sanzionata ha una sua precipua configurazione, assumendo caratteristiche e consistenza di un nuovo organismo la cui realizzazione abbisognava del relativo titolo ad aedificandum, l’assenza del quale non può non comportare l’adozione delle presa misura sanzionatoria”;
— i motivi quinto, sesto e settimo perché riproduttivi di profili di illegittimità già denunciati col primo ricorso e già respinti;
— la censura di mancata individuazione dell’area da acquisire, perché “la semplice lettura dei dati forniti in proposito nelle ordinanze de quibus dà adeguata contezza dell’onere assolto dall’Amministrazione di indicare (siccome ha indicato) l’area precisa oggetto dell’eventuale provvedimento ablatorio, sia per quanto attiene alla individuazione catastale sia per ciò che riguarda le dimensioni”;
— erano infondati gli ultimi motivi aggiunti perché “vengono in realtà dedotti unicamente profili di illegittimità derivata, facendosi derivare, appunto, la invalidità dei suindicati provvedimenti comunali dai vizi già dedotti sia col ricorso n. 1372/06 che col gravame n. 1716/08”.
2. L’appello è affidato alle seguenti censure:
a) cessazione della materia del contendere sulle ordinanze di demolizione e sugli atti di verifica dell’inottemperanza impugnati con il ricorso n. r.g. 1372/2006 e condanna alle spese legali;
b) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 135 l.r. n. 1/2005 – inapplicabilità della sanzione della demolizione in relazione a tutte le opere;
c) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 139 della l.r. n. 1/2005 – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 135 della medesima legge in relazione all’ampliamento del garage – illegittimità derivata dell’ingiunzione di demolizione n. 63/2008 – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
d) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 135 della l.r. n. 1/2005 in relazione alle tettoie – illegittimità derivata dell’ingiunzione di demolizione n. 63/2008 – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
e) violazione dell’art. 106 del regolamento edilizio, dell’art. 11, co. 8, NTA del regolamento urbanistico, dell’art. 26, co. 4, del d.P.R. n. 495/1992 (regolamento di attuazione del codice della strada) in relazione al muretto – illegittimità derivata dell’ingiunzione di demolizione n. 64 – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
f) violazione dell’art. 135 della l.r. n. 1/2005 in relazione alle opere di sistemazione esterna – violazione del principio di buona amministrazione – illegittimità derivata delle ingiunzioni di demolizione nn. 63 e 64 – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
g) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 18 e 19 del d.lgs. n. 196/2003 – illegittimità delle ordinanze di demolizione – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
h) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 135 della l.r. n. 1/2005 – inapplicabilità della sanzione della demolizione – illegittimità delle ordinanze di demolizione – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza;
i) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 della l.r. n. 1/2005 – illegittimità delle ordinanze di demolizione – illegittimità derivata dei provvedimenti di verifica dell’inottemperanza.
2.1. Ad avviso di parte, in sintesi:
a.1) posto che era stato comunque necessario impugnare le ordinanze di demolizione e gli atti di verifica dell’inottemperanza, sopra detti, la successiva autotutela del Comune, e le conseguenti risultanze processuali, avrebbero dovuto implicare effetti favorevoli, almeno in parte, sul regime delle spese;
b.1) tutte le opere oggetto delle ordinanze impugnate erano soggette solo a DIA e non a permesso di costruire. Male avevano fatto i primi giudici ad ignorare la circostanza;
c.1) male i primi giudici avevano fatto a non censurare le motivazioni che avevano indotto il Comune a denegare la domanda di sanatoria del manufatto costituito dal garage. Ciò soprattutto perché la sua nuova struttura altro non era che difformità rispetto a quella del garage al tempo in cui lo stesso era già stato una prima volta sanato. Il manufatto, dunque, aveva già un proprio titolo edilizio (ossia una DIA presentata dal precedente titolare). Da ciò, poi, il fatto che in luogo della demolizione occorreva solo irrogare una sanzione pecuniaria. Inoltre, l’eventuale demolizione del manufatto implicherebbe distruzione anche della volumetria già assentita in precedenza. Di questo il Comune non si è assolutamente fatto carico. Di poi, l’illegittimità del diniego comporta quella derivata di tutti gli altri conseguenti atti, pure impugnati;
