Divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 5 agosto 2019, n. 5537.

La massima estrapolata:

Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla art. 96. lett. f), R.D. n. 523/1904 è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche, e soprattutto, il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33, L. n. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria.

Sentenza 5 agosto 2019, n. 5537

Data udienza 9 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2735 del 2016, proposto dal signor Wa. Pi., rappresentato e difeso dagli avvocati An. So. e Fr. So. ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato Ma. Se. in Roma, via (…);
contro
il Comune di Parma, in persona del dirigente dell’Avvocatura comunale pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ad. Ro. ed An. Ro. ed elettivamente domiciliato presso lo studio dei suindicati difensori in Roma, viale (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, Sede staccata di Parma, Sez. I, 16 marzo 2016 n. 105, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio del Comune di Parma e i documenti prodotti;
Vista l’ordinanza della Sezione 29 aprile 2016 n. 1549 con la quale, in conferma del decreto presidenziale 8 aprile 2016 n. 1245, è stata respinta l’istanza cautelare proposta dalla parte appellante;
Esaminata le ulteriori memorie depositate;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del 9 maggio 2019 il Cons. Stefano Toschei e uditi gli avvocati Ma. Se., per delega dell’avvocato An. So. e Ad. Ro.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con ricorso in appello il signor Wa. Pi. ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, Sede staccata di Parma, Sez. I, 16 marzo 2016 n. 105, con la quale sono stati respinti il ricorso introduttivo (R.G. n. 273/2015), proposto dallo stesso signor Pi. al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento comunale, prot. n. 99635 dell’8 giugno 2015, avente ad oggetto “rigetto della domanda di condono edilizio” nonché il ricorso recante motivi aggiunti proposto per l’annullamento della conseguente ordinanza, prot. n. 227268 del 16 dicembre 2015, con la quale il Comune di Parma ha ordinato di procedere alla demolizione delle opere abusive nonché al ripristino dello stato dei luoghi entro il termine perentorio di 90 giorni.
2. – Dalla documentazione depositata in atti, sia nel corso del primo che in occasione del secondo grado di giudizio, può ricostruirsi la vicenda contenziosa qui in esame, nei limiti di quanto è di interesse per la decisione dell’appello, come segue:
– il signor Wa. Pi., con domanda prot. n. 22243 del 29 marzo 1986, aveva chiesto al Comune di Parma il rilascio del condono edilizio ai sensi della l. 28 febbraio 1985, n. 47 con riferimento a due contigui edifici realizzati senza il prescritto titolo abilitativo nell’area di sua proprietà in località (omissis) di Parma, Strada (omissis), per complessivi mq. 225,40;
– il Comune di Parma respingeva (una prima volta) l’istanza di condono di cui sopra con provvedimento n. 73149 del 4 novembre 1994 che era impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale competente per territorio (per l’Emilia Romagna, sede staccata di Parma) con ricorso che veniva accolto con sentenza n. 774/1994 perché l’atto di diniego era ritenuto affetto da incompletezza di istruttoria e da carenza di motivazione;
– il Comune di Parma, dunque, svolgeva una nuova istruttoria procedimentale all’esito della quale denegava ancora una volta il richiesto condono edilizio con il provvedimento n. 99636 dell’8 giugno 2015;
– nel suddetto provvedimento di diniego di condono edilizio gli uffici comunali chiarivano che, all’esito dei nuovi approfondimenti istruttori si era ritenuto opportuno acquisire, chiedendole al Servizio tecnico dei Bacini degli affluenti del Po, alcune precisazioni sulle modalità di individuazione della fascia di inedificabilità assoluta di cui al Testo unico sulle Opere idrauliche di cui al r.d. 25 luglio 1904 n. 523 che individua, lungo i percorsi delle acque pubbliche, una fascia di inedificabilità (assoluta) individuata dall’art. 96, lett. f) per evidenti motivi di sicurezza idraulica, disposizione che per le caratteristiche dell’intervento costruttivo e l’ubicazione dello stesso avrebbero dovuto nella specie trovare applicazione;
