L’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo per vizi formali (difetto di motivazione, vizi del procedimento) non reca di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno
Consiglio di Stato
sezione IV
sentenza 12 giugno 2017, n. 2857
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9508 del 2011, proposto dalla società Fr. Co. s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avvocato An. Ro., con domicilio eletto presso l’avvocato En. Lu. in Roma, via (…);
contro
Comune di Caserta, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Li. Ga., con domicilio eletto presso l’avvocato Ro. Ma. in Roma, via (…);
nei confronti di
Im. St. s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avvocato An. Ro., con domicilio eletto presso l’avvocato En. Lu. in Roma, piazza (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Campania, sezione VIII, 25 marzo 2011, n. 1733, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Caserta e della Im. St. s.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2017 il consigliere Giuseppe Castiglia;
Uditi per le parti gli avvocati Ro. e Gi., su delega dell’avvocato Ga.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con concessione edilizia n. 321 del 25 settembre 1992, il Comune di Caserta ha autorizzato la società Fr. Co. s.r.l. a realizzare un complesso per civili abitazioni e la copertura di una villetta in un’area ricadente in zona (omissis) del P.R.G., ove era prevista un’altezza massima di 13 metri. Secondo il progetto presentato e approvato, i diversi edifici da costruire non superavano l’altezza massima di metri 12,80.
2. Non avendo completato i lavori nei termini, la Fr. ha chiesto la proroga e poi il rinnovo del titolo.
3. In data 14 dicembre 1999, il Comune ha rilasciato la concessione edilizia n. 049834, chiedendo tuttavia un’articolata riduzione dell’altezza dei vari corpi di fabbrica, in buona parte già realizzati, imponendo un’altezza ricompresa tra m. 6,50 e metri 8,40.
4. Considerando immotivata tale prescrizione, la società ha impugnato il provvedimento comunale, insieme con il parere della commissione edilizia integrata e il nulla osta ambientale, proponendo un ricorso che il T.A.R. per la Campania, sez. IV, ha accolto con sentenza 30 giugno 2003, n. 7905.
Il Tribunale territoriale ha ritenuto che:
– la concessione impugnata sarebbe una nuova concessione edilizia – resasi necessaria per il rispetto delle disposizioni vincolistiche sopravvenute – e non la proroga dell’originaria concessione del 1992;
– il nuovo titolo non darebbe conto delle ragioni poste a base delle limitazioni ricordate, che non risulterebbero neppure dalla normativa di riferimento, richiamata dagli atti oggetto del ricorso.
5. Non impugnata nei termini di legge, tale sentenza è passata in giudicato.
6. In seguito la Fr., sul presupposto che l’atto impugnato e poi annullato in sede giurisdizionale avrebbe reso necessario l’abbattimento di strutture già realizzate e reso impossibile la realizzazione del progetto secondo la sua configurazione originaria, ha chiesto il risarcimento del danno subito, quantificandolo nell’importo di euro 4.026.850,00, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria.
7. Con sentenza 25 marzo 2011, n. 1733, il T.A.R. per la Campania, sez. VIII:
– ha respinto le preliminari eccezioni del Comune di difetto di giurisdizione e di inammissibilità del ricorso;
– ha respinto il ricorso nel merito in quanto: I) il vizio di legittimità, riconosciuto dalla precedente decisione n. 7905/2003, sarebbe meramente formale; II) tale decisione non avrebbe perciò riconosciuto la spettanza del bene della vita rivendicato dalla società ricorrente, necessario presupposto per l’insorgere della responsabilità civile quando venga dedotta la lesione di interessi legittimi pretensivi; III) la ricorrente si sarebbe spontaneamente adeguata alle prescrizioni limitative senza attendere l’esito del giudizio di annullamento e senza sollecitare la sospensione cautelare del provvedimento impugnato nonché, dopo il passaggio in giudicato della sentenza favorevole, senza insistere per la riedizione del provvedimento; IV) anche in applicazione dell’art. 1227, secondo comma, c.c., mancherebbe il nesso causale fra comportamento dell’Amministrazione e danno sofferto, non avendo la società, per le ragioni appena riassunte, fatto uso dell’ordinaria diligenza per evitare il pregiudizio lamentato;
– ha compensato fra le parti le spese di giudizio.
