L’articolo 252, comma 4 del d.lgs. n. 152/2006 prevede che, nella procedura di bonifica di cui all’articolo 242 dei siti di interesse nazionale, debba essere sentito il Ministero delle attività produttive. La norma, si riferisce al “procedimento di bonifica” e, dunque, l’audizione del Ministero delle attività produttive non è richiesta per la sola approvazione del progetto definitivo di bonifica, ma concerne anche gli altri interventi e determinazioni che attengano al suddetto procedimento
Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 5 ottobre 2016, n. 4099
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7143 del 2013, proposto da:
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Ca. Srl, non costituita in giudizio;
nei confronti di
Regione Toscana, Comune di (omissis), Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) – Toscana non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA – FIRENZE: SEZIONE II n. 216/2013, resa tra le parti, concernente determinazioni relative a sito di bonifica di interesse nazionale;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 settembre 2016 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Va.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 216/2013 del 7-2-2013 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda), in accoglimento del ricorso proposto dalla società Ca. s.r.l., annullava i seguenti atti: decreto prot. n. 3622/qdv/di/b adottato in data 18 maggio 2007 dal Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, avente ad oggetto “provvedimento finale di adozione, ex art. 14 ter, legge 7 agosto 1990, n. 241, delle determinazioni delle conferenze di servizi decisorie relative al sito di bonifica di interesse nazionale di (omissis) del 14-3-2005, 30-3-2006 e 28-4-2006; il verbale e le determinazioni assunte dalle conferenze di servizi decisorie tenutesi presso il Ministero dell’ambiente in dat 14-3-2005, 30-3-2006 e 28-4-2006, richiamate nel decreto direttoriale; le determinazioni assunte dalla conferenza di servizi decisoria tenutasi presso il Ministero dell’Ambiente in data 13 dicembre 2006; parere dell’Istituto superiore di sanità prot. n. 641488 ia.12, nella parte in cui determina i valori di concentrazione limite ammissibile relativamente alle sostanze ammoniaca e solfati.
La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“Espone la ricorrente di condurre in locazione un terreno posto nell’ambito del sito di interesse nazionale di (omissis) di proprietà della ditta Fr. Um. Ma. s.r.l. La deducente riferisce, inoltre, di svolgere come attività principale quella del riciclaggio dei residui della lavorazione del marmo, ma che tale attività non ebbe mai concretamente inizio in quanto le autorizzazioni necessarie allo svolgimento non furono mai rilasciate a fronte delle problematiche relative alla caratterizzazione dell’area. A fronte della richiesta da parte del Ministero dell’ambiente di bonifica del suolo dell’area in questione la società Ca. s.r.l. proponeva spontaneamente quale metodologia di intervento l’integrale rimozione del terreno contaminato; proposta che veniva accolta dal Ministero che, con la conferenza decisoria del 30 marzo 2006 approvava il progetto preliminare di bonifica della ricorrente. Quanto alla falda acquifera la caratterizzazione svolta dalla ricorrente e inizialmente non contestata dimostrava l’assenza di contaminazione delle acque sotterranee. Tuttavia nella stessa conferenza del 30 marzo 2006 il Ministero procedente, non solo ordinava alla ricorrente la generica messa in sicurezza d’emergenza della falda, ma contestava anche l’interpretazione dei risultati della caratterizzazione con riferimento al presunto superamento dei valori limite dell’ammoniaca e dei solfati, senza peraltro che alcuna delle due sostanze sia mai stata oggetto di lavorazione o anche di semplice stoccaggio nell’area di titolarità della Ca.. La società decideva comunque di aderire al progetto collettivo di bonifica delle acque sotterranee dell’intera Zona Industriale (omissis), come stabilito dall’Accordo di Programma stipulato il 28 maggio 2007 dal Ministero dell’Ambiente, dalla Regione Toscana, dall’Arpat, dalla Provincia e dai Comuni di (omissis) e (omissis). Ciononostante la ricorrente si vedeva notificare gli esiti della conferenza decisoria del 28 aprile 2006 con la quale veniva prescritto nel termine di 30 giorni: l’adozione immediata di interventi di messa in sicurezza di emergenza della falda acquifera consistenti nella realizzazione di una barriera idraulica di emungimento e successivo trattamento lungo tutto il fronte dello stabilimento a valle idrogeologico dell’area, con interasse di sei pozzi di emungimento in grado di impedire la diffusione della contaminazione; la presentazione del progetto di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico. Con