Gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 29 gennaio 2020, n. 711.

La massima estrapolata:

Gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori abusivi.

Sentenza 29 gennaio 2020, n. 711

Data udienza 23 gennaio 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7605 del 2018, proposto da Mi. Fi., rappresentato e difeso dall’avvocato Ma. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e
domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, Piazza (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lo. Bo., An. Ma., Mi. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Ma. in Roma, via (…);
nei confronti
An. St., Ro. Fr. non costituiti in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato – Sez. VI n. 02584/2018.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2020 il Cons. Umberto Maiello e uditi per le parti gli avvocati Ma. Ca. e Ga. St. su delega dell’avvocato An. Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con il mezzo qui in rilievo il ricorrente chiede la revocazione della sentenza n. 2584 del 30.4.2018, con la quale il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ha accolto l’appello proposto dal Comune di (omissis) e, per l’effetto, in riforma della sentenza n° 62 del 21.2.2014 del TAR per il Friuli Venezia Giulia, ha respinto il ricorso di primo grado, per come integrato da motivi aggiunti, che il ricorrente aveva avanzato avverso le determinazioni comunali di repressione di un abuso edilizio, di diniego di sanatoria e di divieto di prosecuzione dei lavori.
1.1. Vale premettere che il ricorrente, proprietario di un immobile dismesso in (omissis), nel ricostruire la vicenda processuale qui in rilievo espone, in sintesi, che:
– in data 12.4.2010 conseguiva il permesso a costruire per la trasformazione urbanistica ed edilizia di un immobile allo scopo di eseguire i lavori di ristrutturazione con parziale demolizione e ampliamento di un fabbricato d’abitazione;
– esigenze tecniche sopravvenute imposero la demolizione della muratura preesistente sul lato nord (che, nel progetto originario, avrebbe dovuto essere mantenuta) ovvero l’arretramento del profilo di facciata a sud;
– la D.I.A. in variante all’uopo presentata veniva respinta dal Comune con atto 12.3.2011 prot. n° 1756 perché le nuove opere incidevano sui parametri urbanistici (superficie coperta, sagoma e volume) e sulla sicurezza sismica, nonché per ragioni di forma, tra le quali il mancato deposito della relazione asseverata;
– in data 25.3.2011 l’Arch. Fi. presentava un’integrazione alla D.I.A., ma il Comune adottava l’ordinanza di ripristino dei luoghi” n° 1794 del 14.3.2011;
– veniva poi notificato dall’Ente il provvedimento interdittivo del 3.7.2013 prot. n° 4144 recante il “divieto di prosecuzione dei lavori” relativi alle ultime e marginali opere di completamento, interne ed esterne.
2. I suddetti atti venivano impugnati innanzi al TAR che li annullava con la sentenza n. ° 62 del 21.2.2014, a sua volta riformata in appello con la sentenza di cui si chiede la revocazione.
3. Secondo la prospettazione attorea l’approdo decisorio del giudice d’appello trarrebbe alimento dai seguenti errori di fatto:
– sarebbe stata ritenuta erroneamente tardiva l’integrazione alla D.I.A. depositata il 25.3.2011 nonostante agli atti fosse comprovato che il procedimento era ancor aperto e pendente, visto che l’atto repressivo finale (ordinanza di demolizione) era stato notificato solo il 30.3.2011;
– sarebbe stata erroneamente affermata la sussistenza dell’esecuzione di “lavori strutturali in difformità dal progetto sismico originariamente presentato”, nonostante vi fosse la prova agli atti che il Comune mai aveva conseguito dalla Regione l’accertamento, pur richiesto, sulla natura “strutturale” o meno dei lavori realizzati dal Fi.;
– sarebbe stata erroneamente supposta l’inesistenza delle “circostanze specifiche” che, nella legislazione edilizia regionale dell’epoca, consentivano di ricomprendere nella “ristrutturazione edilizia” anche gli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica di volumetria e sagoma, nonostante vi fosse in atti conferente documentazione idonea a dimostrare che le due variazioni (rimozione del muro ed arretramento della facciata) erano dipendenti dalle “circostanze specifiche” volute dalla legge;
– sarebbe stato erroneamente supposto che l’ordine di non eseguire i lavori, datato 3.7.2013, fosse riferito alle “difformità di cui all’ordine di ripristino dei luoghi 14 marzo 2011”, così che la loro mancata regolarizzazione rendeva illegittime anche le opere interdette con l’atto citato, quando invece quelle opere attenevano a ben altre e diverse parti dell’edificio, regolarmente autorizzate ed eseguite in base al permesso di costruire n° 09.010.
