Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 8 maggio 2019, n. 2974.
La massima estrapolata:
In tema di abusi edilizi, il rilascio del titolo in sanatoria legittima l’immobile così come realizzato, ma non determina alcuna modificazione della natura e della disciplina della zona territoriale di insistenza.
Sentenza 8 maggio 2019, n. 2974
Data udienza 18 aprile 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9941 del 2016, proposto da
Ni. Sa. ed altri, rappresentati e difesi dall’avvocato Lu. Ma. D’An., con domicilio eletto presso lo studio Se. Co. in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi.Ag., con domicilio eletto presso lo studio Fr. Ma. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Seconda n. 04193/2016, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 aprile 2019 il Cons. Francesco Mele e uditi, per le parti, l’avvocato Fa. Vi., in sostituzione di Lu.Ma. D’An., e l’avvocato Lu. Ia., in sostituzione di Gi. Ag.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 4193/2016 dell’8-9-2016 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Seconda rigettava il ricorso proposto dai signori Ni. Sa. ed altri., diretto ad ottenere l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 20 del 23-10-2015 e della determinazione prot. n. 136/E del 7-10-2015 di annullamento del permesso di costruire n. 99 del 18-10-2012, relative ad un intervento edilizio di ampliamento in sopraelevazione di un fabbricato sito nel Comune di (omissis) alla via (omissis).
La prefata sentenza esponeva in fatto quanto segue.
” Ni. Sa. ed altri sono proprietari nel Comune di (omissis) di un immobile sito in via (omissis) catastalmente censito al foglio (omissis) particella (omissis) ricompreso nella Z.T.O. “E-agricola” del piano di fabbricazione, edificato abusivamente ed oggetto di sanatoria, ai sensi della l. n. 724 del 1994, con provvedimenti prot. n. 17, 18 e 19 dell’11 luglio 2012 (in particolare, con la sanatoria straordinaria è stata legittimata anche una maggiore altezza del fabbricato, pari a metri 11,90, rispetto al limite di metri 7,50 previsto per le Z.T.O. “E” dalla disciplina edilizia ed urbanistica comunale).
In data 18 ottobre 2012, Ni. Sa. ha richiesto all’amministrazione comunale, sia in proprio sia per delega degli altri germani, il rilascio di un permesso di costruire per realizzare un ampliamento, in sopraelevazione del fabbricato, ai sensi dell’art. 4 della l.r. n. 19 del 2009 ss.mm.ii., con innalzamento dell’altezza dell’immobile sino a mt. 14, 90; tale istanza è stata positivamente riscontrata con il rilascio del permesso di costruire n. 99 del 2012.
Con ordinanza n. 17419 del 6 agosto 2015, è stata ingiunta la sospensione dei lavori relativi alla sopra indicata sopraelevazione e, successivamente alla comunicazione di avvio del procedimento, con provvedimento prot. n. 136/E del 7 ottobre 2015 è stato disposto l’annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 99 del 2012, tenuto conto dell’illegittimità di tale titolo edilizio, stante il contrasto con la disciplina prevista per le zone agricole, segnatamente con riguardo al limite di altezza massimo consentito, della inammissibilità di deroghe a tale parametro anche alla luce delle disposizioni del cd. piano casa Campania, nonché dell’interesse all’ordinato assetto del territorio, dell’incidenza dell’aggravio del carico urbanistico, in correlazione con la necessità di assicurare una adeguata vivibilità del contesto.
Con ordinanza n. 20 del 23.10.2015, l’amministrazione comunale, sulla base del disposto annullamento del titolo edilizio n. 99 del 2012, ha ingiunto la demolizione delle opere eseguite.
Sia il provvedimento di annullamento di ufficio sia l’ordinanza di demolizione sono stati impugnati dagli interessati, unitamente agli altri atti in epigrafe indicati, con il ricorso introduttivo del presente giudizio, con il quale sono stati dedotti vizi di violazione di legge ed eccesso di potere.
Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere al gravame, concludendo per la reiezione del ricorso in quanto infondato”.
Avverso la prefata sentenza di rigetto i signori Sa. Ni. ed altri hanno proposto appello, deducendone l’erroneità e chiedendone l’integrale riforma.