decreto direttoriale del 18 maggio 2007 prot. n. 3622/qdv il Ministero dell’Ambiente recepiva le risultanze della conferenza decisoria. Avverso tali atti propone ricorso la società Ca. s.r.l. chiedendone l’annullamento e deducendo: 1. Invalidità derivata; 2. Violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e segg. Della l. n. 241/1990, dell’art. 17 d.lgs. n. 22/1997 e degli artt. 240 e ss. del d.lgs. n. 152/2006 – eccesso di potere per difetto di presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione – incompetenza – violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001; 3. Violazione e falsa applicazione delle norme in materia ambientale e in particolare degli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006; 4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 15 del decreto ministeriale n. 471/1999 e dell’art. 264 del d.lgs. n. 152/2006 – incompetenza – eccesso di potere per difetto dei presupposti legittimanti, contraddittorietà, difetto di istruttoria, di motivazione, illogicità; 5. Violazione e falsa applicazione dell’art. 17 d.lgs. n. 22/97 e del decreto ministeriale 471 del 1999, nonché degli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 – eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto dei presupposti, della contraddittorietà, del difetto di istruttoria e di motivazione, del travisamento dei fatti, dell’illogicità e dell’ingiustizia manifesta; 6. Violazione e falsa applicazione sotto altro profilo dell’art. 17 d.lgs. n. 22/1997 e del decreto ministeriale n. 471 del 1999, nonché degli artt. 240 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 – violazione e falsa applicazione del decreto ministeriale n. 367 del 6 novembre 2003 – eccesso di potere sotto il profilo del difetto assoluto dei presupposti, della contraddittorietà, del difetto di istruttoria e di motivazione, del travisamento dei fatti, dell’illogicità e dell’ingiustizia manifesta…. “.
Avverso la prefata sentenza hanno proposto appello il Ministero dell’Ambiente e della tutela del Mare e il Ministero dello Sviluppo Economico, chiedendone la riforma con la conseguente reiezione del ricorso di primo grado.
Hanno in proposito dedotto: 1) Falsa applicazione dell’art. 252, comma 4, del T.U. Ambiente; 2) Violazione del principio “chi inquina paga” – violazione e falsa applicazione degli artt. 242, 244, 245, 253 del D.Lgs. n. 152/2006.
Con ordinanza collegiale n. 4346/2014 del 27-8-2014 la Sezione ha disposto incombenti istruttori, con rinvio della trattazione del merito ad una successiva udienza da fissarsi all’esito della decisione della Corte di Giustizia, a seguito del rinvio disposto dall’Adunanza Plenaria con la decisione 25 settembre 2013 n. 21.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 22 settembre 2016.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello i Ministeri in epigrafe lamentano: Falsa applicazione dell’art. 252, comma 4, del TU Ambiente.
Censurano la sentenza gravata nella parte in cui il TAR ha disposto l’annullamento assumendo che l’Amministrazione avrebbe omesso di coinvolgere il Ministero dello Sviluppo Economico.
Deduce che la decisione è erronea, in quanto l’articolo 252 del TU attribuisce la competenza per la procedura di bonifica al Ministero dell’Ambiente, non più di concerto, ma sentito il Ministero delle attività produttive.
Rilevano che tale disposizione si riferirebbe alla approvazione del progetto definitivo di bonifica (conformemente a quanto disponeva il d.m. n. 471/1999), mentre nella specie si tratta della approvazione di misura di sicurezza di emergenza delle acque di falda, delle quali era emersa la contaminazione.
Aggiungono che era stato utilizzato il modulo della conferenza di servizi ed alle stesse il Ministero dello Sviluppo economico era stato invitato, senza peraltro prendervi parte, onde, in applicazione dell’art. 14, comma 3, della legge n. 241/1990, l’esito delle conferenze sarebbe stato coerente con il modulo procedimentale previsto per legge.
La gravata sentenza così motiva sul punto.
“Fondato si rivela, per contro, l’ulteriore profilo di censura dedotto. L’art. 252, comma 4, del TU sull’ambiente stabilisce, infatti, che “La procedura di bonifica di cui all’articolo 242 dei siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, sentito il Ministero delle attività produttive”. La disposizione riportata comporta che il Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico) deve obbligatoriamente far pervenire il proprio parere, per quanto non vincolante, in ordine all’esito finale del procedimento. Orbene, nella fattispecie non risulta che detto Ministero sia stato sentito, né in sede di conferenze di servizio istruttorie e decisorie, alle quali non ha partecipato, né in sede di adozione del decreto conclusivo del procedimento dal quale non risulta l’acquisizione di alcun parere”.
