Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 26 luglio 2018, n. 4572.
La massima estrapolata:
Il danno non patrimoniale non può mai ritenersi in re ipsa, ma va allegato e provato con riguardo a specifici pregiudizi verificatisi nel caso concreto
Sentenza 26 luglio 2018, n. 4572
Data udienza 24 luglio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5255 del 2013, proposto dal:
Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via (…);
contro
la signora An. Nu., rappresentata e difesa dall’avv. Li. Pr., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ac. Di Du. in Roma, via (…);
per l’annullamento o la riforma
previa sospensiva
della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, sezione V, 5 aprile 2013 n. 1783, resa fra le parti, la quale, in accoglimento del ricorso n. 2627/2010 R.G. ha condannato l’amministrazione intimata a risarcire ad An. Nu. nella misura e nei modi di cui in motivazione il danno da illegittima occupazione e detenzione dei fondi di sua proprietà situati a (omissis), in via (omissis), e distinti al catasto di quel Comune al foglio (omissis) particelle (omissis);
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di An. Nu.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza smaltimento del giorno 24 luglio 2018 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per l’amministrazione appellante l’avvocato dello Stato Da. Di Gi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso depositato il 15 maggio 2010, la ricorrente appellante incidentale conveniva avanti il TAR indicato in epigrafe l’amministrazione intimata appellante, e precisamente il Ministero per i beni e le attività culturali – MIBACT, assieme alla Soprintendenza archeologica di (omissis), per sentir accertare nei loro confronti l’avvenuta illegittima occupazione di due terreni situati a (omissis), in via (omissis), e distinti al catasto di quel Comune al foglio (omissis) particelle (omissis) e per sentirle condannare alla restituzione delle stesse, nonché al risarcimento del danno a suo dire subito.
Nel ricorso deduceva, per quanto qui interessa, che i terreni in questione erano stati occupati dalla Soprintendenza sulla base di una pluralità di decreti di occupazione d’urgenza, finalizzati ad eseguire scavi archeologici, più volte rinnovati, ma lasciati scadere senza procedere all’esproprio.
Con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il TAR ha accolto la domanda, condannando l’amministrazione a restituire la particella (omissis), rimasta nel possesso della stessa dopo che la particella (omissis) era stata effettivamente restituita, nonché a risarcire il danno secondo i criteri elaborati da una CTU disposta in corso di causa; in motivazione, il Giudice di I grado dava inoltre atto della possibilità, al posto della restituzione del terreno indicato, di emanare il provvedimento di acquisizione previsto dall’art. 42 bis del T.U. 8 giugno 2001 n. 327.
Contro tale sentenza, l’amministrazione del MIBACT ha proposto impugnazione, con appello che contiene due motivi, entrambi di falsa applicazione dell’art. 42 bis del T.U. 327/2001, nel senso che, a suo dire, tale norma sarebbe inapplicabile agli espropri in materia di beni culturali, perché esclusa dal richiamo operato dall’art. 97 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, e quindi il Giudice di I grado avrebbe dovuto soltanto fissare un termine per disporre l’espropriazione in via ordinaria.
La ricorrente in I grado ha resistito, con memoria 16 luglio 2013, in cui:
– eccepisce in via preliminare l’irricevibilità dell’appello, per violazione del termine di trenta giorni per proporlo a suo dire applicabile ai sensi dell’art. 23 bis legge 6 dicembre 1971 n. 1034, in quanto la Soprintendenza sarebbe assimilabile ad una autorità indipendente perché trasformata in ente autonomo ai sensi dell’art. 9 della l. 8 ottobre 1997 n. 352;
– eccepisce ancora l’improcedibilità dell’appello perché non notificato alla stessa Soprintendenza;
chiede quindi che l’appello sia respinto e propone comunque appello incidentale condizionato, fondato su due motivi:
– con il primo di essi, richiede il risarcimento del danno non patrimoniale;
– con il secondo motivo, chiede la revisione a suo favore dell’importo, a suo dire non congruo, delle spese liquidate in primo grado.
Con ordinanza 28 agosto 2013 n. 3322, la Sezione ha respinto la domanda cautelare, non ravvisando il pericolo di pregiudizio irreparabile.
Alla pubblica udienza del giorno 24 luglio 2018, infine, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, va respinta l’eccezione di irricevibilità dell’appello in quanto asseritamente tardivo.
1.1 L’appellante incidentale sostiene che alla fattispecie si applicherebbe il termine dimezzato di trenta giorni, previsto dall’art. 23 bis della l. 1034/1971, ovvero propriamente dall’art. 119 comma 2 c.p.a. in vigore all’epoca del deposito della sentenza, in quanto, a suo dire, la Soprintendenza archeologica di (omissis) citata in giudizio sarebbe un’autorità indipendente in base alla norma che l’ha istituita, ovvero l’art. 9 della l. 352/ 1997.