Hanno in proposito lamentato: 1) Error in iudicando et in procedendo. Violazione dei principi di affidamento, logicità, ragionevolezza e proporzionalità – errore sui presupposti di fatto e di diritto – violazione e falsa applicazione dell’art. 4 l.reg. Campania n. 19/2009 – violazione e falsa applicazione del d.m. 1444/68; 2) Error in iudicando et in procedendo. Violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di affidamento, proporzione, partecipazione, motivazione, autotutela degli atti amministrativi di cui agli artt. 9, 10, 3, 21 nonies l. 241/1990- difetto di motivazione – mancata comparazione degli interessi in gioco.
Si è costituito in giudizio il Comune di (omissis), deducendo l’inammissibilità dell’appello e, nel merito, la sua infondatezza.
Le parti hanno prodotto memorie e documentazione.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 18 aprile 2019.
DIRITTO
Può prescindersi dall’esame delle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa del Comune, essendo comunque l’appello infondato nel merito.
Con il primo motivo di appello i signori Sa. lamentano: Error in iudicando et in procedendo. Violazione dei principi di affidamento, logicità, ragionevolezza e proporzionalità -errore sui presupposti di fatto e di diritto – violazione e falsa applicazione dell’articolo 4 L.R. Campania n. 19 del 2009-violazione e falsa applicazione del d.m. 1444/1968.
Deducono in primo luogo l’erroneità della gravata sentenza laddove esclude che la legislazione regionale possa consentire di ampliare l’oggetto della disciplina del condono edilizio attraverso il cumulo dei benefici concessi dalle rispettive normative di favore, le quali operano su piani diversi, risultando ancorate a presupposti diversi.
Rilevano in proposito che gli interventi in ampliamento previsti, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, dall’art. 4 della l.reg. Campania n. 19 del 2009 sono consentiti se l’edificio sia stato realizzato legittimamente ovvero, ancorchè realizzato abusivamente, come nella specie, sia stato preventivamente sanato.
Risultando l’edificio in questione legittimamente condonato, non vi era preclusione all’applicazione dell’articolo 4 della legge regionale citata.
Sotto altro profilo, lamentano che il Tribunale Amministrativo avrebbe erroneamente fatto riferimento, al fine di assumere l’illegittimità del rilasciato permesso di costruire, alla originaria zona “E Agricola”.
Invero, a dire degli appellanti, le leggi dello Stato sui condoni edilizi avrebbero introdotto “di fatto” nuove Zone Territoriali Omogenee, in aggiunta a quelle “storiche” riportate nel d.m. 1444/1968 e, segnatamente: -una ZTO “Residenziale” con destinazione d’uso esclusivamente residenziale ovvero prevalentemente residenziale; -una ZTO “Produttiva” con destinazione d’uso esclusivamente produttiva ovvero prevalentemente produttiva.
Il condono del fabbricato ad uso residenziale farebbe sì che, in caso di successivo intervento edilizio sullo stesso, non debbano essere applicati gli indici urbanistici della Z.T.O. agricola, “atteso che l’edificio esistente, a seguito del condono, verrà ad avere una destinazione diversa da quella impressa dalla Z.T.O. del Piano di Fabbricazione vigente”; con la conseguenza che al lotto di terreno vanno applicati gli indici derivanti dalla esistenza in sito dell’edificio stesso e condonato.
Rilevano, pertanto, che, in mancanza di una disciplina urbanistica espressamente prevista dal Piano di Fabbricazione, ovvero dallo strumento urbanistico vigente, per tale edificio condonato, devono trovare applicazione i parametri previsti dal d.m. 1444/1968 per le zone B, i quali prevedono un’altezza pari all’altezza massima dei fabbricati circostanti, presupposto nella specie esistente, considerando che la sopraelevazione realizzata conduceva ad un’altezza pari a mt. 14, 90, mentre nell’area circostante l’altezza dei fabbricati era pari a mt. 15.
Sotto un terzo profilo, gli appellanti contestano la statuizione del giudice di primo grado laddove esclude l’applicabilità della normativa regionale invocata in ragione dell’esistenza di una espressa disciplina per le zone agricole, contenuta nell’articolo 6 bis della legge regionale n. 19 del 2012, che non consentirebbe l’ammissibilità dell’ampliamento richiesto.