– non avendo ricevuto risposta dal suindicato servizio tecnico, l’ufficio edilizia del Comune di Parma, all’esito di un sopralluogo e appurato che gli edifici “si trovano in fregio al torrente Ba. (sponda destra idraulica) fra l’alveo e l’argine di difesa esistente e quindi ubicati totalmente all’interno della fascia di inedificabilità assoluta come sopra individuata”, ritenevano non rilasciabile il richiesto condono edilizio;
– da qui l’impugnazione del provvedimento di diniego dinanzi al Tribunale amministrativo regionale insieme con la successiva ordinanza di demolizione e rimessione in pristino stato dei luoghi, pure adottata dagli uffici comunali e impugnata con ricorso recante motivi aggiunti;
– nel giudizio di primo grado il signor Pi., in particolare, rappresentava l’assenza assoluta di istruttoria che ha condotto gli uffici comunali a disporre il diniego di condono senza avere dimostrato adeguatamente, nel caso di specie, l’applicabilità della normativa vincolistica agli immobili per i quali era stato chiesto il rilascio del condono, tenendo conto che gli edifici insistono su aree private e che comunque l’Ufficio competente, al quale si erano rivolti gli uffici comunali al fine di fare chiarezza sull’applicabilità o meno della disposizione di impedimento vincolistico all’attività costruttiva, non aveva risposto, determinandosi dunque una decisa incertezza circa l’applicazione delle richiamate disposizioni impeditive nell’area in questione;
– seguivano poi ulteriori motivi attinenti all’illegittimo svolgimento dell’istruttoria per mancata preventiva, comunicazione dei motivi ostativi al diniego di condono, non potendo assumere la identica valenza quanto contenuto nella comunicazione di avvio del procedimento di diniego, difetto di motivazione anche per mancata comprova della sussistenza di vincoli di inedificabilità sull’area in questione;
– il Tribunale amministrativo regionale, con sentenza resa in forma semplificata, dando atto della sussistenza dei relativi presupposti, respingeva il ricorso introduttivo e quello recante motivi aggiunti ritenendo sufficiente l’istruttoria svolta dagli uffici comunali per accertare l’applicazione della previsione impeditiva al condono di cui all’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904 alla vicenda oggetto del contenzioso e dunque la presenza nell’area di una previsione vincolistica di inedificabilità assoluta, dal che anche l’ordinanza di rimessione in pristino si presentava scevra dalle illegittimità contestate.
3. – Nei confronti della sentenza di reiezione del ricorso pronunciata dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna ha proposto appello il signor Wa. Pi., sostenendone la erroneità e chiedendone la riforma in quanto:
– (primo motivo) la norma invocata dal Comune di Parma per denegare il condono e considerare inedificabile l’area occupata dai due immobili abusivi, l’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904, non vieta tout court l’edificazione tra alveo ed argini, ma la impedisce per un tratto di dieci metri dal “piede degli argini”. Ciò conduce ad affermare che l’amministrazione comunale ha dapprima confuso uno stradello che corre lungo il torrente Br., di proprietà privata, con l’argine del torrente e, in secondo luogo, non ha dimostrato con quali modalità operasse nella specie il divieto di inedificabilità ;