La Sezione condivide il motivo di appello proposto dall’Amministrazione.
L’articolo 252, comma 4 citato prevede che, nella procedura di bonifica di cui all’articolo 242 dei siti di interesse nazionale, debba essere sentito il Ministero delle attività produttive.
La norma, dunque, pone l’obbligo di un parere da parte del suddetto Ministero.
Orbene, pur dandosi atto della circostanza che la richiamata disposizione si riferisce al “procedimento di bonifica” e, dunque, l’audizione del Ministero delle attività produttive non è richiesta per la sola approvazione del progetto definitivo di bonifica, ma concerne anche gli altri interventi e determinazioni che attengano al suddetto procedimento, va peraltro evidenziato che il Ministero dell’Ambiente ha seguito in proposito il modulo procedimentale della conferenza di servizi.
Orbene, risulta che alle conferenze di servizi tenute il Ministero delle attività produttive sia stato regolarmente invitato, non partecipando però ai relativi lavori.
La mancata partecipazione e la mancata adozione di un provvedimento di dissenso postumo, conformemente al modello della conferenza di servizi, ha consentito di ritenere acquisito comunque l’assenso dell’amministrazione che, non partecipando alla riunione della conferenza benchè invitata, non ha espresso la propria definitiva volontà in merito.
La ritenuta fondatezza del primo motivo di appello non comporta, peraltro, la riforma della sentenza gravata, considerandosi che l’annullamento degli atti impugnati ben si regge autonomamente sulle altre ragioni di accoglimento palesate nella pronuncia del giudice di prime cure, contestate con il secondo motivo di appello, il quale – per come appresso si dirà – risulta infondato.
Con il secondo motivo i Ministeri appellanti lamentano: Violazione del principio “chi inquina paga”; violazione e falsa applicazione degli artt. 242, 244, 245, 253 del d.lgs. n. 152/2006.
Censurano la sentenza di prime cure nella parte in cui: premette che le norme vigenti in materia non consentono all’Amministrazione di imporre ai privati, che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta né indiretta sull’origine del fenomeno di inquinamento ma che vengono individuati solo sulla base del fatto di essere proprietari o gestori, obblighi di bonifica, di rimozione e smaltimento, gravando gli stessi unicamente in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’obbligo di ricercare e di individuare; afferma l’insufficienza delle indagini eseguite dall’amministrazione poste a fondamento dell’obbligo di procedere alla messa in sicurezza di emergenza della falda acquifera del sito.
Rilevano in proposito che alla società appellata non è stato impartito l’ordine di bonifica del sito, ma quello di porre in essere adeguate misure di MISE, aggiungendo che l’ordine di messa in sicurezza di emergenza sfugge totalmente, in forza della sua natura cautelare e non sanzionatoria, al presupposto accertamento della responsabilità dell’inquinamento.
Citando giurisprudenza sul punto, evidenziano come il sistema di tutela ambientale comunitario, fondato sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, non preclude la possibilità per l’autorità nazionale di imporre le tempestive, necessarie ed urgenti azioni di tutela, avendo queste non natura sanzionatoria ma di salvaguardia.
Deducono che l’operato dell’amministrazione è conforme al principio di precauzione, cristallizzato dall’art. 174 del Trattato, il quale fa obbligo alle autorità di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire alcuni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e l’ambiente.
In base a tale principio, la condotta dell’amministrazione è stata del tutto legittima e doverosa, non rivestendo pregio alcuno la considerazione del giudice di primo grado secondo il quale non rileverebbero gli obblighi di protezione e di custodia quando l’inquinamento risale -come nella specie- ad un periodo in cui le aree erano di proprietà di altri soggetti.
Assumono che le vicende di rilievo civilistico non incidono sulla operatività delle disposizioni volte alla salvaguardia dell’ambiente, divenendo altrimenti agevole ridurre o eludere l’applicazione della normativa contenuta nel Codice dell’Ambiente.
Il principio colpevolistico non è l’unico criterio di imputazione del danno, dovendosi ad esso aggiungersi quello secondo cui il proprietario di un bene immobile risponde anche dal danno da inquinamento che il terreno continua a cagionare pur dopo il suo acquisto in ragione degli effetti lesivi permanenti derivanti dall’inquinamento. Pertanto, nella interpretazione del principio “chi inquina paga” il “chi” va riferito non solo a colui il quale con la propria condotta attiva ha posto in essere le attività inquinanti, ma anche a colui il quale, con la propria condotta omissiva e negligente, nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal suo titolare.