d.1) quanto alle tettoie, male i primi giudici – al pari del Comune – hanno omesso di qualificarle semplici pertinenze, in particolare alla luce dell’art. 79, co. 2, lett. d), punto 3, della l.r. n. 1/2005). Anche questo comporta l’invalidità derivata degli atti conseguenti;
e.1) quanto al muretto in cemento armato, lo stesso non superava l’altezza prescritta all’epoca della sua realizzazione. L’altezza risultava maggiore per effetto di livellamenti del terreno effettuati successivamente. La proprietà era inoltre intenzionata a ricoprirlo con’pietra faccia-vistà e lo stesso Comune avrebbe potuto dare mere prescrizioni al riguardo. Quanto alla non corretta distanza dalla strada, il fondo era già precedentemente recintato con una rete a maglia sciolta (sostituito poi col muretto in questione). Per di più il Comune non risultava aver classificato la strada rispetto alla quale non vi sarebbe stata idonea distanza. Anche questo comporta l’invalidità derivata degli atti conseguenti;
f.1) quanto alle sistemazioni esterne ed al muretto, che si reputano costruiti con materiali non adatti, anche in tal caso il Comune si sarebbe potuto limitare a semplici prescrizioni. Anche questo comporta l’invalidità derivata degli atti conseguenti;
g.1) alcuni degli atti impugnati contengono molteplici foto che riprendono dati personali, in violazione delle regole sulla privacy. Anche questo comporta l’invalidità derivata dei loro atti conseguenti
h.1) tutte le opere oggetto delle ordinanze di demolizione nn. 63 n. 64 sono soggette a DIA e non a permesso di costruire. Era perciò sufficiente una sanzione pecuniaria e non occorreva un ordine di demolizione;
i.1) nelle ordinanze impugnate la determinazione dell’area da acquisire è vaga ed indeterminata. Inoltre l’applicata misura di 5 metri appare senz’altro eccessiva, immotivata e vessatoria.
3. Con ordinanza n. 5793/2010, pubblicata il 18 dicembre 2010, il Consiglio di Stato ha respinto la domanda di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata “Considerato che la disposta immissione nel possesso dell’immobile al solo fine di “procedere al compimento, anche in tempi diversi, di tutte le attività necessarie per la trascrizione nei registri immobiliari” non vale a realizzare il danno paventato dagli appellanti, non risultando allo stato disposta la demolizione d’ufficio delle opere”.
4. Costituitosi, con memoria del 13 dicembre 2012 il Comune ha osservato che l’appello “sembra appuntarsi solo sulla mancata condanna del Comune alle spese legali, avendo dichiarato la cessata materia del contendere relativamente alle ordinanze di demolizione mi. 13 e 14 del 7.3.2007”, per il resto essendo lo stesso una semplice riproposizione delle censure di legittimità di primo grado.
Da ciò una sua inammissibilità, per violazione delle norme processuali sulla formulazione degli atti di appello.
Subordinatamente, lo stesso si rimette alle deduzioni difensive già formulate in primo grado.
5. Con memoria del 24 luglio 2020 parte appellante ha replicato al Comune, sottolineando che essa, invero, ha effettivamente articolato specifiche censure alla sentenza impugnata.
6. La causa quindi, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 15 settembre 2020, è stata ivi trattenuta in decisione.
7. Può prescindersi dalla valutazione dell’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune, per la pretesa carenza di specifiche censure di parte appellante avverso la motivazione della sentenza impugnata, in quanto l’appello risulta infondato nel merito e, come tale, da respingere.
Incidentalmente, comunque, può osservarsi che le predette censure in realtà vi sono, e riconoscibili in quanto tali, sebbene insufficienti a condurre all’accoglimento del gravame.
7.1. E’ infondata la prima censura, con la quale si contesta la condanna alle spese stabilita in primo grado.
Deve piuttosto ritenersi che con la sentenza impugnata si è fatta corretta applicazione della regola della soccombenza, da intendere in senso sostanziale e non formale.
Peraltro, ove pure si fosse voluto accedere ad una soluzione diversa, questa sarebbe stata nel senso di una parziale soccombenza reciproca che avrebbe condotto, al più, ad una compensazione – totale o parziale – delle spese.
Deve dunque richiamarsi la pacifica giurisprudenza sulla non sindacabilità delle scelte del giudice al riguardo. E’ stato invero affermato che nel processo amministrativo la valutazione di merito sulla compensazione delle spese giudiziali non è sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione, essendo fondata su considerazioni di opportunità ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede di gravame se non nel caso di evidente irrazionalità (C.d.S., V, n. 4222/2017). Irrazionalità che non si rinviene nel caso di specie.
