Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 28 marzo 2019, n. 2075.
La massima estrapolata:
Ai sensi degli art. 7, comma 2, e 21 quater, L. 7 agosto 1990 n. 241, la p.a. dispone di un generale potere di natura cautelare e di durata temporanea, consistente nella sospensione degli effetti dell’atto amministrativo precedentemente adottato, al quale però si accompagna la necessità della previsione di un termine che salvaguardi l’esigenza di certezza della posizione giuridica della parte, così scongiurando il rischio di una illegittima sospensione sine die.
Sentenza 28 marzo 2019, n. 2075
Data udienza 19 marzo 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6531 del 2018, proposto dalla Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ma. Ro., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
C.B. Ci. di Ba. Ho. S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. Ab., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ar. Sf. in Roma, via (…);
Ministero della Salute, Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma via (…), sono ope legis domiciliati;
nei confronti
Azienda Sanitaria Locale di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fi. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Al. Pl. in Roma, via (…);
So. srl, non costituita in giudizio.
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Seconda n. 00651/2018, resa tra le parti nel giudizio iscritto al n. 1008/2017 R.G.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della società C.B. Ci. di Ba. Ho. S.P.A e altri;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 marzo 2019 il Cons. Umberto Maiello e uditi per le parti gli avvocati Gi. Pe. su delega dell’avv. Ma. Ro., Ga. Ca. su delega dell’avv. Fi. Pa. e l’avvocato dello Stato Sa. Fa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La Regione appellante chiede la riforma della sentenza n. 651/2018 del Tar per la Puglia, sede di Bari, Sez. II, nella parte in cui ha accolto il ricorso (n. 1008/2017 R.G.) proposto dalla società “CB. Ci. di Ba. Ho. spa” (d’ora in poi “CB.”) e, conseguentemente, ha annullato la delibera regionale n. 1299/2017, nonché, per invalidità derivata, le deliberazioni del direttore generale dell’ASL BA n. 1416 e n. 1417 del 04/08/2017, adottate in attuazione della menzionata delibera n. 1299/2017.
Con tale ultimo deliberato (n. 1299/2017) la Regione Puglia aveva, invero, inteso sospendere, per tutto l’anno 2017, l’applicazione del nuovo regime di ripartizione del fondo unico di remunerazione aziendale per le prestazioni erogate in regime di ricovero dalle case di cura private accreditate precedentemente approvato con le delibere n. 981/2016 e n. 910/2017.
Tale regime si fondava sull’applicazione di un algoritmo inizialmente affidato (ai sensi della deliberazione regionale n. 981/2016) a due soli criteri (peso medio ponderato dei DRG e degenza indicizzata) e successivamente integrato (per effetto della successiva delibera 910/2017) da un ulteriore, aggiuntivo criterio (dell’indice di molteplicità ) sul quale, in particolare, la Regione riteneva necessario svolgere ulteriori verifiche.
Il giudice di prime cure ha accolto il ricorso proposto dall’odierna appellata all’uopo ritenendo che la delibera regionale n. 1299/2017 non fosse assistita da una conferente motivazione idonea a giustificare l’applicazione della misura sospensiva di cui all’art. 21 quater della legge n. 241/1990.
Per completezza, va precisato che il suindicato decisum ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso le delibere della giunta regionale n. 1229/2017 e n. 910/2017, ove ritenute confermative della delibera n. 981/2016 nella parte in cui approva lo schema di accordo contenente una clausola (cd. di salvaguardia) ritenuta nulla.
Il TAR ha, invero, rilevato che le predette delibere sono prive di qualsivoglia contenuto dispositivo, quindi non impugnabili, perché contengono solo meri rinvii allo schema di accordo approvato con la precedente delibera n. 981/2016.
Avverso la sentenza suddetta, con il mezzo qui in rilievo, e nei limiti suindicati, l’appellante Regione chiede la riforma della statuizione di annullamento, deducendo che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure, nel provvedimento gravato emergessero ben chiare (sia dalla motivazione dell’atto che dal rinvio alle pregresse fasi procedimentali) le ragioni che militavano a sostegno della disposta sospensione in una materia, peraltro, caratterizzata da ampia discrezionalità .
Si è costituita in giudizio l’ASL Bari che ha concluso per l’accoglimento dell’appello spiegato dalla Regione Puglia.