Deducono, anche per tale profilo motivazionale, l’erroneità della sentenza in ragione della non corretta definizione dell’area di insistenza del fabbricato quale zona “E agricola”, in quanto l’avvenuto condono dell’edificio come civile abitazione esclude che l’area di sedime del fabbricato possa essere considerata tale, dovendo, invece, essere ritenuta quale una sorta di zona B coerente con il condono ottenuto.
Il motivo di appello, complessivamente esaminato, è infondato, per le ragioni che di seguito si svolgono.
L’articolo 3 della legge regionale Campania n. 19 del 28 dicembre 2009 prevede che “Gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7 non possono essere realizzati su edifici che al momento della presentazione della Denuncia di Inizio di Attività di edilizia (DIA) o della richiesta di permesso di costruire risultano: a) realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria….”.
Dunque, risulta ostativa all’applicazione della legge l’abusività nell’attualità del manufatto sul quale si intende intervenire.
Ammettendosi gli interventi nell’ipotesi in cui la costruzione sia stata regolarizzata successivamente alla sua edificazione e operando la disposizione sopra citata generico riferimento alla “concessione in sanatoria”, deve ritenersi, in linea astratta, che la legge regionale sia applicabile anche ai manufatti regolarizzati mediante la procedura del condono edilizio, atteso che, all’esito del relativo procedimento, viene rilasciata una “concessione…in sanatoria” (v. art. 35 della legge 28 febbraio 1985, n. 47).
Non essendovi, dunque, una espressa preclusione per le opere oggetto di condono edilizio, può affermarsi che anche le stesse rientrino nel parametro di applicazione della normativa.
Deve, peraltro, essere evidenziato che in concreto l’applicazione della normativa di cui alla legge regionale n. 19/2009 deve tenere conto dei parametri edilizi vigenti per la zona territoriale omogenea sulla quale insiste il fabbricato.
In proposito, va rilevato che il condono edilizio legittima la sussistenza della costruzione realizzata in difformità dalla destinazione della zona territoriale omogenea sulla quale essa insiste, ma non modifica assolutamente quest’ultima.
Il condono, invero, è strumento di regolarizzazione della costruzione edilizia, ma non incide sulla natura della zona omogenea sulla quale essa è stata costruita, determinandone una modificazione.
Invero, la variazione della Z.T.O. consegue unicamente ad un procedimento di pianificazione urbanistica, il quale non è assolutamente ricompreso nel procedimento di condono, che ha valenza esclusivamente edilizia ed è unicamente diretto a consentire la lecita permanenza del fabbricato realizzato sul territorio comunale, anche se realizzato in difformità dalle prescrizioni urbanistiche vigenti.
A tanto consegue che il condono edilizio rilasciato in favore dei signori Sa., per la realizzazione di un fabbricato con destinazione residenziale, non ha determinato affatto la modificazione della zona territoriale omogenea sulla quale lo stesso insiste, la quale risulta essere pacificamente zona “E agricola”.
Non risulta, pertanto, condivisibile la prospettazione degli appellanti, secondo la quale ” le leggi dello Stato sul condono edilizio (l. 47/85, L. 724/94, L. 326/2003) hanno introdotto di fatto nuove Z.T.O. aggiunte a quelle storiche riportate nel d.m. 1444/1968″, “al lotto di terreno (inteso come pertinenza di un edificio condonato) andranno applicati gli indici derivanti dall’esistenza in sito dell’edificio stesso e condonato” e “si applicheranno i parametri previsti dal D.M. 1444/68 per le zone B, atteso che l’immobile è stato condonato per civile abitazione”.
Dalle considerazioni sopra svolte deriva, quindi, che il manufatto condonato, pur realizzato in contrasto con le previsioni della suddetta zona omogenea di insistenza, risulta legittimato nella consistenza e nella destinazione oggetto del titolo in sanatoria, ma continua, ai fini di successivi interventi da realizzarsi sullo stesso, a soggiacere alle prescrizioni dettate dallo strumento urbanistico per la zona territoriale di riferimento.
