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Il Tribunale amministrativo respingeva il ricorso. La decisione era confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza V, 13 giugno 2016, n. 2529.
En. So. domanda qui la revocazione della detta sentenza del Consiglio di Stato, lamentando un errore di fatto revocatorio, a suo dire dirimente tanto da aver reso irrilevante il vaglio delle ulteriori questioni poste dall’appello: ovvero che gli impianti oggetto della convenzione non fossero tutti di En. So. bensì solo in maggior parte; sicché sarebbe stato carente il requisito- la proprietà esclusiva dell’intera rete cui si riferiva il servizio – giustificante l’applicazione dell’art. 113, comma 14, TUEL per l’affidamento diretto. La sentenza si sarebbe basata su un inciso della sentenza di primo grado, trascurando di esaminare la Convenzione del 2007 tra En. So. ed il Comune: da questo atto, presente agli atti del giudizio di primo grado e di appello, emergerebbe invece che la gestione del servizio ricomprenderebbe soltanto gli impianti di En. So. La sentenza impugnata sarebbe, pertanto, inficiata da un errore di fatto (la ritenuta sussistenza di una proprietà mista degli impianti, lì dove dalla documentazione depositata risulterebbe che gli impianti oggetto della Convenzione sono tutti di proprietà della società).
Quanto alla fase rescissoria, la ricorrente domanda il riesame di tutti i motivi di appello e assume che la convenzione, oggetto di risoluzione, non era in contrasto con l’art. 34 d.-l. n. 179 del 2012 – norma eccezionale e quindi di stretta interpretazione- e che l’affidamento diretto era comunque legittimo in quanto fondato sull’allora vigente 113, comma 14. Essa domanda, altresì, di sollevare dinanzi alla Corte di Giustizia questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea in relazione alla compatibilità con l’ordinamento comunitario della disciplina di cui all’abrogato articolo 113, comma 14, TUEL.
Si costituiva in giudizio il Comune di (omissis) e depositava memorie difensive domandando dichiararsi il ricorso inammissibile o, comunque, infondato.
All’udienza del 12 ottobre 2017 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Non ricorre alcuno degli asseriti casi, tassativamente individuati dagli artt. 395 e 396 Cod. proc. civ. (ai quali rinvia l’art. 106 Cod. proc. amm.), che eccezionalmente possono dare luogo alla revocazione della sentenza. In specie, non ricorre qui l’errore di fatto revocatorio, che sussiste solo se la decisione impugnata si fonda sulla supposizione di un fatto la cui verità sia incontrastabilmente esclusa ovvero quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e purché tale errore non abbia costituito un punto controverso nel giudizio svoltosi. Ai fini dell’ammissibilità della revocazione, l’errata percezione del giudice deve inoltre avere rivestito un ruolo determinante rispetto alla decisione ed essere in rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa, sicché questa sia un effetto dell’errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Come chiarito dalla giurisprudenza, “l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso, ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”(Cons, Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2014 n. 5): e circa il punto non controverso, “è inammissibile un ricorso di revocazione nel caso in cui il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio sia stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione”.
E’ evidente invero che qui vi è insussistenza dell’addotto errore di fatto prospettato dalla ricorrente. Il Collegio rileva infatti che la sussistenza dell’errore di fatto revocatorio è smentito ad tabulas dall’esame della documentazione depositata in giudizio.
In primo luogo, la deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. CC/47/2013 del 31 dicembre 2013 (documento n. 18 del fascicolo di costituzione del Comune) dà atto nelle premesse che con deliberazione della Giunta n. 76 del 3 maggio 2007 era stato approvato lo schema di convenzione per la gestione degli impianti di illuminazione pubblica nel territorio del Comune e che “tale affidamento diretto del servizio era motivato dalla circostanza che la maggior parte degli apparecchi costituenti gli impianti di illuminazione pubblica presenti nel territorio di questo Comune fosse di proprietà di En. So. s.r.l. e che, pertanto, la manutenzione e la gestione degli stessi potesse essere effettuata unicamente mediante convenzione con la società proprietaria”.