Resiste in giudizio la CB. che ha chiesto il rigetto dell’appello, riproponendo i motivi di doglianza rimasti assorbiti nella decisione di prime cure e, segnatamente, fermi i vizi di motivazione dedotti, l’incompetenza della Regione ad interferire sulla gestione dei volumi di prestazione da acquistare, competenza questa da intendersi riservata, ai sensi della legislazione regionale, alle ASL.
Si sono, altresì, costituiti in giudizio i Dicasteri intimati, senza però articolare difese.
Con ordinanza n. 4280 del 7.9.2018 la Sezione, adita in sede cautelare, ha accolto l’appello cautelare e, per l’effetto, ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.
All’udienza del 19.3.2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
L’appello è fondato e, pertanto, va accolto.
Ritiene, anzitutto, il Collegio, in aderenza ad un oramai consolidato indirizzo della Sezione, che l’iniziativa impugnatoria coltivata in prime cure fosse, in apice, preclusa dal contenuto dell’accordo sottoscritto dall’odierna appellata, idoneo a governare il rapporto tra le parti e qualificato, come di seguito meglio evidenziato, da un’espressa rinuncia alla proposizione di eventuali impugnazioni.
Segnatamente, la società CB., in data 11.8.2017, ha sottoscritto con l’ASL di Bari, ancorchè con successiva dichiarazione di riserva, il “”Contratto di adesione per la erogazione ed acquisto di prestazioni di ricovero da parte di Strutture della Ospedalità Privataoperanti in regime di accreditamento istituzionale riferito all’anno 2017”.
Il suddetto contratto reca una specifica clausola che prevede in capo al singolo operatore l’accettazione completa ed incondizionata del contenuto e degli effetti dei provvedimenti di determinazione dei tetti di spesa, di determinazione delle tariffe e di ogni altro atto agli stessi collegato o presupposto, in quanto atti che determinano il contenuto del contratto e stabilisce che, con la sottoscrizione del contratto, la struttura privata rinuncia alle azioni/impugnazioni già intraprese avverso i suddetti provvedimenti ovvero ai contenziosi instaurabili contro i provvedimenti già adottati e conoscibili.
Tanto refluisce in negativo sulla stessa ammissibilità del ricorso azionato in primo grado avendo la ricorrente posto in essere un comportamento acquiescente rispetto al contenuto dei provvedimenti accettata mediante la stipula del contratto, ivi compresi gli atti determinativi di budget e tetti di spesa, che, quindi, non può più contestare.
In sostanza – secondo lo schema tipico dell’acquiescenza – l’interessata in maniera inequivocabile, attraverso manifestazioni espresse, ha mostrato la sua intenzione di rinunciare, sul piano sostanziale, alla posizione giuridica (asseritamente) lesa dal provvedimento, rinunciando altresì, sul piano processuale, al proprio diritto a ricorrere.
Non essendo la facoltà di sottoscrizione con riserva del contratto – tra ASL e operatore privato – contemplata dal modello di riferimento, le dichiarazioni di riserva manifestate in via aggiuntiva devono intendersi come non apposte e, dunque, come tali, non sono idonee a impedire la formazione dell’accordo (cfr. da ultimo CdS, Sezione prima numero 00241/2019; CdS, Terza sezione, n. 321 del 18/1/2018,).
Questa Sezione ha già riconosciuto la piena legittimità delle c.d. clausole di salvaguardia (cfr. ad es. sentenza n. 5039 del 23.8.2018; n. 4936 del 13/08/2018; sentenze dell’11.1.2018, nn. 137 e 138, nonché del 18/1/2018, n. 321; 5511 del 25.9.2018; sentenza 1.2.2017 n. 430; cfr. anche CdS, Sezione prima numero 00241/2019), con la conseguenza che la sottoscrizione delle stesse priva le strutture accreditate della legittimazione a impugnare gli atti di determinazione dei tetti di spesa che le riguardano e con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità delle impugnative eventualmente proposte.
Si è, invero, evidenziato che gli operatori privati – in quanto impegnati, insieme alle strutture pubbliche, a garantire l’essenziale interesse pubblico alla corretta ed appropriata fornitura del primario servizio della salute – non possono considerarsi estranei ai vincoli oggettivi e agli stati di necessità conseguenti al piano di rientro, al cui rispetto la Regione è obbligata.