Tanto vuole significare che sul fabbricato ad uso residenziale edificato potranno essere realizzate opere di manutenzione e di conservazione, ma, in relazione ad interventi successivi che ne modifichino la consistenza, questi saranno ammissibili solo se conformi alla normativa urbanistica che disciplina la zona territoriale omogenea di insistenza.
Orbene, ai sensi dell’articolo 4 della legge regionale n. 19 del 2009, norma invocata dagli appellanti, gli interventi straordinari di ampliamento sono consentiti “nel rispetto… delle altezze massime dei fabbricati di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968”.
Tale decreto ministeriale, all’articolo 8, rubricato “Limiti di altezza degli edifici”, con riferimento “agli edifici ricadenti in altre zone” (previsione riferibile alla zona E agricola, non oggetto di autonoma e diversa disciplina), prescrive che le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici.
Ne consegue che, a prescindere dall’applicabilità al caso in esame della reintrodotta disciplina contenuta nella lettera h) del comma 1 dell’articolo 2 (“…per distanze minime e altezze massime dei fabbricati si intendono quelle previste dagli strumenti urbanistici generali o, in assenza, quelle definite dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444”), comunque, atteso il citato rinvio agli strumenti urbanistici operato dall’articolo 8 del richiamato d.m., il limite di altezza massima da osservare è quello della zona urbanistica di insistenza del fabbricato, così come disciplinato dallo strumento urbanistico.
Dovendosi considerare che per la zona “E” il Programma di Fabbricazione, vigente all’epoca del rilascio del permesso di costruire oggetto di annullamento, prevedeva un’altezza massima pari a mt. 7. 50, risulta evidente che il richiesto ampliamento in sopraelevazione del fabbricato non poteva essere assentito, in quanto avrebbe condotto ad una altezza massima di mt. 14. 90, in violazione delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico.
Non rileva, infatti, che l’edificio, così come condonato, già superasse tale altezza, in quanto alto mt. 11, 90.
Invero, il condono edilizio ha legittimato la difformità dalla normativa urbanistica regolarizzando il manufatto in relazione a tale altezza.
Tuttavia, come sopra visto, in mancanza di modifiche dello strumento urbanistico e della Z.T.O. di insistenza, ulteriori interventi di ampliamento del fabbricato avrebbero dovuto comunque rispettare le prescrizioni in materia del Programma di Fabbricazione e, dunque, un incremento di altezza da mt. 11,90 a mt. 14, 90 non poteva essere assentito, in quanto violativo del limite massimo dallo stesso previsto, posto a mt. 7,50.
Le considerazioni sopra esposte privano di pregio anche la terza doglianza proposta con il primo motivo di appello, con la quale si contesta la statuizione del Tribunale Amministrativo, laddove ha rilevato che non sussisterebbero i presupposti per l’applicazione dell’articolo 4 della legge regionale, in quanto l’immobile è inserito in area ricompresa nelle Z.T.O. “E agricola”, per la quale il legislatore regionale ha introdotto una specifica disciplina contenuta nell’articolo 6-bis della legge ed in relazione alla quale sarebbe esclusa la possibilità di ampliamenti.
Orbene, va rilevato che la pronuncia del giudice di primo grado non viene censurata con riferimento alla ritenuta inammissibilità di ampliamenti in applicazione del richiamato articolo 6-bis della legge regionale.
Gli appellanti, invero, deducono esclusivamente che nella specie “il Tar Campania continua a definire l’area, su cui insiste l’immobile…,come zona “E agricola” quando, invece, come detto, essendo stato l’immobile condonato come civile abitazione, l’area di sedime su cui lo stesso insiste non può più essere considerato alla stregua di una zona “E agricola” ma come una sorta di zona B coerente con il condono ottenuto…”.
Il profilo di censura, così come articolato, è infondato, dovendosi richiamare le argomentazioni già in precedenza esposte.
Difatti, come sopra rilevato, il condono ha una valenza meramente edilizia e non urbanistica.
Il rilascio del titolo in sanatoria legittima l’immobile così come realizzato, ma non determina alcuna modificazione della natura e della disciplina della zona territoriale di insistenza.
