Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 7 giugno 2018, n. 3424.
La massima estrapolata:
Nel caso in cui la sentenza penale di condanna del pubblico dipendente consegue alla richiesta delle parti, non è applicabile il termine di 90 giorni posto dell’art. 9, comma 2, L. 7 febbraio 1990, n. 19 per la conclusione del procedimento, ma la disciplina generale prevista dal T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, perché il termine più lungo ivi previsto si giustifica in considerazione della circostanza che nella fattispecie di cui all’art. 444 c.p.p. manca comunque la completezza degli elementi di prova propri del rito ordinario e l’Amministrazione è tenuta o comunque può liberamente compiere ulteriori accertamenti.
Sentenza 7 giugno 2018, n. 3424
Data udienza 31 maggio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2624 del 2014, proposto dal Signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti Fr. Ca., Ed. Bo. In. e An. Is. Co., e presso lo studio del primo elettivamente domiciliato in Roma, alla via (…) per mandato in calce all’appello
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro in carica, già costituito nel giudizio di primo grado e non costituito nel giudizio d’appello;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione 1^ bis, n. 10653 del 10 dicembre 2013, resa tra le parti, con cui è stato rigettato il ricorso in primo grado n. r. 5494/2015 proposto per l’annullamento della determinazione del Vice Direttore Generale per il personale militare in data 11 febbraio 2005 con cui è stata disposta l’applicazione della sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 maggio 2018 il Cons. Leonardo Spagnoletti e udito per l’appellante l’avv. Fr. Ca.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.) Al signor -OMISSIS-, già appuntato dell’Arma dei Carabinieri, a seguito di sentenza emanata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. dal G.I.P. del Tribunale militare di Roma, irrevocabile il 20 maggio 2004, è stata applicata la pena di mesi due e giorni venti di reclusione militare, sostituita con la multa di Euro 3040,00, in relazione al delitto contestato di furto militare pluriaggravato.
All’esito del procedimento disciplinare, con determinazione in data 11 febbraio 2015 è stata irrogata all’interessato la sanzione della perdita del grado per rimozione.
Con il ricorso in primo grado n. r. 5494/2015 il provvedimento è stato impugnato, deducendo in sintesi le seguenti censure:
1) Decadenza dell’azione disciplinare per superamento del termine per l’avvio del procedimento
L’Amministrazione ha ricevuto comunicazione per estratto della sentenza penale sin dal 28 aprile 2004 e copia della stessa non oltre il 10 maggio 2004, data della sua trasmissione in copia alla Compagnia C.C. Aeroporto di Roma-(omissis).
La contestazione dell’addebito è avvenuta con nota del 17 novembre 2004.
E’ quindi spirato il termine previsto dall’art. 9 della legge n. 19/1990 per l’avvio del procedimento (centottanta giorni), essendo decorsi sino alla contestazione centonovantuno giorni, con le relative conseguenze decadenziali in ordine all’esercizio del potere disciplinare.
2) Decadenza dell’azione disciplinare per superamento del termine per la conclusione del procedimento
Il provvedimento disciplinare è stato notificato all’interessato il 29 marzo 2005 al centounesimo giorno dalla data di contestazione dell’addebito (17 novembre 2004), oltre il termine di novanta giorni pure previsto dall’art. 9 della legge n. 19/1990 per la conclusione del procedimento, con conseguente ulteriore effetto decadenziale.
Peraltro nel caso di specie non è stato svolto alcun accertamento autonomo in ordine al fatto addebitato tale da giustificare il superamento del termine legale, ove anche ritenuto ordinatorio.
Né può revocarsi in dubbio che entro il termine il provvedimento deve essere non solo emanato, bensì notificato all’interessato, trattandosi di atto di natura recettizia, come deve argomentarsi dall’art. 3 del c.p.m.p. che assoggetta alla legge penale militare i militari sino alla notificazione del provvedimento di collocamento fuori dal servizio alle armi.