– (secondo motivo) il difetto di istruttoria è reso più evidente ancora laddove gli uffici comunali non hanno, negli atti impugnati o in quelli ad essi presupposti, mai chiarito dove fosse localizzato l’argine e per quale ampiezza si estendesse la fascia di inedificabilità, che peraltro non risulta essere normativamente prevista. Ne deriva che l’amministrazione avrebbe dovuto, stante la plateale incertezza circa i presupposti per opporre il diniego di condono, rendere possibile un costruttivo colloquio preventivo con l’interessato comunicandogli un preavviso di diniego, atto non equiparabile allo scarno contenuto della comunicazione di avvio del procedimento di diniego di condono trasmessa dall’amministrazione;
– (terzo motivo) il rilevato stradale che compare con colore verdino nella cartografia in atti non solo è una stradella privata (di soggetto diverso dall’odierno appellante) ma non costituisce argine e comunque non può costituire parametro di misurazione utile ai sensi dell’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904. E’ invece evidente dalla cartografia prodotta in atti che gli edifici in questione sono collocati al di fuori delle aree demaniali e comunque in una relazione settembre 2015 (prodotta in atti) redatta per la realizzazione di un progetto di arginatura del torrente Ba. la stradella di cui sopra non viene affatto considerata, tanto meno quale argine ed anzi non è prevista nell’area alcun intervento di arginatura;
– (quarto motivo) vi è poi da rilevare che nell’area in questione esistono numerosi edifici in condizioni identiche a quelli di proprietà dell’appellante che hanno ottenuto il richiesto condono edilizio;
– (quinto motivo) posto che l’istanza di condono è stata a suo tempo presentata per due edifici, quand’anche dovesse ammettersi la presenza di una fascia di inedificabilità questa dovrebbe riferirsi solo ad uno dei due edifici, trovandosi l’altro collocato ad oltre dieci metri dalla linea tratteggiata con il colore verde nella cartografia.
Da qui la richiesta del signor Pi., in accoglimento dell’appello proposto, di riforma della sentenza emessa dal primo giudice con accoglimento del ricorso introduttivo di primo grado e di quello recante motivi aggiunti (e conseguenziale annullamento degli atti con essi impugnati).
4. – Si è costituito in giudizio il Comune di Parma contestando analiticamente le avverse prospettazioni ed eccependo la formulazione di motivi di appello inammissibili in quanto contenenti elementi e doglianze non dedotte in primo grado.
Nel merito il Comune appellato conferma la completezza dell’istruttoria svolta e la correttezza della sentenza del giudice di primo grado fatta qui oggetto di appello.
Con decreto presidenziale 8 aprile 2016 n. 1245 non è stata concessa la richiesta misura cautelare monocratica e con l’ordinanza della Sezione 29 aprile 2016 n. 1549, in conferma del predetto decreto presidenziale, è stata respinta nella sede collegiale l’istanza cautelare proposta dalla parte appellante.
Entrambe le parti hanno prodotto ulteriori memorie confermando il contenuto delle già rassegnate conclusioni.
5. – Le eccezioni sollevate con la memoria di costituzione nel presente grado di appello dal Comune di Parma possono non essere scrutinate stante l’infondatezza dell’appello proposto per quanto verrà di seguito illustrato.
In via preliminare il Collegio rileva che l’impugnato provvedimento del dirigente responsabile del Settore Pianificazione e sviluppo del territorio, Servizio edilizia privata del Comune di Parma, prot. n. 99635 dell’8 giugno 2015, di rigetto della domanda di condono edilizio nonché la conseguente ordinanza del responsabile del Servizio Controllo abusi edilizi del medesimo comune, prot. n. 227268 del 16 dicembre 2015, di ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, hanno trovato fondamento nel rilievo che le opere realizzate dall’odierno appellante insistono su un’area nella quale è vietata l’edificazione perché si trovano “in fregio al torrente Ba. (sponda destra idraulica) fra l’alveo e l’argine di difesa esistente e quindi ubicati totalmente all’interno della fascia di inedificabilità assoluta”, sottoposta al vincolo di cui al r.d. 25 luglio 1904, n. 523 che, peraltro, è sicuramente riconducibile alla disciplina di cui all’art. 33 l. 28 febbraio 1985, n. 47 sicché il caso di specie rientra nelle ipotesi in essa indicata.