Sicchè il manufatto deve ritenersi realizzato ed esistente in zona “E agricola” e tale destinazione di zona, in assenza di procedimenti di variante, è rimasta tale pur dopo l’avvenuto condono, trovando applicazione la relativa disciplina (così come prevista dallo strumento urbanistico), la quale viene a costituire il legittimo parametro di riferimento per valutare l’assentibilità di ulteriori interventi sul fabbricato.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, pertanto, il primo motivo di appello è infondato.
Con il secondo motivo di appello i signori Sa. lamentano: Error in iudicando et in procedendo. Violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di affidamento, proporzione, partecipazione, motivazione, autotutela degli atti amministrativi di cui agli artt. 9, 10, 3, 21 nonies l. 241/1990 – mancata comparazione degli interessi in gioco.
Nello sviluppo del motivo di appello i signori Sa. censurano la gravata sentenza nella parte in cui ha respinto la doglianza di violazione dell’articolo 21 nonies della legge n. 241/1990, con particolare riferimento alla ragionevolezza del termine entro il quale l’annullamento è stato pronunciato.
A loro dire, la sentenza di primo grado sarebbe erronea nella parte in cui ha affermato che la modifica apportata alla legge n. 241 del 1990, laddove ha previsto che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato di ufficio entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione dei vantaggi economici”, sarebbe applicabile solo per i provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore in considerazione della natura innovativa (e non interpretativa) della disposizione.
Assumono che questa costituirebbe comunque canone interpretativo della ragionevolezza del termine entro il quale esercitare l’autotutela, da utilizzarsi anche per le fattispecie alle quali la norma, a stretto rigore, non sarebbe applicabile.
Aggiungono che, in ogni caso, anche a voler accedere alla tesi del Tribunale secondo cui la valutazione sulla ragionevolezza non deve avere carattere automatico ma presuppone un accertamento caso per caso, il provvedimento di annullamento sarebbe illegittimo, in quanto è stato adottato a distanza di tre anni dal rilascio del titolo e quando la parte più significativa dei lavori era già stata completata.
Il motivo di appello non può trovare accoglimento.
Va preliminarmente osservato che nell’articolazione della censura gli appellanti non sottopongono a critica il ragionamento seguito dal Tribunale per ritenere la sussistenza degli elementi di cui all’articolo 21 nonies citato, concernenti la sussistenza di un interesse pubblico al ritiro e la valutazione degli interessi dei destinatari dell’atto.
Tale statuizione del Tribunale non è, dunque, rimessa in discussione nella presente sede ed il Collegio non può pronunciarsi sul punto.
La critica alla sentenza di prime cure, così come articolata nel motivo di appello, riguarda unicamente la questione dell’applicazione del termine di diciotto mesi ai fini dell’annullamento e, dunque, solo questa può essere oggetto di esame da parte del giudice di appello.
In proposito, va rilevato che nel ricorso di primo grado i signori Sa. avevano così formulato la censura: “Va in primo luogo affermata l’illegittimità assoluta del provvedimento di annullamento di ufficio ex art. 21 nonies L. 241/90 del Permesso di Costruire n. 99/2012 del 18 ottobre 2012 da parte dell’impugnata Determinazione Dirigenziale n. 136/E del 7 ottobre 2015, per violazione del termine perentorio di 18 mesi dall’emanazione del provvedimento favorevole, termine entro cui l’art. 21 nonies, come modificato dall’art. 6, lett. d), n. 1 della L. 124/2015consente l’annullamento in autotutela dei provvedimenti autorizzatori, qual è appunto il permesso di costruire”.
Dunque, non era stata contestata la “ragionevolezza” in sé del termine entro il quale il permesso di costruire era stato annullato, ma specificamente la violazione del termine di diciotto mesi.
Ciò posto, il Tribunale ha ritenuto che tale termine non operasse nel caso di specie, risultando l’atto di autotutela relativo ad un provvedimento emanato prima dell’entrata in vigore della modifica normativa.
Sul punto, si osserva che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. Stato, V, 19-1-2017, n. 250; sez. VI, 13-7-2017, n. 3462) ha chiarito che il suddetto termine non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 125 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi) finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa. Si arriverebbe, infatti, all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
Facendo applicazione delle sopra riportate coordinate ermeneutiche alla vicenda in esame, deve evidenziarsi, a fondare comunque la conclusione dell’insussistenza di violazione del suddetto termine di diciotto mesi, che lo stesso non era ancora decorso al momento dell’adozione del gravato provvedimento di autotutela.