3) Violazione di legge (art. 38 della legge n. 1168/1961) per mancata emissione dell’ordine di deferimento a commissione di disciplina. Violazione del contraddittorio
Il deferimento alla commissione di disciplina deve intendersi come atto autonomo, distinto e motivato rispetto alla nomina e convocazione dell’organo, nel caso di specie mancato, come del pari all’interessato non è stato partecipato il rapporto finale dell’ufficiale accertatore, con conseguente compromissione del diritto di difesa.
4) Eccesso di potere e violazione di legge per carenza di istruttoria, contraddittorietà, mancata proporzionalità, palese travisamento dei fatti
Non è stato svolto alcun autonomo accertamento dei fatti, e nemmeno sono stati acquisiti gli atti del procedimento penale, ciò che avrebbe permesso di valutare la rilevanza di circostanze segnalate dall’interessato nel medesimo a supporto della sua alternativa spiegazione (rinvenimento e appropriazione di n. 58 buoni pasto, con successiva pronta restituzione e consegna anche di n. 34 buoni pasto appartenenti all’interessato) rispetto al fatto afferente all’imputazione penale (furto pluriaggravato di n. 130 buoni pasto).
5) Violazione Costituzione europea (art. II, 107 secondo comma) – Violazione dell’art. 1 legge n. 241/1990, come novellato dall’art. 1 della legge n. 15/2005 – Eccesso di potere per violazione dei principi di proporzionalità e gradualità della sanzione, illogicità, ingiustizia manifesta, sviamento
L’entità della sanzione irrogata è carente di proporzionalità rispetto al fatto addebitato, trattandosi peraltro di episodio isolato, in assenza di recidiva e considerati gli “ottimi precedenti di servizio”.
Costituitasi in giudizio l’Autorità Ministeriale ha dedotto, a sua volta, l’infondatezza del ricorso.
2.) Con sentenza n. 10653 del 10 dicembre 2013 il T.A.R. per il Lazio ha rigettato il ricorso, rilevando in estrema sintesi:
– l’infondatezza del primo e del secondo motivo di ricorso in ragione dell’inapplicabilità dei termini previsti dall’art. 9 della legge n. 19/1990, riferibili a sentenze di condanna e non di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., con correlata applicazione delle disposizioni generali di cui al d.P.R. n. 3/1957;
– l’infondatezza del terzo motivo perché l’atto di deferimento alla commissione di disciplina è stato comunicato dallo stesso organo collegiale con nota del 26 dicembre 2004 all’interessato che ha sottoscritto la ricezione della medesima il 29 dicembre 2004; sotto altro profilo non è prevista alcuna notificazione del rapporto finale dell’ufficiale accertatore, che non è stato oggetto di richiesta di accesso da parte dell’interessato, che invece ha ricevuto copia di tutti gli altri atti e comunque “…con dichiarazione del 26 novembre 2004 ha rinunciato a presentare giustificazioni o documenti ed a chiedere particolari indagini”;
– l’infondatezza del quarto motivo perché “…come precisato nella sentenza di applicazione della pena su richiesta, l’imputato ha reso dichiarazioni pienamente confessorie … nella fase delle indagini preliminari; il che rende non rilevanti gli eventuali dubbi e le eventuali anomalie risultanti da una ricostruzione dei fatti, effettuata in momenti successivi al verificarsi di questi, attraverso ricordi di soggetti altri”;
– l’infondatezza del quinto motivo perché l’entità della sanzione disciplinare costituisce oggetto di valutazione di ampia discrezionalità, insindacabile se non per profili di manifesta illogicità e irragionevolezza, non ravvisabili nella specie perché “…trattandosi di un carabiniere che si appropria di un considerevole numero di buoni pasto, rendendosi imputabile, per le modalità del fatto, di furto militare pluriaggravato, non può affermarsi che la perdita del grado per rimozione costituisca una sanzione sicuramente sproporzionata, rispondendo piuttosto a criterio di razionalità che l’Amministrazione militare giudichi non compatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro con un soggetto che, per la funzione che è chiamato a svolgere, deve specificamente contrastare reati del genere”.