Il vincolo fluviale, come è noto, ha indubbiamente carattere assoluto ed inderogabile; tale vincolo non opera esclusivamente nel caso in cui risulti – obiettivamente e prima facie – che non sussista una massa di acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai fini pubblicistici, ma tale evenienza non riguarda il torrente Ba. in prossimità del quale sono state realizzate le due costruzioni contigue (per come emerge dalla documentazione fotografica prodotta in atti) di proprietà dell’odierno appellante.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già da tempo affermato, del tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all’interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua demaniali, imposto dall’art. 96 lett. f), r.d. 523/1904, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell’ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l’art. 33 l. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 26 marzo 2009 n. 1814).
Come è chiarito costantemente dalla giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., Sez. un., 30 luglio 2009 n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 l. 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr., per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2011 n. 3781 e 12 febbraio 2010 n. 772 nonché Sez. V, 26 marzo 2009 n. 1814).
6. – Sotto altro versante giova precisare che è ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località ” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”. Sennonché – come è stato più volte affermato in giurisprudenza – alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia compendiarsi in una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l’eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l’utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. un., 18 luglio 2008 n. 19813 e Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2011 n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è notizia di alcuna previsione urbanistica ovvero di alcuna normazione locale che abbia disciplinato l’ampiezza del vincolo in questione, con la conseguenza che l’ampiezza dello stesso ricade nella previsione generale dei dieci metri, contenuta nella fonte legislativa più volte sopra citata.
7. – Quanto al difetto di istruttoria paventato dall’appellante perché gli uffici comunali non avrebbero approfondito circa la individuazione dell’argine del torrente Ba., facendolo erroneamente coincidere con uno stradello privato, attiguo ai due edifici, con la conseguenza che il calcolo dell’ampiezza del vincolo risulta condizionato da tale errore di impostazione, peraltro neppure superato dal sopralluogo effettuato nell’area, dal momento che gli operatori comunali intervenuti hanno soltanto svolto una ricognizione esterna e superficiale dei luoghi, l’appellante medesimo non ha fornito alcuna significativa dimostrazione di quanto da lui viene affermato, se non una perizia redatta dallo stesso appellante nella sua qualità di tecnico.
Orbene, come è noto, costituisce jus receptum la costante affermazione secondo la quale grava sul richiedente l’onere di fornire la prova sulle condizioni e sulla consistenza dell’abuso, spettando invece all’amministrazione il compito di controllare i dati forniti che, se non assistiti da attendibile consistenza, implicano la reiezione della relativa istanza (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 14 dicembre 2018 n. 7042).
Nel caso procedimento di condono edilizio, infatti, non è onere dell’amministrazione comprovare le circostanze richieste dalla legge per il condono, spettando all’interessato la rigorosa prova delle stesse (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 2018 n. 1837). Ciò in quanto è il richiedente che versa in una situazione di illecito e che, se intende riportare alla “liceità ” quanto abusivamente realizzato per il tramite dell’adozione da parte della pubblica amministrazione di una concessione edilizia in sanatoria, ha l’onere di provare la sussistenza dei presupposti e requisiti normativamente previsti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24 agosto 2017 n. 4060).
Inoltre, dalla documentazione prodotta il Collegio può rilevare che:
– nelle planimetrie allegate alla domanda di condono edilizio si evidenzia la circostanza di fatto che i due capannoni contigui si trovano ubicati pressoché a ridosso della sponda destra del torrente Ba.;
– dalla tre aerofoto prodotte in giudizio si evince chiaramente (per simiglianza di colorazione) che la prima fascia di colore chiaro è corrispondente al “greto” del torrente, sicché, non potendo il “greto” costituire “argine” del torrente, inevitabilmente lo stradello, ancorché di proprietà privata, diviene fisicamente “argine” del torrente, rilevando quindi (giuridicamente) la sua estrema vicinanza ai due capannoni;
– dall’esame della cartografia (versata in atti) il tratto segnato con il colore verde evidenzia la posizione del fiume e del suo argine, costituito dalla sopraelevazione stradale, in prossimità spaziale con gli immobili per i quali era stato richiesto il condono edilizio.