La Relazione allegata alla delibera richiamata, ex art. 34, comma 20, d.-l. 18 ottobre 2012, n. 179, si “Affidamento del servizio di pubblica illuminazione” (documento 18 del fascicolo di costituzione del Comune) fa esplicito riferimento, quanto alla “descrizione dell’affidamento in corso”, alla proprietà mista degli impianti e rinvia per le precisazioni del loro numero esatto, la tipologia e la potenza della fonte luminosa, a una tabella da inserire; e afferma che “il servizio di pubblica illuminazione, nel Comune di (omissis), è attualmente gestito, sia per quanto riguarda gli impianti di proprietà di En. So. che per quanto riguarda gli impianti di proprietà comunale, sulla base di una convenzione, stipulata nel 2007 e avente durata di 15 anni, con scadenza prevista quindi nel 2022”.
Infine, la lettura della Convenzione del 2007, richiamata dalla ricorrente tesi, non può essere disgiunta da quella degli allegati 2A e 2B, che per espressa e testuale previsione ne costituiscono parte integrante: il primo contiene l’elenco delle consistenze presunte degli impianti di illuminazione pubblica di proprietà di En. So. e il secondo ha ad oggetto invece l’elenco delle consistenze presunte degli impianti di proprietà comunale. A ulteriore riprova di tale circostanza, l’art. 5 della Convenzione rubricato “Determinazione della consistenza degli impianti e presa in consegna dei medesimi” stabilisce che “Gli impianti di proprietà di En. So. e/o comunale, che, alla data della stipula della presente Convenzione, erano già in gestione di En. So., vengono considerati consegnati alla stessa, senza ulteriori formalizzazioni” e che “la determinazione della consistenza degli impianti e la presa in consegna degli impianti di proprietà del Comune avverrà secondo i modi e i tempi previsti nell’Allegato 4-Procedura di consegna degli impianti di proprietà comunale”.
I documenti in atti del giudizio consentono pertanto di escludere in radice l’addotto errore di fatto in cui sarebbe incorso quel Collegio, evidenziando che la proprietà esclusiva degli impianti di En. So. – ritenuta non sussistente dall’organo giudicante – non integrava affatto una circostanza documentalmente ed in modo incontrovertibile provata; e che, al contrario, la natura mista – in parte comunale e in parte privata – della proprietà degli impianti, oggetto di affidamento diretto ad En. So., costituiva piuttosto un punto controverso del giudizio.
Deve, pertanto, concludersi che quel Collegio, sulla base di una corretta rappresentazione del fatto e della complessiva vicenda oggetto di causa, ha solo dato un’interpretazione differente rispetto a quella prospettata dall’appellante; e ha ritenuto insussistenti i presupposti che avrebbero consentito la prosecuzione di un affidamento diretto del servizio, alla luce della mutata disciplina di derivazione comunitaria e della proprietà non esclusiva degli impianti oggetto di gestione, circostanza emergente dalla documentazione in atti. Detta interpretazione non può essere censurata quale errore di fatto; né dar luogo alla revocazione della sentenza: rimedio che non costituisce un terzo grado di giudizio che consenta di rimettere in discussione il decisum del giudice e coinvolgere nuovamente la sua attività valutativa (ex plurimis: Cons. Stato, V, 12 gennaio 2017, n. 56 e V, 11 dicembre 2015 n. 5657; Cons. Stato, III, 16 marzo 2015, n. 1358).
Il ricorso per revocazione va di conseguenza dichiarato inammissibile.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione esime il Collegio dalla disamina dei profili rescissori dell’impugnazione proposta.
Restano assorbiti i restanti motivi comunque inidonei a fondare una pronunzia di tipo diverso.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna EN. SO. s.r.l. al pagamento delle spese di lite a favore del Comune di (omissis), che liquida forfettariamente in complessivi ? 5.000.00 (cinquemila), oltre oneri accessori.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 ottobre 2017 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini – Presidente
Alessandro Maggio – Consigliere
Angela Rotondano – Consigliere, Estensore
Stefano Fantini – Consigliere
Daniele Ravenna – Consigliere
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