2. Muovendo da tali premesse il ricorrente deduce a sostegno della spiegata azione di revocazione la sussistenza, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 c.p.c., dei presupposti di ammissibilità della revocazione della sentenza impugnata per errore di fatto attesa anche la rilevanza e la decisività dei suindicati errori percettivi da parte del giudice d’appello.
3.1. Resiste in giudizio il Comune intimato, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Le parti hanno poi replicato con memoria alle contrastanti tesi difensive.
4. Il ricorso in epigrafe è inammissibile.
4.1. Ai fini suddetti, si rivela opportuno, anzitutto, ricostruire le coordinate normative e giurisprudenziali predicabili in subiecta materia ed alle quali ci si atterrà nello scrutinio della res iudicanda.
Com’è noto, l’art. 106 Cpa prescrive che “salvo quanto previsto dal comma 3, le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile”.
A sua volta, il citato art. 395 c.p.c., prevede, tra i casi di revocazione, quello in cui (n. 4), “la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.”
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo perimetrato i presupposti che identificano l’errore di fatto “revocatorio”, distinguendolo dall’errore di diritto che, come tale, non dà luogo ad esito positivo della fase rescindente del giudizio di revocazione, evidenziando, in apice, che l’istituto della revocazione è rimedio eccezionale, che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio.
Orbene, l’orientamento costante di questo Consiglio è nel senso che “Nel processo amministrativo il rimedio della revocazione ha natura straordinaria e l’errore di fatto – idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 106 del c.p.a. e 395 n. 4 del c.p.c. – deve rispondere a tre requisiti:
a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato;
b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.
Inoltre, l’errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche; esso è configurabile nell’attività preliminare del giudice, relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del convincimento; in sostanza l’errore di fatto, eccezionalmente idoneo a fondare una domanda di revocazione, è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e di percezione degli atti acquisiti al processo, quanto a loro esistenza e a loro significato letterale, per modo che del fatto vi siano due divergenti rappresentazioni, quella emergente dalla sentenza e quella emergente dagli atti e dai documenti processuali; ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento e apprezzamento, cioè di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento del giudice; si versa pertanto nell’errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4, c.p.c. allorché il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo; se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita” (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 14/06/2018, n. 3671; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2018 n. 406; Id., sez. V, 25 ottobre 2017, n. 4928; Id., sez. V, 6 aprile 2017, n. 1610; Id., sez. V, 12 gennaio 2017 n. 56).
5. Tanto premesso ritiene il Collegio come sia di tutta evidenza l’insussistenza dei presupposti su cui riposa la spiegata azione di revocazione.
5.1. Del tutto fuori sesto si rivela, anzitutto, la deduzione attorea che impinge nel preteso abbaglio dei sensi in cui sarebbe caduto il giudice d’appello nel ritenere già “chiuso” il procedimento amministrativo avviato con la d.i.a. del 20.2.2011, al momento della presentazione, in data 25.3.2011, delle integrazioni proposte. Nel costrutto giuridico del ricorrente assumerebbe rilievo decisivo, quanto alla tempestività di tale integrazione, la mancata notifica dell’ordine motivato di non eseguire l’intervento previsto dall’art. 26, comma 7, della L.R. n. 19/2009 ovvero dell’ordine di demolizione.