Non rileva poi quanto sostenuto dall’appellante in ordine ad una mancata ricomprensione dello stradello nel novero degli argini del torrente in una relazione dell’Autorità di Bacino del fiume Po del 18 febbraio 2016, non solo perché successiva all’adozione dei provvedimenti impugnati in primo grado ma perché essa, in realtà, altro non è se non un quesito inviato all’Avvocatura generale dello Stato e quindi non ha valenza decisoria.
8. – Con riferimento ai residuali motivi di appello, che possono esaminarsi nel medesimo contesto, si può affermare che:
– se è vero che l’istituto del preavviso di rigetto (di cui all’art. 10-bis l. 7 agosto 1990, n. 241), stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione di cui al citato art. 10 bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18 gennaio 2019 n. 484), al contrario non è necessario comunicare l’avvio del procedimento di condono edilizio trattandosi di un procedimento ad istanza di parte (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 settembre 2018 n. 5465). Nella specie l’amministrazione, solo formalmente in senso contraddittorio, ha comunicato all’odierno appellante l’avvio del procedimento di diniego di condono edilizio indicando, seppure sinteticamente, le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza di sanatoria a suo tempo presentata, rispetto alle quali l’interessato ha presentato osservazioni. Conseguentemente, dal punto di vista procedurale, non si rinviene il deficit patologico denunciato dall’appellante;
– la motivazione dei due provvedimenti si mostra in linea con gli standard di legittimità indicati dalla giurisprudenza del giudice amministrativo in materia di diniego di condono e di adozione della conseguente ingiunzione a demolire. Infatti, in primo luogo le opere realizzate in area investita da vincolo idraulico con inedificabilità assoluta costituiscono comunque (nonostante le contestazioni della odierna parte appellante) una violazione dei limiti sussistenti in area vincolata e sono state eseguite senza titolo, imponendo all’amministrazione di denegare la richiesta sanatoria ai sensi dell’art. 33 l. 47/1985 (trattandosi di immobili insistenti in una zona assolutamente ed obbligatoriamente inedificabile, alla luce delle previsioni di cui all’art. 96, lett. f), r.d. 523/1904, con conseguente insussistenza di alcun margine di discrezionalità in capo all’amministrazione comunale in ordine alla non sanabilità delle opere ed al conseguente obbligo di provvedere alla loro demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi); sotto un secondo profilo il (successivo) provvedimento che ha ingiunto la demolizione degli immobili abusivi, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al sussistere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede una particolare istruttoria o una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione della situazione antigiuridica. E ciò vale anche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, perché l’eventuale inerzia dell’amministrazione non può radicare un affidamento legittimo in capo al proprietario, mai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare una posizione giuridicamente qualificata e tutelabile in quanto tale (Cons. Stato, ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 9);
– da ultimo l’appellante non ha provato per quale ragione l’ordine di rimessione in pristino avrebbe dovuto limitarsi (al più ) ad uno soltanto dei due manufatti.
9. – Deriva, pertanto, da quanto sopra, la infondatezza dei motivi di appello e la reiezione del gravame proposto dal signor Wa. Pi., con conferma della sentenza fatta oggetto di appello.
Ritiene il Collegio che, in ragione del principio della soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a. (anche) le spese del grado di appello debbono porsi a carico dell’odierno appellante in favore del Comune di Parma, costituito nel presente grado di appello, nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. R.g. 2735/2016, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, Sede staccata di Parma, Sez. I, 16 marzo 2016 n. 105, con la quale sono stati respinti il ricorso introduttivo e quello recante motivi aggiunti (R.G. n. 273/2015) proposti in primo grado.
Condanna la parte appellante, signor Wa. Pi., a rifondere le spese del grado di appello in favore del Comune di Parma, in persona del Sindaco pro tempore, che liquida nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00) oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 9 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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