Tale motivo di appello non è meritevole di favorevole considerazione, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto da parte della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
Va, invero, evidenziato che risultano condivisibili le osservazioni rese dal giudice di primo grado in ordine alla insufficienza delle indagini eseguite, poste a fondamento dell’imposto obbligo di messa in sicurezza dell’area, relative alla individuazione della Ca. s.r.l. quale responsabile dell’inquinamento dell’area.
Il Tribunale Amministrativo ha così statuito sul punto.
“… nel caso all’esame, emerge dagli atti istruttori delle conferenze di servizio l’insufficienza delle indagini eseguite e poste a fondamento dell’obbligo della deducente di procedere alla messa in sicurezza d’emergenza della falda acquifera del sito in questione, nonché la contraddittorietà della condotta dell’Amministrazione procedente. Da un lato infatti…la società ricorrente è presente sul sito solo dall’anno 2003…e non risulta avere mai effettivamente svolto la propria attività che si sostanzia nel riciclaggio dei residui di lavorazione del marmo nella quale, peraltro, non consta che siano impiegate le sostanze (ammoniaca e solfiti). Né l’amministrazione risulta mai avere compiuto un’attività istruttoria volta alla effettiva individuazione del responsabile dell’inquinamento. Peraltro i due analiti riscontrati sono presenti solo in una limitata area del terreno di pertinenza della ricorrente e in concentrazioni lievissime, mentre sono largamente diffuse in tutta la falda sottostante sul sito limitrofa, oltretutto posto a monte idrogeologico rispetto a quello della ricorrente, onde appare del tutto ragionevole, in assenza di ulteriori approfondimenti, non compiuti in fase istruttoria, ritenere che la contaminazione della falda debba ascriversi piuttosto, alle attività svolte nei terreni circostanti. Ne segue che la situazione di incertezza rilevata avrebbe dovuto indurre la Conferenza di servizi ad approfondire le indagini in loco prima di disporre un gravoso adempimento a carico della ricorrente, non potendo la responsabilità soggettiva contemplata dal sistema normativo volgersi in un’affermazione di obbligo riconducibile ad una mera connessione oggettiva, surrogata da mere presunzioni, tra l’inquinamento e l’attività svolta sull’area di impresa”.
Osserva la Sezione che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. Stato, V, 30-7-2015, n. 3756) ha avuto modo di chiarire che, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del Testo Unico dell’ambiente, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità; affermando, altresì, che è, quindi, necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
Orbene, nella vicenda in esame difetta il necessario e preventivo accertamento della qualità di soggetto responsabile dell’inquinamento in capo alla società appellata, con la conseguenza che gli obblighi imposti risultano derivare dalla mera qualifica di proprietario o possessore dell’area e, dunque, dal mero collegamento materiale con essa, a prescindere dalla preliminare e necessaria verifica della qualità della Ca. quale soggetto responsabile dell’inquinamento.
Gli obblighi in tal modo imposti risultano, pertanto, illegittimi.
Tale lettura è, infatti, conforme agli approdi interpretativi cui è giunta l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio nella ordinanza n. 21 del 25-9-2013.
Essa ha specificato che dal quadro normativo emergente dal decreto legislativo n. 152/2006 emergono le seguenti regole: 1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”; 2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2); 3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato) gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall’amministrazione competente (art. 244, comma 4); 4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4); 5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).
Ritiene, inoltre, la Sezione di dover richiamare ulteriori passaggi motivazionali della citata ordinanza del Consiglio di Stato.
Si afferma in primo luogo che ” il riferimento all’onere reale non valga a far diventare obbligatorio ciò che (l’intervento di bonifica) poco prima (art. 245) il legislatore ha qualificato in termini di mera facoltà, quanto piuttosto a far gravare il fondo del rimborso delle spese sostenute dall’autorità che abbia provveduto di ufficio all’intervento”.