6.2. La suddetta impostazione oblitera del tutto il dato qualificante che regge il dictum del giudice a quo, nella specie rappresentato dalla pronuncia in termini ostativi sulla praticabilità della dia resa dal Comune di Lavagna, già in data 12.3.2011, con una comunicazione di “non accoglimento” ben nota al ricorrente prima del deposito delle integrazioni del 25.3.2011, come è fatto palese dalla circostanza che tale integrazioni sono state svolte in risposta alla nota comunale del 12.3.2011.
Tale comunicazione nell’economia della decisione in argomento valeva di per sé a reggere la definitiva volontà dell’Amministrazione sulla non predicabilità della dia del 20.2.2011 con conseguente chiusura del relativo procedimento.
E’, dunque, di tutta evidenza come, contrariamente a quanto dedotto, questa Sezione abbia avuto una chiara e corretta percezione del materiale di causa sottoposto a scrutinio incentrando il proprio decisum sulla divisata statuizione che, costituendo espressione di giudizio, non può essere sindacata con il mezzo qui in rilievo.
6. Allo stesso modo, prive di pregio si rivelano le ulteriori deduzioni di parte ricorrente incentrate sul preteso fraintendimento in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato quanto alla natura strutturale delle opere di modifica introdotte rispetto all’originario progetto.
6.1. A tal riguardo, la Sezione, con la sentenza qui in rilievo, ha, anzitutto, evidenziato che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, l’esistenza di difformità incidenti su sagoma, volume e superficie – ostative all’utilizzo dello strumento della DIA in sanatoria per la loro regolarizzazione, ai sensi dell’art. 17 L.R. n. 19/2009 – costituiva un dato pacifico ed incontestato, ed ammesso dallo stesso appellato nella relazione e negli elaborati grafici allegati alla denuncia.
6.2. Allo stesso modo, nel medesimo capo della decisione in argomento, segnatamente quanto ai profili che afferiscono alla compatibilità del progetto con la normativa sismica, il giudice d’appello si è limitato a ribadire la piena coerenza dell’azione amministrativa svolta dal Comune intimato nella parte in cui ha rilevato, sotto il profilo formale e procedurale, la diversità delle opere eseguite rispetto a quelle originariamente programmate, circoscrivendo il riferimento specifico alle opere strutturali al solo dato formale della rilevata diversità dei due progetti.
6.3. E tale aspetto è chiaramente percepito dal giudice d’appello nella parte in cui giustappunto evidenzia che “..la sussistenza di tali difformità risulta dai documenti precedentemente prodotti dall’appellato, puntualmente richiamati nel diniego, e consistenti essenzialmente nell’aver eseguito lavori strutturali in difformità dal progetto sismico originariamente presentato”.
La suddetta circostanza di fatto è stata, dunque, correttamente percepita e quotata dal giudice d’appello che ha arrestato alla mera modifica del progetto i propri rilievi senza in alcun modo interloquire sulla rilevanza sostanziale delle modifiche introdotte ovvero sulla loro valenza peggiorativa dal punto di vista statico e sismico, profili giammai fatti oggetto di apprezzamento.
6.4. Efficacemente il Comune evidenzia sul punto che, in data 25.3.2011, lo stesso ricorrente nel presentare documentazione integrativa evidenziava di aver nel frattempo presentato alla Direzione Regionale Lavori Pubblici, un nuovo progetto per le opere strutturali realizzate in variante al progetto strutturale originario, recante finanche l’intestazione “varianti strutturali ed integrazioni non sostanziali”.
D’altro canto, la Sezione ha ulteriormente chiarito che “…il Comune si è limitato a sanzionare, ai sensi dell’art. 47 L.R. n. 19/2009, le sole difformità accertate, salva ogni valutazione degli organi competenti in riferimento alla sussistenza di violazioni anche sostanziali alla normativa antisismica” ed in un distinto punto ha rimarcato, riferendosi all’ordinanza di demolizione, che il suddetto “..provvedimento si fonda sulla riscontrata violazione edilizia e non sulla mancata conformazione alle norme dettate in materia antisismica”.
