Consiglio di Stato, Sentenza 2 novembre 2020, n. 6725.
Il provvedimento di inquadramento in ruolo dei pubblici dipendenti ha natura autoritativa e come tale va impugnato, ove lesivo, entro il prescritto termine decadenziale, con la conseguenza che non è ammissibile un’azione volta all’ottenimento di un diverso inquadramento, se non tempestivamente proposta avverso il provvedimento di attribuzione della qualifica, né è ammesso un autonomo giudizio di accertamento in funzione di disapplicazione di provvedimenti dell’Amministrazione, atteso che l’azione di accertamento è esperibile a tutela di un diritto soggettivo, laddove la posizione del pubblico dipendente, a fronte della potestà organizzatoria della pubblica amministrazione, ha consistenza di interesse legittimo.
Sentenza 2 novembre 2020, n. 6725
Data udienza 22 ottobre 2020
Tag – parola chiave: Pubblico impiego – Attività pre ruolo – Anzianità di servizio – Provvedimento di inquadramento in ruolo dei pubblici dipendenti – Natura autoritativa – Impugnative
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10498 del 2018, proposto da
Lu. Ca. e Sa. St., rappresentati e difesi dagli avvocati St. Vi. e Da. Ca., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;
contro
Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, via (…), è domiciliata ex lege;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma Sezione Terza n. 06844/2018, resa tra le parti, concernente la pretesa a ottenere il riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata durante il rapporto di lavoro preruolo.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’ARERA;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 ottobre 2020 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti l’avvocato St. Vi. e l’avvocato dello Stato Fa. To.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I sig. ri Lu. Ca. e Sa. St. sono stati assunti dall’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (ARERA), con contratti a termine ai sensi dell’art. 2, comma 30, della L. 14/11/1995, n. 481.
Successivamente, a seguito di pubblico concorso, la medesima Autorità li ha inquadrati in ruolo senza, però, riconoscere loro l’anzianità di servizio maturata nel pregresso rapporto di lavoro a tempo determinato.
Ritenendo il disposto inquadramento illegittimo, i suddetti sig.ri lo hanno impugnato con ricorso al T.A.R. Lazio – Roma, al quale hanno anche domandato l’accertamento del diritto al riconoscimento della detta anzianità e il risarcimento dei danni.
Con sentenza 19/6/2018, n. 6844, l’adito Tribunale, ha dichiarato irricevibile il ricorso.
Avverso la sentenza hanno proposto appello i sig.ri Ca. e St..
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’ARERA, che con successiva memoria ha meglio illustrato le proprie tesi difensive.
Alla pubblica udienza del 22/10/2020 la causa è passata in decisione.
Col primo motivo si denuncia l’errore commesso dal giudice di prime cure nel dichiarare tardivo il ricorso.
Difatti, contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure, la posizione soggettiva azionata non avrebbe natura di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo, con conseguente possibilità di esperire la relativa tutela entro il termine prescrizionale.
Infatti:
a) l’immissione in ruolo non avrebbe comportato variazione delle mansioni precedentemente svolte;
b) l’assunzione potrebbe avvenire anche in qualifiche superiori a quella iniziale (art. 7, comma 4, del regolamento del personale);
c) la progressione economica avverrebbe indipendentemente dall’esistenza di posti vacanti nel livello superiore (artt. 50, 53, comma 3, e 58 del regolamento del personale).
La tesi fatta propria dal Tribunale contrasterebbe, inoltre, con la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva comunitaria 28/6/1999, n. 1999/70/CE.
La doglianza è infondata.
Con sentenza 15/1/2020, n. 380, che il Collegio condivide, questa Sezione, occupandosi di una vicenda analoga a quella per cui è causa, ha già affrontato la tematica posta col motivo in esame, risolvendola in senso contrario alla tesi degli odierni appellanti.
Non resta, pertanto, che riprendere le motivazioni della citata pronuncia. “E invero, per consolidata giurisprudenza, il provvedimento di inquadramento in ruolo dei pubblici dipendenti ha natura autoritativa e come tale va impugnato, ove lesivo, entro il prescritto termine decadenziale, con la conseguenza che non è ammissibile un’azione volta all’ottenimento di un diverso inquadramento, se non tempestivamente proposta avverso il provvedimento di attribuzione della qualifica, né è ammesso un autonomo giudizio di accertamento in funzione di disapplicazione di provvedimenti dell’Amministrazione, atteso che l’azione di accertamento è esperibile a tutela di un diritto soggettivo, laddove la posizione del pubblico dipendente, a fronte della potestà organizzatoria della pubblica amministrazione, ha consistenza di interesse legittimo (Cons. Stato, Sez. II, 15/10/2019, n. 7038; Sez. V, 24/1/2019, n. 608; 4/9/2017, n. 4177; 31/1/2012, n. 449; 28/2/2011, n. 1251; 3/2/2011, n. 793; 24/9/2010, n. 7104; 10/6/2002, n. 3198; Sez. VI, 5/3/2013, n. 1314; Sez. III, 23/11/2016, n. 4922; 11/8/2015, n. 3912; C.Si., 18/10/2012, n. 968)” (in termini anche Cons. Stato, Sez. VI, 13/1/2020, n. 294).