D’altro canto, in caso di mancata sottoscrizione, l’Autorità politico-amministrativa non avrebbe alcun interesse a contrarre a meno di non rendere incerti i tetti di spesa preventivati, né potrebbe essere obbligata in altro modo alla stipula, con l’effetto che la richiesta sospensione finirebbe per non giovare alla parte ricorrente in primo grado.
Ha aggiunto la Sezione che chi intende operare nell’ambito della sanità pubblica deve accettare i limiti in cui la stessa è costretta, dovendo comunque e in primo luogo assicurare, pur in presenza di restrizioni finanziarie, beni costituzionali di superiore valore quale i livelli essenziali relativi al diritto alla salute. In alternativa, agli operatori resta la scelta di agire come privati nel privato.
Né sussistono preclusioni al potere-dovere del giudice di appello di rilevare ex officio l’assenza di presupposti e condizioni di ricevibilità ed ammissibilità del ricorso di primo grado, in carenza di una statuizione esplicita sul punto da parte del Tar, non potendo ritenersi formato un giudicato implicito, preclusivo del rilievo officioso della questione (cfr. Consiglio di Stato ad. plen., 26/04/2018, n. 4).
In disparte quanto fin qui rilevato, di per se stesso già assorbente ai fini di un ribaltamento dell’approdo decisorio che ha definito il giudizio di primo grado, ritiene il Collegio che l’appello sia, comunque, fondato nel merito.
Anzitutto, non appare aderente alle complessive risultanze istruttorie il capo della decisione di primo grado che ha demolito, per difetto assoluto di motivazione, la delibera regionale n. 1299/2017 nella parte in cui ha confermato i tetti di spesa del 2016 anche per prestazioni (UTIC e prestazioni extraregionali) i cui volumi di attività e i conseguenti tetti di spesa sono attribuiti sulla base della delibera della Giunta regionale n. 916/2017 alle Case di cura, mediante l’applicazione di criteri, ivi riportati sub 5) e 7), diversi dall’indice di molteplicità .
Ed, invero, la Regione – alla stregua delle deduzioni rassegnate in atti, non contestate né smentite dall’appellata – con successiva delibera 1454 del 25 settembre 2017, pubblicata sul BURP n. 114 del 02 ottobre 2017, aveva rettificato il perimetro di efficacia della la D.G.R. 1299/2017 espungendo dal relativo ambito i punti 6 e 7) e, dunque, il regime delle prestazioni UTIC ed extraregionali.
Quanto ai residui profili, vale, anzitutto, premettere che, a mente dell’articolo 21 quater comma 2 della legge n. 241/1990 “L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’articolo 21-nonies”.
Nella declinazione applicativa del suindicato istituto la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 22/02/2017, n. 823; sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3276; sez. V, 18 dicembre 2012, n. 6507; sez. VI, 11 febbraio 2011, n. 905) ha evidenziato che:
a) ai sensi degli art. 7, 2º comma, e 21 quater l. 7 agosto 1990 n. 241, la p.a. dispone di un generale potere di natura cautelare e di durata temporanea, consistente nella sospensione degli effetti dell’atto amministrativo precedentemente adottato, al quale però si accompagna la necessità della previsione di un termine che salvaguardi l’esigenza di certezza della posizione giuridica della parte, così scongiurando il rischio di una illegittima sospensione sine die. Il suddetto parametro temporale risulta oggi rigidamente presidiato da una disposizione di chiusura, introdotta dall’articolo 6 comma 1 lettera c) della l. 124/2015 ed a mente della quale “La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’articolo 21-nonies”.
b) affinché il potere cautelare dell’amministrazione possa ritenersi correttamente esercitato, come del resto previsto dall’art. 21 quater, 2º comma, l. n. 241 del 1990, è indispensabile che sussistano gravi ragioni, cioè circostanze tali da rendere quanto meno inopportuno che un provvedimento emanato, non inficiato da vizi macroscopici o facilmente riconoscibili, continui a svolgere i propri effetti per evitare che questi possano definitivamente alterare e compromettere il substrato fattuale sul quale incide.