Va, invero, considerato che la novella legislativa che lo ha introdotto è entrata in vigore il 28 agosto 2015, mentre la determinazione di annullamento (determinazione dirigenziale prot. n. 136/E) è stata adottata in data 7 ottobre 2015, ben prima dello spirare dello stesso.
Va, peraltro, evidenziato che, con riferimento all’annullamento di provvedimenti di primo grado adottati prima della modifica normativa di cui sopra, la richiamata giurisprudenza afferma che è fatta comunque salva l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990, aggiungendo che – per quanto i diciotto mesi non possano considerarsi ancora decorsi – è anche vero che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (cfr. Cons. Stato, VI, 10-12-2015, n. 5625).
Deve, dunque, essere valutato se nel caso di specie il provvedimento di ritiro sia stato adottato entro un termine comunque “ragionevole”.
Al riguardo, va osservato che il provvedimento di primo grado (permesso di costruire n. 99/2012) è stato adottato il 18-10-2012, mentre il provvedimento di autotutela è stato emanato il 7 ottobre 2015, a distanza di tre anni.
Ritiene il Collegio che tale termine non possa considerarsi irragionevole, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto ed alla tipologia del provvedimento oggetto di ritiro.
Va, in primo luogo,osservato che la circostanza che il termine di diciotto mesi costituisca comunque utile parametro di riferimento non significa necessariamente che, ove un tale lasso temporale risulti decorso tra l’adozione del provvedimento oggetto di ritiro e l’atto di annullamento, quest’ultimo debba sempre e comunque ritenersi emanato oltre un termine ragionevole, atteso che l’automatica rilevanza dello stesso, finirebbe sostanzialmente col rendere retroattiva l’innovazione normativa introdotta con la richiamata legge n. 125 del 2015.
Ciò posto, va rilevato che il suddetto termine di tre anni non supera il termine di efficacia normalmente attribuito al permesso di costruire, atteso che, a norma dell’articolo 15 del d.P.R. n. 380/2001, il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo e che quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata, non può superare tre anni dall’inizio dei lavori.
Non può, pertanto, dirsi irragionevole il termine utilizzato per l’annullamento di un permesso di costruire quando il potere di autotutela risulti esercitato comunque nell’ambito temporale di efficacia del titolo abilitativo edilizio.
A ciò deve aggiungersi che l’annullamento è stato adottato quando i lavori di realizzazione della sopraelevazione non erano stati ancora ultimati, neppure sotto il profilo strutturale.
Dall’ordinanza di sospensione dei lavori edili (prot. n. 17419 del 6-3-2015), depositata in atti, emerge che il solaio di copertura non risultava ancora “gettato”, circostanza questa che trova conferma nella documentazione fotografica allegata alla prodotta perizia tecnico descrittiva di parte, a firma dell’ing. Filippo Fecondo.
Dunque, al momento in cui il Comune ha avviato l’attività repressiva ed ha contestato il contrasto con le disposizioni urbanistiche, risultava realizzata la struttura portante verticale, ma non ancora il solaio di copertura, le tompagnature esterne e le opere interne.
La parziale effettuazione dei lavori evidenzia una posizione di affidamento del privato non pienamente consolidata e, pertanto, recessiva rispetto alle ragioni di interesse pubblico (attinenti agli standards urbanistici) palesate nel provvedimento di autotutela.
Dunque, sulla base dei concorrenti profili sopra evidenziati, può ritenersi che l’atto di annullamento sia intervenuto entro un lasso temporale “ragionevole”.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte deve ritenersi, pertanto, anche l’infondatezza del secondo motivo di appello.
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza di primo grado, sia pure con le specificazioni motivazionali più sopra riportate.
Le spese del grado seguono la soccombenza e si liquidano, in favore del Comune di (omissis), come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna gli appellanti al pagamento, in favore del Comune di (omissis), delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in euro 2000 (duemila), oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Francesco Mele – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere
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