3.) Con appello notificato il 6 marzo 2014 e depositato il 28 marzo 2014 la sentenza è stata impugnata, con deduzione, in sintesi, dei seguenti motivi:
1) Error in iudicando: violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 19/1990 – Difetto di motivazione
La disciplina e i termini di cui all’epigrafata disposizione devono trovare applicazione nel caso di specie proprio perché non occorrevano ulteriori accertamenti, né avendo l’amministrazione ritenuto di svolgerli.
2) Error in iudicando: violazione per disapplicazione dell’art. 21 bis legge n. 241/1990 – Violazione del principio della domanda – Difetto di motivazione
La sentenza ha del tutto obliterato i rilievi svolti in ricorso in relazione alla sostenuta recettizietà del provvedimento disciplinare in relazione al disposto dell’art. 3 c.p.m.p.
3) Error in procedendo: omessa considerazione della memoria difensiva depositata in primo grado – Violazione del principio della domanda. Error in iudicando: violazione del principio di adeguatezza dell’istruttoria (art. 97 Cost.) – Violazione dell’art. 6 della legge n. 241/1990 – Violazione del diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.)
Si ribadisce che l’ufficiale accertatore non ha acquisito gli atti del procedimento penale e non ha considerato le circostanze segnalate dall’interessato nel medesimo a supporto della sua alternativa spiegazione rispetto al fatto afferente all’imputazione penale, lamentando che la sentenza non abbia argomentato in ordine alla loro irrilevanza.
4) Error in iudicando: violazione dei principi dell’ordinamento interno e comunitario di ragionevolezza e proporzionalità
La sentenza ha “apoditticamente” escluso l’abnormità della sanzione espulsiva, trascurando di considerare che in relazione all’alternativa ricostruzione del fatto, non poteva considerarsi adeguata alla condotta di appropriazione, seguita comunque da spontanea restituzione, e che sulla irrogazione poteva aver influito anche altra vicenda penale dalla quale l’interessato è stato poi completamente scagionato.
Nel giudizio non si è costituita l’Amministrazione appellata.
Con memoria difensiva depositata il 26 aprile 2018, ribaditi i motivi di appello, è stato dedotto:
– che la sentenza non ha considerato come, per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 2 della legge n. 97/2001, la sentenza di patteggiamento è equiparata ad una ordinaria pronuncia di condanna con riferimento ai procedimenti disciplinari, con efficacia di giudicato circa l’accertamento del fatto;
– che anche considerando applicabile il d.P.R. n. 3/1957 il procedimento avrebbe dovuto avere inizio entro il termine perentorio di centottanta giorni e comunque deve ritenersi applicabile l’art. 5 comma 4 della legge n. 97/2001 quanto alla complessiva durata di duecentosettanta giorni tra avvio e conclusione del procedimento.
All’udienza pubblica del 31 maggio 2018 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.
4.) L’appello in epigrafe è destituito di fondamento giuridico e deve essere rigettato con la conferma della sentenza gravata, dando atto delle deduzioni contenute nella memoria difensiva ultronee rispetto alla mera illustrazione dei motivi d’appello (e segnatamente i rilievi riferiti agli artt. 2 e 5 comma 4 della legge n. 97/2001, che costituiscono motivi nuovi introdotti per la prima volta in appello, e come tali sono inammissibili).
4.1) Con riferimento all’invocata applicabilità dei termini previsti dall’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, deve ribadirsi che la disposizione riguarda in modo testuale le sole sentenze irrevocabili di condanna, e quindi non può comprendere le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, secondo costante orientamento giurisprudenziale (vedi tra le tante Cons. Stato, Sez. V, 22 maggio 2013, n. 2781, secondo cui: “Nel caso in cui la sentenza penale di condanna del pubblico dipendente consegue alla richiesta delle parti (cd. patteggiamento), non è applicabile il termine di 90 giorni posto dell’art. 9 comma 2 l. 7 febbraio 1990 n. 19 per la conclusione del procedimento, ma la disciplina generale prevista dal t.u. 10 gennaio 1957 n. 3, perché il termine più lungo ivi previsto si giustifica in considerazione della circostanza che nella fattispecie di cui all’art. 444 c.p.p. manca comunque la completezza degli elementi di prova propri del rito ordinario e l’Amministrazione è tenuta o comunque può liberamente compiere ulteriori accertamenti”; in senso conforme ancora Sez. V, 17 maggio 2010, n. 3128 e Sez. III,; , 4 gennaio 2012, n. 9).