7.2. Quanto alla natura asseritamente pertinenziale delle opere per cui è causa, la sentenza di primo grado ha correttamente richiamato (facendone, per vero, il perno delle proprie statuizioni sul punto) i noti indirizzi circa la differenza tra accezione civilistica e accezione urbanistica del concetto di ‘pertinenzà, con argomentazioni avverso le quali alcun rilievo è mosso dalla parte appellante.
7.2.1. In proposito vale tenere conto del fatto che, per tradizionale orientamento, non sussiste equivalenza di definizione della pertinenza in diritto civile ed in quello urbanistico.
Quella che opera nell’ambito del secondo gode, concettualmente e giuridicamente, di un perimetro inferiore.
E’ stato, invero ritenuto, che la qualifica di pertinenza urbanistica può applicarsi solo ad opere di entità modesta ed obiettivamente accessorie rispetto ad un’opera principale (come, ad esempio, piccoli manufatti per ospitarvi impianti tecnologici), non anche ad opere che, per dimensioni e funzione, si caratterizzano per la loro autonomia rispetto all’opera principale e per non essere coessenziali alla stessa, onde risulti anche possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (es., C.d.S., VI, n. 24/2018).
E’ stato in particolare aggiunto che per “concetto di “pertinenza”, ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 d.l. n. 9/1982, conv. in l.n. 92/1982, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera “autorizzazione”, la giurisprudenza amministrativa ne ha rilevato la differenza da quello di cui all’art. 817 cod. civ., affermando che esso è caratterizzato sia da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell’accessorio, altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole; sia dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni, che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla “res principalis”, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa” (C.d.S., IV, n. 615/2012).
7.2.2. Nel caso di specie, il manufatto per cui è causa, definito ed evidentemente destinato a “garage”, se anche in ipotesi civilisticamente pertinenziale rispetto all’immobile principale, non pare potersi definire tale anche dal punto di vista urbanistico. Quanto meno, nessun tipo di prova od elemento valutativo specifico è stato fornito in causa per poter giungere alla conclusione che detto manufatto fosse pertinenziale anche da tale secondo punto di vista.
7.2.3. Neanche le riferite dimensioni del manufatto, che nell’insieme sviluppano un volume finale pari a mc 265, più che doppio rispetto a quello del manufatto preesistente, possono – ad avviso del Collegio – definirsi modeste ed inidonee a modificare l’assetto del territorio.
Anche per questa ragione, allora, il provvedimento censurato risulta corretto.
7.3. Con riferimento alla censura di mancata applicazione dell’art. 139 della l.r. n. 1/2005, la sentenza appellata appare condivisibile lì dove ha escluso che gli abusi per cui è causa possano qualificarsi come in “difformità ” da un precedente titolo abilitativo.
Può aggiungersi sul punto che tale conclusione appare condivisibile sia che si faccia riferimento al titolo che aveva legittimato l’originaria realizzazione della struttura, poi demolita e ricostruita mediante l’intervento per cui è causa (atteso che, per l’appunto, trattasi di completa demolizione e ricostruzione della struttura già esistente, sicché l’intervento non può in alcun modo ricondursi a detto titolo originario), sia che invece si consideri la sanatoria del 1982, avente a oggetto interventi di manutenzione sull’immobile (proprio perché quello per cui ora è causa costituisce un intervento nuovo e radicalmente diverso da quelli oggetto di tale sanatoria).
7.4. Quanto poi alla insistenza della parte appellante su un preteso mancato accertamento da parte del Comune della possibilità di eseguire la demolizione senza pregiudizio della “parte eseguita in conformità”, può osservarsi che:
– resta nel perimetro dell’autoresponsabilità il rischio, che corre il soggetto che effettuata sine titulo una superfetazione di un’opera preesistente, legato al fatto che detta superfetazione non possa essere poi eliminata – all’occorrenza – senza altresì la contestuale perdita della preesistenza. Del resto, ciò è dimostrato plasticamente proprio nel caso di specie, dove la manipolazione della preesistenza è stata totale, con la sostituzione di una vera e propria edificazione in muratura rispetto ad un anteriore manufatto costituito solo da una semplice intelaiatura di tubolari, ricoperta da onduline;
– nel caso in esame, poi, la doglianza resta al livello di un rilievo astratto, senza che venga chiarito dalla parte interessata quale sia la consistenza materiale dell’opera eseguita “in conformità”. Invero, in alcuni punti dell’atto di appello, muovendo dalla asserita – ma insussistente, come s’è detto – natura pertinenziale delle opere in discorso, sembra che questa vada indentificata con l’immobile principale cui esse accedono (ma in tal caso, allora, la possibilità di una tranquilla esecuzione della demolizione è in re ipsa, trattandosi chiaramente di corpi di fabbrica fisicamente separati tra loro) mentre in altre parti del medesimo atto, invece, sembra trattarsi dell’immobile preesistente in tubolari (ma allora, essendo stato quest’ultimo totalmente demolito e ricostruito sulla base di una libera scelta degli stessi esecutori dei lavori, nemmeno a questo può farsi riferimento per sfuggire alla sanzione demolitoria).