1.2 Tale ordine di idee non va condiviso.
La norma citata prevede al comma 1 che “la soprintendenza di (omissis) è dotata di autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria per quanto concerne l’attività istituzionale, con esclusione delle spese per il personale”, e quindi le accorda un certo grado di autonomia, che però non giunge ai livelli che caratterizzano le autorità indipendenti propriamente dette.
In tal senso, è anzitutto la norma che non le accorda autonomia per l’assunzione di personale, che le autorità indipendenti propriamente dette gestiscono invece in prima persona; il successivo comma 6 dell’articolo ribadisce poi che il dirigente della Soprintendenza è pur sempre inserito nel ruolo dei dirigenti del Ministero di riferimento e viene nominato dall’autorità governativa, il che ancora una volta esclude che di autorità indipendente si possa parlare.
1.3 Si nota per completezza che tali considerazioni rimangono ferme anche tenendo conto delle norme successive, in particolare del D.P.R 26 novembre 2007 n. 233 e dal D.P.C.M 29 agosto 2014 n. 171, che rispettivamente agli articoli 18 e 33 configurano le Soprintendenze come organi periferici del Ministero.
2. Ciò posto, l’infondatezza nel merito tanto dell’appello principale quanto dell’appello incidentale esime dal valutare l’ulteriore eccezione preliminare, attinente alla completezza del contraddittorio, in base al principio che si ricava dall’art. 49 comma 2 c.p.a.
3. I due motivi di appello principale vanno trattati congiuntamente, in quanto connessi, e risultano entrambi infondati.
Ai sensi dell’art. 100 del d.lgs. 42/2004, infatti, alle espropriazioni del tipo per cui è causa, ovvero disposte ai sensi dell’art. 97 per interesse archeologico, “si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni generali in materia di espropriazione per pubblica utilità”.
Di tali disposizioni generali, fa all’evidenza parte quella di cui all’art. 42 bis del T.U. 327/2001, dettata per risolvere un problema comune a tutti i tipi di espropriazione, ovvero com’è noto apprestare per il caso di occupazione di un bene non seguita dal perfezionamento dell’esproprio una tutela del privato, altresì adeguata a quanto richiesto in sede sovranazionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. E’ altrettanto evidente che un’interpretazione che escludesse taluni tipi di esproprio dall’ambito di applicazione di tale norma susciterebbe seri dubbi di incostituzionalità, e quindi non va seguita per definizione.
E’ pertanto corretta la decisione del Giudice di I grado, nella parte in cui ha dato all’amministrazione la possibilità di scegliere fra restituire il bene ed emanare, appunto, il provvedimento di cui all’art. 42 bis citato, senza possibilità di espropriare con il procedimento ordinario.
4. Anche l’appello incidentale è infondato nel merito.
4.1 Di esso è infondato anzitutto il primo motivo, con cui si chiede la liquidazione del danno non patrimoniale.
In termini generali, è vero che la domanda risarcitoria è unitaria, e quindi quando, come nella specie, non venga precisata in senso contrario, comprende tutte le possibili voci di danno configurabili a fronte di un dato fatto dannoso, e quindi anche il danno non patrimoniale: così per tutte Cass. civ. sez. III 13 ottobre 2016 n. 20643 e 31 agosto 2011 n. 17879. Di conseguenza, la domanda fatta valere con il motivo in esame deve ritenersi compresa in quella proposta in primo grado.
Va però aggiunto che -per costante giurisprudenza, per tutte da ultimo Cass. civ. sez. III 19 luglio 2018 n. 19137- il danno non patrimoniale non può mai ritenersi in re ipsa, ma va allegato e provato con riguardo a specifici pregiudizi verificatisi nel caso concreto, il che nella specie è mancato.
Non si può invece invocare, come fatto dall’appellante incidentale, la liquidazione forfetaria di cui all’art. 42 bis T.U. 327/2001, che corrisponde ad un indennizzo, non ad un risarcimento, e come tale si basa su un diverso presupposto, ovvero l’avvenuta pronuncia del provvedimento acquisitivo previsto dalla norma, nel caso presente non adottato.
4.2 E’ infondato anche il secondo motivo di appello incidentale, che contesta la liquidazione delle spese in primo grado perché difforme dalla nota asseritamente presentata.
In proposito, va dato atto che, con riguardo agli atti presentati e registrati dal sistema informatico, della nota si fa cenno nelle ultime righe della memoria difensiva depositata dalla parte il giorno 24 gennaio 2013; la nota come tale, peraltro, non risulta reperibile nello stesso sistema. E’ pertanto impossibile appurare se la difformità vi sia stata e per quali ragioni, atteso comunque che l’appello nulla precisa sul punto, né precisa, a prescindere dalla nota, per quali specifici motivi si sarebbe dovuta liquidare una somma superiore, sì che il motivo relativo si potrebbe anche ritenere inammissibile per genericità.
5. La soccombenza reciproca è comunque giusto motivo per compensare le spese del grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe indicato (ricorso n. 5255/2013 R.G.), respinge sia l’appello principale, sia l’appello incidentale.
Compensa per intero fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere, Estensore
Davide Ponte – Consigliere
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