Né la circostanza che, nel caso di specie, l’Amministrazione non abbia ritenuto necessario svolgere ulteriore e autonomo accertamento dei fatti può implicare l’applicazione del suddetto termine.
Ne consegue che trovano applicazione i termini “dinamici” di cui all’art. 120 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, che subordina l’estinzione del procedimento disciplinare alla decorrenza del termine di novanta giorni dall’ultimo atto, circostanza nella specie né allegata, né verificatasi.
Sotto altro profilo è del tutto erroneo, oltre a configurare come già rilevato un motivo nuovo inammissibile, il richiamo all’art. 5 comma 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97, che concerne le sole condanne per i reati di cui al precedente art. 3, ossia riferite ai delitti previsti dagli art. 314 comma 1, 317, 318, 319, 319 ter e 320 c.p. e dall’art. 3 della legge 9 dicembre 1941 n. 1383 (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 30 maggio 2013, n. 2937).
Da quanto precede consegue l’infondatezza del primo motivo d’appello.
4.2) Analogamente infondato è il secondo motivo d’appello, posto che per giurisprudenza consolidata il provvedimento disciplinare deve essere emanato e non anche comunicato entro il termine perentorio finale (o di fase) (cfr. tra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2017, n. 4586 e Sez. VI, 7 giugno 2011 n. 3414).
Nessun rilievo può, poi, assumere il richiamo all’art. 3 del c.p.m.p. che riguarda il solo assoggettamento alla legge penale militare.
4.3) E’ infondato anche il terzo motivo d’appello, perché l’amministrazione può porre a fondamento della responsabilità dell’incolpato anche i fatti che abbiano costituito oggetto di sentenza di applicazione della pena a richiesta delle parti (Cons. Stato, Sez. V, 23 settembre 2015, n. 4449 e Sez. IV, 12 aprile 2011, n. 2272), in base a un ragionevole apprezzamento dei fatti (Sez. IV, 9 gennaio 2013, n. 80), nella specie non scalfiti dalla prospettazione di spiegazione alternativa che non ha trovato ingresso nel giudizio penale e che non è stata comunque supportata da allegazioni difensive in sede disciplinare.
4.4) Con riferimento al quarto motivo d’appello, infine, deve rammentarsi che la valutazione della gravità del fatto, ai fini della commisurazione della sanzione, costituisce espressione di ampia discrezionalità amministrativa, insindacabile salvo che per evidenti profili di manifesto travisamento o manifesta illogicità e irragionevolezza, che palesino con immediatezza una chiara carenza di proporzionalità tra l’infrazione e il fatto, (Sez. VI, 20 aprile 2017, n. 1858 e Sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791).
Nel caso di specie non è dato apprezzare alcuno di tali indici sintomatici, risultando correlata la sanzione espulsiva a fatto di obiettiva gravità denotante la violazione degli elementari doveri di un militare appartenente a forza armata investita di compiti di polizia; peraltro, nessun dubbio può esservi in ordine alla responsabilità dell’appellante, tenuto conto che questi ha ammesso di avere commesso i fatti contestati.
5.) In conclusione l’appello in epigrafe deve essere rigettato, con conferma della sentenza gravata.
6.) Non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio d’appello, nel quale non si è costituita l’Autorità ministeriale appellata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello n. r. 2624 del 2014, come in epigrafe proposto, così provvede:
1) rigetta l’appello, e per l’effetto conferma la sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sezione 1^ bis, n. 10653 del 10 dicembre 2013;
2) dichiara non luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 maggio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente FF
Oberdan Forlenza – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Leonardo Spagnoletti – Consigliere, Estensore
Daniela Di Carlo – Consigliere
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