Ne discende anche sotto tale distinto profilo che nessuno errore percettivo ha influenzato la sentenza qui impugnata.
7. Le medesime conclusioni all’insegna dell’inammissibilità dei rilievi attorei vanno rassegnate quanto alle ulteriori contestazioni che involgono la qualificazione giuridica dell’abuso operata da questa Sezione, che ha escluso la legittima riconducibilità degli interventi realizzati al concetto di ristrutturazione edilizia, così come definita dalla legge regionale applicabile.
7.1. E’ pur vero, che il giudice d’appello, nel ricostruire la disciplina di riferimento, ha dato atto, tra le altre, della previsione contenuta all’articolo art. 38 della L.R. n. 19/2009 nella parte in cui prevede che: “gli interventi di ristrutturazione edilizia, con demolizione totale o parziale, possono comportare modifiche della sagoma e di collocazione dell’area di sedime, oltre che nei casi di adeguamento alla normativa antisismica e igienico-sanitaria, anche nei seguenti casi: a) di esigenze di arretramento del profilo di facciata nel rispetto delle eventuali prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali in materia di allineamento degli edifici e fasce di rispetto del nastro stradale; b) di sostituzione di singoli edifici esistenti non coerenti con le caratteristiche storiche, architettoniche, paesaggistiche, e ambientali individuate dagli strumenti urbanistici comunali”, soggiungendo che “la sagoma può essere variata solo se sussistono circostanze specifiche tassativamente indicate, che nel caso in esame non risultano”.
7.2. Come già anticipato, il ricorrente inferisce l’errore revocatorio assumendo che agli atti di causa risulti acquisita la prova certa della sussistenza delle divisate “circostanze specifiche” che rendevano legittima la “ristrutturazione” anche con modifiche al volume e alla sagoma dell’edificio.
E tanto andrebbe desunto dal fatto che, quanto al vecchio muro sul lato nord, il relativo abbattimento sarebbe stato indotto da esigenze di sicurezza in materia antisismica, come accertato con la relazione specialistica a firma dell’Ing. Vi., mentre, quanto all’arretramento della facciata, questa minore costruzione sul fronte sud fosse dovuta a “nuove esigenze spazio-funzionali coerenti col sistema complessivo dell’edificio per conservarne l’impronta e gli allineamenti”.
7.3. Di contro il Collegio ritiene che la detta prospettazione non è affatto idonea ad avallare una pretesa lettura monca del materiale processuale al punto da far ritenere che il giudice d’appello, a cagione della mancata conoscenza della detta documentazione, abbia avuto una percezione dei fatti di causa diversa da quella ivi rappresentata.
7.4. E’ di contro di tutta evidenza come l’espressione qui contestata, secondo cui “la sagoma può essere variata solo se sussistono circostanze specifiche tassativamente indicate, che nel caso in esame non risultano”, rifletta il giudizio finale reso, in via di sintesi, dal giudice procedente nel vaglio critico dell’intero materiale di causa e che, in alcun modo, autorizza, con la pretesa automaticità, ad inferire la mancata valutazione di elementi di segno contrario, ritenuti evidentemente recessivi nell’economia complessiva del giudizio.
7.5. Ed, invero, l’errore revocatorio non può essere di certo desunto dal giudizio finale né dal fatto che il giudice non ha specificamente ed espressamente richiamato i documenti versati in atti dal ricorrente e che, a suo dire, suffragherebbero la sussistenza delle suindicate circostanze specifiche idonee ad incidere sulla qualificazione giuridica dell’abuso edilizio. Va qui ribadito che l’errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche; esso è, inoltre, configurabile nell’attività preliminare del giudice, relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del convincimento
E ciò vieppiù a dirsi in relazione al fatto che i suindicati documenti non vengono richiamati dal ricorrente per la loro valenza rappresentativa di dati di fatto ma esclusivamente per i giudizi e le valutazioni tecniche ad essi sottesi che, per poter essere apprezzati, necessitano di essere condivisi e fatti propri dal giudice di fase.