E’ evidente, dunque, come in siffatta evenienza, ed in applicazione del principio di proporzionalità, lo strumento qui in rilievo valga a sterilizzare gli effetti dell’atto adottato in funzione del riesame del pregresso arresto decisorio in attesa, dunque, di una rimeditazione delle scelte effettuate che possono condurre ad esiti affatto scontati che spaziano dall’opzione di un ritiro dell’atto all’ipotesi opposta di una definitiva conferma, anche implicita (alla scadenza della sospensione) del provvedimento sospeso, che ovviamente può anche essere fatto oggetto di modifiche più o meno incisive.
Orbene, ritiene il Collegio che la delibera regionale gravata in prime cure si ascriva nel solco delle coordinate tracciate dalla descritta cornice normativa riflettendo in maniera sufficientemente chiara la necessità di ulteriori approfondimenti emersi nel corso dell’istruttoria svolta dalla Regione Puglia.
Vale premettere che i deliberati n. 981/2016 e n. 910/2017 costituiscono, nella loro sequenza cronologica, il punto di arrivo di un complesso percorso condotto dalla Regione Puglia in costante confronto dialettico con le organizzazioni rappresentative delle strutture private e volto a valorizzare la qualità delle prestazioni erogate sulla scorta di indici univoci di misurazione affidati a regole matematiche.
L’obiettivo dichiarato è quello di garantire un migliore efficientamento delle strutture accreditate, sia in termini di qualità sia in termini di numero di prestazioni.
In sintesi, siffatto regime si fonda sull’applicazione di un algoritmo dichiaratamente volto alla “valorizzazione del posto letto” inizialmente affidato (ai sensi della deliberazione regionale n. 981/2016) a due soli criteri (peso medio ponderato dei DRG e degenza indicizzata) e successivamente integrato e corretto (per effetto della successiva delibera 910/2017) mediante la previsione di un ulteriore, aggiuntivo criterio (dell’indice di molteplicità ), funzionale alla valorizzazione della molteplicità delle prestazioni sanitarie, dunque, in grado di tener conto della “..diversificazione delle offerta da parte dell’erogatore all’interno dello stesso comparto e/o disciplina tanto da superare logiche di tipo opportunistico finalizzate a privilegiare DRG con maggiore complessità e quindi maggior peso a scapito di prestazioni di media e bassa complessità e quindi di minor peso”.
D’altro canto, la consapevolezza da parte della Regione di dover procedere con particolare cautela e per successiva approssimazione nel governare una materia così complessa è fatta palese dalla previsione di una graduale applicazione delle dette innovazioni (id est algoritmo) stimate nella misura del 50 % del fondo per l’anno 2017, nel 70 % del 2018 e del 100 % solo nell’anno 2019.
Ciò nonostante, già all’indomani dell’approvazione della suddetta riforma, sono emersi dubbi e necessità di ulteriori chiarimenti sull’applicazione dei criteri in argomento onde rendere omogenei i relativi percorsi applicativi all’interno dell’intero territorio regionale; e ciò sia su sollecitazione delle ASL che da parte di alcuni operatori di cui la Regione Puglia ha fornito, già in primo grado, evidenza documentale.
Nello stesso corpo della delibera regionale n. 1299 del 2.8.2017 si evidenzia che “..in sede di verifica è emerso che tale previsione è risultata essere inefficace per una corretta valorizzazione della molteplicità . E’ sufficiente infatti per soddisfare la formula richiamata al punto 4), garantire un singolo intervento ogni anno per ogni DRG, pur continuando a concentrate l’attività su quei DRG ritenuti più remunerativi”. Tale atteggiamento consente di elevare l’indice di molteplicità rispetto alle altre strutture nella consapevolezza di eludere la previsione normativa surrichiamata”.
Da qui la decisione di optare per la sospensione dell’applicazione dell’algoritmo fino al 31.12.2017 onde registrare in termini più efficienti il sistema di riparto delle risorse.
Prendendo abbrivio dalle descritte emergenze istruttorie ritiene il Collegio che siano condivisibili le ragioni di doglianza articolate dalla Regione Puglia e compendiate nel mezzo qui in rilievo.
Ed, invero, si rivela, anzitutto, fuori sesto la prima statuizione su cui riposa la sentenza qui appellata secondo cui “…il provvedimento gravato manca di un elemento costitutivo – l’indicazione delle gravi ragioni per le quali l’art. 21 quater della legge n. 241 del 7 agosto 1990 ammette la sospensione dell’esecutività dei provvedimenti amministrativi – perché si limita a differire l’efficacia dell’algoritmo al 1° gennaio 2018 senza spiegare neppure quali sopravvenienze a quella data farebbero venir meno le esigenze cautelari e consentirebbero di riaffermare – escluso il pericolo di danno – l’esecutività dell’algoritmo”.