8. La società ha interposto appello avverso la sentenza con tre motivi di ricorso:
– la primitiva sentenza del T.A.R. n. 7905/2003 non si sarebbe limitata ad annullare gli atti gravati per difetto di motivazione, ma avrebbe affermato che le limitazioni all’altezza dei fabbricati non troverebbero alcun riscontro nella normativa di tutela ambientale dell’area interessata; ne seguirebbe che, in caso di riesercizio del potere, all’Amministrazione non sarebbe rimasto alcun margine di esercizio di poteri discrezionali attinenti al merito della decisione presa;
– la società avrebbe operato diligentemente, proponendo ricorso con domanda cautelare e, in camera di consiglio, accedendo all’abbinamento di questa al merito, il cui esame si sarebbe protratto (con quattro udienze e due decisioni interlocutorie) sino al giugno 2003, oltre cioè la scadenza del termine finale di efficacia della concessione rilasciata nel 1999; la scelta di completare i lavori, pure nei limiti imposti dal nuovo titolo, non sarebbe stata dunque libera ma obbligata, dettata dall’esigenza di evitare il blocco del cantiere, il deprezzamento delle strutture già realizzate, la mancata commercializzazione delle unità immobiliari edificate;
– l’illegittimità dell’atto annullato fonderebbe una presunzione di colpa in capo all’Amministrazione, palese, nella circostanza, per essere stati gli atti medesimi adottati da organi dotati di elevata e specifica professionalità, mentre nella stessa zona il Comune avrebbe contraddittoriamente consentito la costruzione di fabbricati dell’altezza massima consentita dal P.R.G. (13 metri).
In conclusione, la società insiste sulla pretesa risarcitoria, determinata sulla base della consulenza di parte depositata in primo grado.
9. Il Comune di Caserta si è costituito in giudizio per resistere all’appello, aderendo alle prospettazioni del primo giudice e sostenendo che la controparte si sarebbe completamente sottratta all’onere probatorio.
10. Con atto depositato il 19 aprile 2017 si è costituita in giudizio la società Im. St. s.r.l., dichiarando di avere incorporato la società appellante e facendo propri i motivi dell’appello già pendente.
11. All’udienza pubblica dell’8 giugno 2017, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.
12. Alla stregua di un consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo per vizi formali (difetto di motivazione, vizi del procedimento) non reca di per sé alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento caducato ope iudicis e non può pertanto costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno (cfr. sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5115; sez. III, 23 gennaio 2015, n. 302; sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675; sez. V, 23 agosto 2016, n. 3674).
13. La società appellante dissente però dalla lettura che il primo giudice ha dato della precedente decisione del T.A.R. per la Campania n. 7905/2003, contestando che questa abbia ritenuto i provvedimenti impugnati in quella sede affetti da un vizio solo formale.
14. La sentenza ora appellata ha rilevato che “l’affermata autonomia della concessione edilizia impugnata rispetto all’originario provvedimento concessorio imponeva comunque all’amministrazione, in esecuzione della pronuncia giurisdizionale di annullamento, di dar conto nella motivazione della assentibilità o non assentibilità della istanza alla luce delle sopravveniente normativa, specie per ciò che concerne la tutela dei beni ambientali, storici ed architettonici, la cui ponderazione e comparazione con gli interessi coinvolti attiene più strettamente al merito dell’azione amministrativa e non è quindi enucleabile sulla base delle sole risultanze normative”.
15. A tale riguardo il Collegio osserva che:
– correttamente la sentenza ora impugnata ha concluso nel senso che la precedente decisione sanzionasse un vizio di mera forma, tale da consentire la riedizione dei poteri amministrativi;
– la Fr. dunque erra nel sostenere che la prima sentenza non abbia rilevato un vizio puramente formale e che pertanto le abbia riconosciuto la spettanza del bene della vita preteso (l’edificazione nel solo rispetto del limite derivante dal P.R.G.);
– peraltro la sentenza stessa, letta alla luce del necessario rapporto fra chiesto (annullamento degli atti comunali nella parte in cui hanno imposto la riduzione delle altezze assentite con la precedente concessione edilizia n. 321/1992) e pronunciato, va interpretata nel senso di aver disposto l’annullamento dei provvedimenti gravati non in radice (ciò che sarebbe in contrasto con l’interesse della ricorrente vittoriosa) ma solo nella parte in cui hanno imposto la prescrizione contestata e ritenuta non assistita da motivazione; in questi termini va dunque inteso il dispositivo della decisione anche perché – ritenendo diversamente e assumendo il totale annullamento degli atti gravati – la successiva attività edificatoria si sarebbe svolta senza titolo. Il che nessuno afferma, fermo restando che l’Amministrazione avrebbe potuto impugnare la sentenza sfavorevole o, una volta questa divenuta definitiva, provvedere nuovamente, seppure nel rispetto dei limiti, peraltro assai generici, posti dal giudicato.