7.6. Nella detta prospettiva, non può, dunque, affatto accreditarsi una svista da parte del giudice d’appello nella ricostruzione dei fatti per cui si procede, tanto più che nemmeno può essere sottaciuto, da un lato, che il primo elaborato (riferito al muro abbattuto) compendia un giudizio tecnico postumo che rappresenta le difficoltà esecutive di inserire demolizioni in breccia nella preesistente muratura siccome in condizioni di precarietà statica, mentre nel secondo caso (l’arretramento del profilo di facciata) il breve inciso posto a fondamento delle rivendicazioni attoree, e riferito a “nuove esigenze spazio-funzionali coerenti col sistema complessivo dell’edificio per conservarne l’impronta e gli allineamenti”, si rivela di per se stesso inidoneo, in mancanza di pertinenti parametri normativi mutuati dai locali strumenti urbanistici e specifici riferimenti ai luoghi contermini utilizzati come tertium comparationis, a concretare, con la concludenza qui pretesa, l’elemento specializzate dato da “prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali in materia di allineamento degli edifici e fasce di rispetto del nastro stradale”.
8. Infine, fuori fuoco si rivelano anche le residue osservazioni censoree che involgono la statuizione secondo cui l’ordine di non eseguire i lavori datato 3.7.2013 fosse riferito alle “difformità di cui all’ordine di ripristino dei luoghi 14 marzo 2011”, quando invece quelle opere attenevano a ben altre e diverse parti dell’edificio, regolarmente autorizzate ed eseguite in base al permesso di costruire n° 09.010.
8.1. Sul punto, ancora una volta, il giudice d’appello ha mostrato chiara consapevolezza dei fatti di causa, dando espressamente atto che tale “…provvedimento era riferito alla SCIA presentata dall’appellato in data 5 giugno 2013, avente ad oggetto il completamento delle opere di finitura interne ed esterne”.
8.2. E’, dunque, di tutta evidenza come – a differenza di quanto sostenuto dalla parte ricorrente – il giudice a quo abbia chiaramente percepito che l’illiceità qui in rilievo non involge le opere in sé, espressamente indicate nella loro consistenza ed alle quali, in via ordinaria, si accompagna un giudizio di sostanziale irrilevanza dal punto di vista edilizio, ma solo ed esclusivamente il loro collegamento con un edificio rispetto al quale, e nella sua inscindibile unità, risultano consumati abusi.
8.3. Senza alcun travisamento della realtà fenomenica la Corte si è, invero, limitata a fare applicazione di un noto postulato giurisprudenziale applicabile in siffatte evenienze a mente del quale “gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché l’ordinamento non può ammettere la prosecuzione di lavori abusivi” (Cons. Stato, sez. VI, 15 settembre 2015, n. 8351; cfr. anche Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2015, n. 13).
9. Ritiene, dunque, il Collegio che le deduzioni affidate all’azione qui in rilievo non abbiano fondamento dal momento che, talvolta, trovano smentita già in punto di fatto, in quanto offrono una lettura della sentenza fatta oggetto di revocazione non coerente con il suo esatto significato, e, talaltra, attraggono nel fuoco della contestazione le implicazioni in termini di risultato probatorio e di giudizio che il giudice d’appello ha inteso trarre dallo scrutinio del materiale probatorio acquisito agli atti del giudizio.
Tale è, dunque, il reale significato delle contestazioni veicolate con la domanda in epigrafe che involge la diversa esegesi delle acquisizioni processuali in relazione, peraltro, a punti dirimenti della controversia, fatti oggetto di diretto scrutinio da parte del giudice procedente, con decisione che, pertanto, resta qui non sindacabile.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del Comune intimato, delle spese del presente grado di giudizio complessivamente liquidate in Euro 3.000,00 (tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Bernhard Lageder – Consigliere
Umberto Maiello – Consigliere, Estensore
Francesco De Luca – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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