Ed, invero, la misura della sospensione coltivata dalla Regione Puglia non si risolve affatto in un mero differimento del termine iniziale di efficacia della riforma ordita dal predetto Ente con conseguente automatica riespansione della predicabilità di tali innovative prescrizioni alla scadenza del termine di sospensione.
Di contro, siffatta misura, in piena coerenza con la sua ontologica vocazione strumentale, preludeva evidentemente all’obiettivo di riservare all’Amministrazione il necessario spatium deliberandi onde consentirle di svolgere il riesame delle scelte compiute al fine di saggiarne l’effettiva congruenza logica a fronte delle criticità rilevate e di cui sopra si è dato conto.
Di ciò vi è chiara ed immediata contezza per effetto della stessa piana lettura del preambolo del precitato deliberato in cui, al punto 4, si legge testualmente “Pertanto, al fine di scongiurare una applicazione distorta dell’indice di molteplicità, si rende necessario ed opportuno disporre un ulteriore approfondimento in merito, consultando anche le organizzazioni rappresentative datoriali, al fine di affinare la metodologia di riparto delle risorse economiche da parte della committenza, nell’ottica di individuare uno strumento obiettivo e trasparente, che non si presti a valutazioni di carattere soggettivo”.
Appare, dunque, di tutta evidenza come la Regione Puglia abbia, da un lato, dato piana evidenza, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, delle gravi ragioni che deponevano per l’opzione della provvisoria quiescenza dell’applicazione dell’algoritmo e, dall’altro, dell’uso coerente della misura soprassessoria, qui applicata in coerenza con le finalità tipiche del suddetto istituto.
Né assume maggior pregio l’ulteriore statuizione in cui si articola la sentenza gravata e che impinge nel seguente rilievo “..il provvedimento, da un lato evidenzia la criticità del solo indice di molteplicità senza fare alcun riferimento agli altri due criteri contemplati dall’algoritmo, dall’altro non spiega perché esso non potrebbe essere applicato sulla base di detti criteri, la cui autonomia dall’indice di molteplicità è dimostrata dal fatto che furono approvati con distinta delibera (d.G.R. n. 981/2016)”.
Vanno, invero, condivise le censure sul punto mosse dalla Regione Puglia nella parte in cui lamenta l’improprio sconfinamento delle valutazioni sul punto svolte dal giudice di prime cure nel campo del merito amministrativo, interdetto al sindacato giurisdizionale siccome riservato all’Amministrazione.
Ed, invero, non può essere qui obliato il fatto che l’intero assetto congegnato dalla Regione Puglia, per effetto di successivi aggiustamenti, rinveniva il suo punto di equilibrio proprio nella concomitante applicazione dei tre diversi parametri, tra cui giustappunto l’indice di molteplicità, peraltro introdotto, con la delibera n 910/2017, proprio al fine di correggere i risultati operativi cui avrebbe condotto l’applicazione degli altri due parametri approvati con d.G.R. n. 981/2016.
Ed è proprio al fine di allineare la riforma agli obiettivi di efficientamento qualitativo perseguiti dalla Regione che, a valle di un complesso iter istruttorio, qualificato dai lavori svolti da una commissione tecnica all’uopo istituita, il suddetto Ente aveva adottato la D.G.R. n. 910/2017 ravvisando la “necessità di introdurre elementi correttivi che consentissero una applicazione equa e corretta dell’algoritmo individuato, finalizzato a migliorare “le performance” delle Case di Cura accreditate, senza pregiudicare la qualità dell’assistenza”.
Ne discende, pertanto, che nessun surplus di motivazione s’imponeva a carico della Regione Puglia per giustificare il riesame complessivo della riforma siccome già contrassegnata, per effetto dei motivati arresti decisori compendiati nella DGR n. 91072017, dall’inscindibilità funzionale delle sue componenti strutturali.
Né a diverse conclusioni è possibile qui giungere in ragione della eccepita protrazione dello stato di sospensione (che risulterebbe prorogato anche per l’esercizio 2018), in quanto tale effetto si riconnette sul piano genetico ad ulteriori e distinti provvedimenti non confluiti nella odierna res iudicanda ed i cui presupposti giustificativi non sono suscettivi di approfondimento in questa sede.