7.5. Quanto ancora alla necessità di considerare l’intervento in modo unitario anziché valutando atomisticamente ciascuna opera, ai fini sia dell’esclusione della natura pertinenziale delle opere sia – più in generale – della verifica del suo impatto urbanistico, anche sotto tale profilo la sentenza appellata è in linea con la giurisprudenza prevalente. Soprattutto non si rinvengono specifiche censure sul punto da parte degli appellanti.
7.6. Del pari conforme al prevalente indirizzo giurisprudenziale è, quanto al muretto di recinzione, l’affermazione che l’altezza debba essere misurata dal piano di campagna naturale e non tenendo conto degli sbancamenti di terreno eseguiti dagli stessi esecutori dei lavori.
Peraltro, nemmeno su tale punto gli appellanti sviluppano censure significative.
Può aggiungersi che la stessa parte appellante sostanzialmente ammette che, all’epoca degli accertamenti che condussero agli atti impugnati, il muretto risultava di altezza superiore a quella consentita, causa appunto i predetti sbancamenti.
Tuttavia, l’affermazione secondo la quale il piano di campagna sarebbe stato riportato alla “quota” sua propria (e, di riflesso, l’altezza del muretto sarebbe risultata più contenuta) rimane, tra gli elementi acquisiti al processo, appunto una mera enunciazione, sfornita di prove concludenti ed univoche in ordine alla sua fondatezza.
7.7. E’ inoltre infondata anche la censura con la quale si lamenta l’erroneità delle statuizioni della sentenza impugnata con riferimento ad una pretesa violazione, nel caso di specie, della normativa a tutela della privacy. Ciò valendo sia per quanto concerne le fotografie dei luoghi (su cui gli appellanti, pur assumendo l’erroneità delle affermazioni della sentenza gravata, tuttavia non specificano in alcun modo se e quali aspetti di riservatezza sarebbero stati concretamente violati) sia per quanto riguarda le comunicazioni del provvedimento (dovendo ritenersi queste del tutto legittime alla stregua della vigente normativa, in quanto destinate ad autorità con specifica competenza in materia di governo del territorio).
Resta in ogni caso il rilievo che, ove pure si fossero lese (quod non) le garanzie a supporto della protezione dei dati personali, altro è l’illegittimità che deriva da una irrituale divulgazione dei dati personali di un soggetto ed altro è la legittimità dell’accertamento sostanziale contenuto in un atto o in un documento (che ospitasse altresì dati personali) rappresentativo di una determinata situazione materiale o fenomenica.
Peraltro, e da ultimo, neppure risulta che la parte appellante – al di là dell’enunciazione della pretesa lesione sopra detta – abbia fatto ricorso a rimedi di giustizia a tutela della propria riservatezza, asseritamente vulnerata.
7.8. Per le ragioni sopra esposte, le opere per cui è causa – ed in particolare quella di maggior momento – dovevano essere soggette a permesso di costruire, specie perché facenti parte di un unitario ‘pacchettò di interventi edilizi.
Non è perciò condivisibile l’asserzione secondo la quale, nella specie, potesse essere sufficiente una mera sanzione pecuniaria.
7.9. Altrettanto dicasi per la censura di vaghezza nelle ordinanze impugnate quanto alla determinazione dell’area da acquisire, che al contrario risulta sufficientemente indicata e, comunque, non affetta, nella sua misura, da eccessività e vessatorietà (enunciazioni, queste ultime, esse sì formulate in modo non propriamente univoco).
8. In conclusione, l’appello deve essere respinto.
Tenuto conto delle particolarità del caso, ricorrono peraltro giustificati motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 settembre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Italo Volpe – Consigliere, Estensore
Giovanni Sabbato – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere
Francesco Guarracino – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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