Il Supremo Consesso specifica che ” l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area, non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento…e, dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione con i precisi obblighi di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica previsti dagli artt. 240 e ss. del decreto legislativo n. 152 del 2006, che dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
Va, infine, evidenziato che sul rinvio pregiudiziale operato dal Consiglio di Stato sono intervenute da ultimo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4 marzo 2015 (sez. terza, nella causa C-534/13) e l’ordinanza del medesimo organo del 6-10-2015 (sez. ottava, nella causa C-592/13), con le quali è stato affermato che “la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata che non osta a una normativa nazionale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione degli interventi”.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, dunque, deve ritenersi l’infondatezza del secondo motivo di appello.
Tanto in primo luogo in quanto non risulta compiutamente accertata la responsabilità della società appellata nell’inquinamento del sito, neppure sotto il profilo del nesso di causalità tra l’attività dalla stessa svolta e la predetta situazione di inquinamento, onde allo stato la posizione della società non può essere assimilata a quella dell’operatore responsabile dell’inquinamento.
Di poi, non possono essere condivise sul punto le specifiche argomentazioni svolte dalle Amministrazioni in sede di appello, richiamando il Collegio l’orientamento giurisprudenziale già formatosi nella Sezione sul punto (cfr. Cons. Stato, VI, 10-9-2015, n. 4225).
E’ infondato l’argomento della difesa erariale secondo cui il carattere solo cautelare (e non anche latu sensu sanzionatorio) delle misure che erano state imposte non contrasterebbe con (ma anzi risulterebbe imposta dal) l’applicazione del principio “chi inquina paga” e con il principio di precauzione.
Va in proposito osservato che la direttiva 2004/35/CE (la quale declina in puntuali statuizioni i richiamati principi comunitari e fornisce indici ermeneutici di grande rilievo sistematico) non opera alcuna distinzione, per quanto riguarda la necessaria sussistenza del nesso eziologico in punto di causazione del danno fra le misure di prevenzione e le misure di riparazione di cui all’articolo 2, punti 10 e 11.
Al contrario, in entrambi i casi l’insussistenza di un nesso eziologico fra la condotta dell’operatore e l’evento dannoso vale ad escludere qualsiasi conseguenza a suo carico, sia per ciò che riguarda le misure di prevenzione, sia per quanto riguarda le misure di riparazione in senso proprio.
Allo stesso modo, il proprietario incolpevole (o il possessore incolpevole), a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale, gravante su di esso in ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare le puntuali argomentazioni rese dalla già citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha chiarito:
-che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella determinazione del danno;
-che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli criteri di imputazione;
-che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
Non è, inoltre, condivisibile la tesi ministeriale secondo cui il principio “chi inquina paga” dovrebbe essere inteso nel senso che la locuzione “chi” vada riferita anche a colui che, con la propria condotta omissiva o negligente, nulla faccia al fine di ridurre o eliminare l’inquinamento.
Sul punto l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il più volte richiamato criterio di imputazione induce a riferire correttamente la condotta foriera di inquinamento (e i conseguenti profili di responsabilità) all’attività di un operatore economico e non già a quella del proprietario incolpevole che non abbia adottato misure adeguate a fronte dell’inquinamento “causato” (secondo una locuzione peraltro impropria) dal terreno di sua proprietà.
Né risulta fondata l’argomentazione secondo cui, laddove non si esigesse dal proprietario del sito una diligenza particolarmente qualificata in relazione a possibili e pregressi fenomeni di inquinamento, il modello normativo si presterebbe ad applicazioni formalistiche e ad escamotages di carattere elusivo.
Si rinvia in proposito agli argomenti ed alle considerazioni svolte dall’Adunanza Plenaria nell’esame del sistema di responsabilità delineato dal Codice dell’Ambiente, il quale esclude la responsabilità del proprietario per tali fattispecie.
Come si è in precedenza detto, la fondatezza del primo motivo di appello non è sufficiente alla riforma della gravata sentenza, considerandosi che la mancata effettuazione di compiuti adempimenti istruttori sulla qualità di soggetto responsabile dell’inquinamento in capo alla società appellata, alla luce del sistema di responsabilità come sopra delineato, costituisce ragione sufficiente a giustificare l’annullamento dei provvedimenti impugnati disposto dal Tribunale.
In conclusione, dunque, l’appello deve essere rigettato e confermata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale, sia pur con le specificazioni motivazionali più sopra rese in ordine al primo motivo di appello.
Nulla è dovuto per le spese, in considerazione della mancata costituzione in giudizio delle parti intimate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata nei sensi specificati in motivazione.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 settembre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere
Francesco Mele – Consigliere, Estensore
Italo Volpe – Consigliere
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