Infine, vanno qui scrutinati i motivi di doglianza rimasti assorbiti nella decisione di prime cure e riproposti dall’appellata. Segnatamente viene in rilievo – unitamente ai dedotti vizi di motivazione – l’eccepita incompetenza della Regione ad interferire nella gestione dei volumi di prestazione da acquistare siccome attività da intendersi riservata, ai sensi della legislazione regionale, alle ASL.
Sul punto, ritiene il Collegio che la Regione non abbia debordato dai limiti operativi della sua missione istituzionale quali evincibili dalla disciplina di settore.
Ed, invero, con la delibera 1299 del 2017 la Regione Puglia si è limitata ad affermare, a valle della disposta sospensione del metodo di riparto fondato sull’algoritmo, che i direttori generali delle Asl avrebbero dovuto concludere le contrattazioni confermando i tetti di spesa già assegnati nel corso dell’anno 2016 ad ogni casa di cura onde salvaguardare l’affidamento medio tempore tutelato.
Appare di tutta evidenza, alla stregua della stessa valenza semantica della proposizione letterale in commento, come la Regione Puglia abbia semplicemente esaurito la sua prescrizione conformativa nell’indicazione del tetto di spesa predicabile e da ritenersi invalicabile, salve le contrattazioni rimesse all’ASL e che avrebbero dovuto svolgersi nel rispetto di tali limiti.
E ciò in piena coerenza con la disciplina di settore: vale al riguardo osservare che l’art. 32, comma 8, l. 27 dicembre 1997, n. 449, stabilisce che le Regioni, in attuazione della programmazione sanitaria ed in coerenza con gli indici di cui all’articolo 2, comma 5, della l. 28 dicembre 1995, n. 549, e successive modificazioni, individuano preventivamente per ciascuna istituzione sanitaria pubblica e privata o per gruppi di istituzioni sanitarie, i limiti massimi annuali di spesa sostenibile con il Fondo sanitario e i preventivi annuali delle prestazioni.
In applicazione della divisata regula iuris si è opportunamente precisato (Cons. Stato, Ad. Plen., 3 aprile 2012, n. 3) che “.. il sistema di programmazione è incentrato su di un modello bifasico in seno al quale alla fase autoritativa regionale segue un momento di negoziazione su base territoriale.
In forza di tale modello bifasico plasmato dalla citata legge 27 dicembre 1997, n. 449, la Regione non solo definisce unilateralmente il tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario per singola istituzione o per gruppi di istituzioni ed i preventivi annuali delle prestazioni, ma vincola la successiva contrattazione dei piani determinandone modalità ed indirizzi. In particolare, con tale atto l’amministrazione regionale è chiamata a fissare, in forza di un’adeguata istruttoria, le direttive da seguire nella successiva negoziazione dei piani annuali e, quindi, in sede di determinazione consensuale delle quantità e tipologie di prestazioni erogabili dal singolo operatore. Ed è dunque, nel solco dei vincoli cogenti della programmazione regionale che si sviluppano le competenze delle ASL cui è rimesso il compito, muovendo dai tetti di spesa fissati a livello regionale ed in base al fabbisogno territoriale, di definire in concreto i volumi delle prestazioni da acquistare.
Nella suddetta prospettiva, deve, infine, ritenersi ragionevole l’opzione conservativa privilegiata dalla Regione di garantire i tetti di spesa del 2016, quale ultimo esercizio utile di riferimento, non potendo evidentemente opporsi qui l’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dall’appellante nell’applicazione, per il 2017, del nuovo regime di riparto del fondo in quanto evidentemente recessiva rispetto alle prerogative pubblicistiche di autotutela che l’Amministrazione regionale ha inteso esercitare per le ragioni – né illogiche né illegittime – sopra passate in rassegna.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, l’appello va accolto.
Le spese, in ragione della novità e della peculiarità della vicenda qui scrutinata, vanno compensate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della decisione impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 marzo 2019 con l’intervento dei magistrati:
Massimiliano Noccelli – Presidente FF
Stefania Santoleri – Consigliere
Giorgio Calderoni – Consigliere
Ezio Fedullo – Consigliere
Umberto Maiello – Consigliere, Estensore
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