16. Le considerazioni che precedono (mancato riconoscimento del bene della vita rivendicato da parte della sentenza n. 7905/2003) sono di per sé sufficienti a escludere la fondatezza della domanda risarcitoria (per la distinzione tra attività amministrativa discrezionale e sostanzialmente vincolata in sede di rinnovazione procedimentale e per le conseguenze che se ne devono trarre in tema di ricostruzione del rapporto di causalità fra comportamento della P.A. e danno risarcibile cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611).
17. Alle stesse conclusioni, peraltro, si giunge anche sulla base dell’analisi della struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A.
18. Senza riprendere dal fondo l’esame di temi ampiamente discussi e approfonditi, il Collegio ritiene che questa non diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c. (cfr. per tutti Cons. Stato, sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8291, relativa proprio ad una fattispecie in cui è stato negato il risarcimento del danno in materia di edilizia e urbanistica; sez. IV 13 aprile 2016, n. 1436). Ne sono dunque fattori costitutivi: l’elemento soggettivo (dolo o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del danno medesimo.
19. Va ricordato, per completezza, che trova anche sostenitori la tesi secondo la quale la responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo abbia natura speciale e non riconducibile alla summa divisio (contrattuale ed extracontrattuale) dei modelli normativi di responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047; sez. VI, 27 giugno 2013, n. 3521; sez. VI, n. 5611/2015, cit.).
20. La differenza tra le impostazioni ricordate non ha tuttavia concrete conseguenze sulla decisione della presente causa poiché, conformemente ad alcuni consolidati approdi della giurisprudenza amministrativa, già in parte esposti nei paragrafi che precedono:
– l’interesse materiale o il bene della vita finale, in relazione al quale si propone domanda risarcitoria, può trovare tutela solo a condizione di non essere contra ius vel non iure ovvero d’indole abusiva e opportunistica (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9, § 8.3.4.; ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5, § 9.2);
– in materia di risarcimento del danno da attività provvedimentale della P.A. è indispensabile la prova rigorosa della spettanza del bene della vita preteso, in stretta correlazione con il giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 1° aprile 2011, n. 2031; sez. V, 29 dicembre 2014, n. 6407; sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 131; sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675);
– i doveri di solidarietà sociale che traggono fondamento dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la condotta tenuta dalle parti private nei confronti della P.A. in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio della funzione pubblica o da condotte a essa ricollegabili in via immediata e diretta; questo vaglio ridonda anche in relazione all’individuazione, in concreto, dei presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli evitabili con l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8291).
Questi principi hanno ora anche una puntuale emersione normativa nell’art. 30, comma 3, c.p.a. il quale – recependo nella sostanza la regola posta dal combinato disposto degli artt. 1227, secondo comma, e 2056 c.c. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 luglio 2014; sez. V, 1° dicembre 2014; sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6253) – “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
21. Nel caso di specie la società Fr.:
– ha proposto la domanda cautelare assieme al ricorso introduttivo del giudizio, ma non ha insistito su di essa accedendo al rinvio al merito (camera di consiglio del 5 aprile 2000);
– come risulta dalla scheda del ricorso tratta dal sito web della Giustizia amministrativa, non ha coltivato il giudizio di merito con la necessaria determinazione: prima dell’udienza conclusiva del 21 maggio 2003 risultano infatti una cancellazione della causa dal ruolo (28 febbraio 2001) e un rinvio della discussione ad altra data (3 luglio 2002);
– formula una tesi debole là dove sostiene di essersi trovata nella necessità di completare le opere senza potere attendere l’esito del giudizio di merito per evitare la nuova scadenza del termine triennale per l’ultimazione dei lavori, posto che proprio la pendenza del giudizio avrebbe potuto legittimare la richiesta di una ulteriore proroga dell’efficacia del titolo a norma dell’art. 15, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
22. Anche sotto profilo ora vagliato, è corretta e merita conferma la decisione del T.A.R., il quale ha ritenuto che il comportamento della società non sia stato conforme all’ordinaria diligenza e abbia in tal modo spezzato il nesso eziologico fra condotta dell’Amministrazione e danno patito.
23. L’appello è dunque infondato e va perciò respinto, con le precisazioni sopra esposte quanto alla motivazione.
24. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, cfr. Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663).
25. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
26. Le spese di giudizio seguono la regola della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida nell’importo di euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge (15% a titolo di rimborso delle spese generali, I.V.A. e C.P.A.).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2017 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere
Giuseppe Castiglia – Consigliere, Estensore
Luca Lamberti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
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