Nel caso di specie, col ricorso di primo grado, gli odierni appellanti hanno, tra l’altro, impugnato gli atti di rispettiva assunzione in servizio con la connessa attribuzione, ai fini giuridici ed economici, della relativa posizione di ruolo.
Trattasi, dunque, di provvedimenti di inquadramento pacificamente da impugnare entro i termini decadenziali.
L’illustrata conclusione non è scalfita dalle argomentazioni su cui gli appellanti basano la propria tesi.
E invero:
a) il fatto che costoro, dopo l’assunzione a tempo indeterminato, siano stati adibiti alle stesse mansioni precedentemente espletate è del tutto ininfluente, rilevando, invece, il mutato titolo alla stregua del quale, le pur identiche mansioni, sono state svolte;
b) che l’Autorità possa “bandire concorsi anche per qualifiche diverse da quelle iniziali di ciascuna carriera” e che quest’ultima possa svilupparsi, sotto il profilo economico, senza necessità che sussistano vacanze nei livelli superiori, rappresentano circostanze del tutto inidonee a influire sulla natura dell’atto in base al quale avviene l’assunzione in ruolo.
c) l’eventuale violazione di una disposizione euro unitaria (nella specie clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE) si risolve in un vizio di legittimità dell’atto amministrativo da far valere negli ordinari termini impugnatori (Cons. Stato, Sez. V, 19/5/2009, n. 3072).
Peraltro, per pacifico insegnamento della Corte di Giustizia UE, spetta agli Stati membri disciplinare le modalità di accesso alla tutela delle pretese di rilievo euro unitario con l’unico limite (nella specie non superato) che le stesse non devono “essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi previsti per la tutela dei diritti derivanti dall’ordinamento interno (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività )” (cfr Corte di Giustizia UE 26/11/2015, in C-166/14, Med Eval e precedenti ivi citati).
Col secondo mezzo di gravame si deduce che il Tribunale avrebbe errato a ritenere che l’amministrazione non fosse obbligata a estendere agli appellanti gli effetti del giudicato di cui alla sentenza 3/3/2015, n. 1636 con cui la VI Sezione del Consiglio di Stato ha annullato l’atto di inquadramento di alcuni dipendenti dell’ARERA per il mancato riconoscimento, ai fini della ricostruzione della carriera, del servizio pre ruolo.
Diversamente da quanto affermato dal giudice di prime cure, il suddetto giudicato non spiegherebbe effetti solo inter partes, poiché avrebbe a oggetto un atto dal contenuto unitario e inscindibile.
Risulterebbe, inoltre, viziata l’affermazione della gravata sentenza secondo cui “le esigenze di risanamento della finanza pubblica sono idonee a sorreggere, sul piano della compatibilità costituzionale, disposizioni che introducono differenze di trattamento volte a conseguire economie di spesa”.
La detta asserzione sarebbe, infatti, in contrasto col divieto di discriminare i lavoratori a termine sulla base di eventuali esigenze di bilancio pubblico, più volte affermato dalla Corte di Giustizia UE.
La doglianza è infondata.
E invero, anche la pretesa all’estensione del giudicato avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso tempestiva censura avverso gli atti di inquadramento.
Il motivo è, comunque, infondato sotto due ulteriori profili.
Per un verso, non risulta provato che gli odierni appellanti fossero contemplati nella medesima determinazione oggetto dell’invocata sentenza n. 1636/2015.
Per altro verso, il provvedimento di inquadramento relativo a più pubblici dipendenti ha natura di atto plurimo, per cui ciascuna delle contestuali determinazioni formalmente inclusa nell’unico documento, conserva la sua individualità e non lega necessariamente la sua sorte a quella delle altre.
Da tanto consegue che, in applicazione dell’art. 2909 cod. civ., la caducazione parziale dell’atto di inquadramento non possa estendere i propri effetti in favore di soggetti i quali non ne abbiano promosso l’impugnativa. Il che esclude anche la sussistenza, in capo alla pubblica amministrazione, di un obbligo giuridico di accordare ai soggetti non contemplati nel giudicato i benefici da questo derivanti (Cons. Stato, Sez. VI, 13/2/2009, n. 765; Sez. IV, 15/6/2004, n. 3907; Sez. V, 18/10/1996, n. 1254).
E’, infine, assorbita dall’effetto devolutivo dell’appello la censura con cui si critica la motivazione della sentenza concernente la ritenuta idoneità delle esigenze di risanamento a giustificare differenze retributive.
Infatti, in secondo grado il giudice valuta tutte le domande proposte, integrando e correggendo – ove necessario – le argomentazioni della sentenza appellata senza che, quindi, rilevino le accidentali carenze motivazionali di quest’ultima (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 18/4/2019, n. 2973; 6/2/2019, n. 897; 14/4/2015, n. 1915; Sez. V, 23/3/2018, n. 1853; 19/2/2018, n. 1032 e 13/2/2009, n. 824; Sez. IV, 5/2/2015, n. 562).
La reiezione delle doglianze sin qui affrontate, con la conseguente conferma della sentenza gravata, preclude l’esame degli ulteriori motivi con cui sono state riproposte le censure non trattate in primo grado.
L’appello va, in definitiva, respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere
Giovanni Orsini – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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