Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 7 settembre 2017, n. 40855. La minaccia costitutiva del delitto di estorsione può essere manifestata anche in maniera implicita e indiretta

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La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’imputato al pagamento delle ulteriori spese processuali, anche in favore delle pp.cc. Comune di Lamezia Terme, (OMISSIS) di Lamezia Terme e F.A.I. oltre che della p.c. (OMISSIS) e della p.c. (OMISSIS).
20.1. Contro la predetta decisione, ricorre l’imputato, con l’ausilio di un difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione, deducendo:
– articolo 606 c.p.p., lettera B/C/E, per vizi di motivazione, essendosi la Corte d’appello asseritamente limitata ad un esame formale sommario o superficiale del dato probatorio, con insufficiente disamina logico-giuridica, contraddittorieta’ palese delle varie proposizioni ed nesistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione in ordine alle affermazioni di responsabilita’ ed al calcolo della recidiva (i materiali probatori valorizzati, ed in particolare le acquisite dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non legittimerebbero l’attribuzione del ruolo di associato all’imputato; le dichiarazioni della p.o. del reato di usura non consentirebbero una precisa valutazione delle somme prestate e conseguentemente degli interessi praticati; non sarebbero adeguatamente spiegate le ragioni che hanno indotto all’aumento di pena per la recidiva).
20.2. Il ricorso e’ integralmente inammissibile.
20.2.1. Le doglianze riguardanti la conclusiva affermazione di responsabilita’, reiterano, piu’ o meno pedissequamente, a fronte di una doppia conforme affermazione di responsabilita’ (cfr. § 1.6.2. di queste Considerazioni in diritto), censure gia’ dedotte in r appello e gia’ non accolte, risultando, pertanto, prive della specificita’ necessaria ai sensi dell’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), (Sez. 4, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. 6, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), e, comunque, meramente assertive nonche’ manifestamente infcndate, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonche’ esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha motivato la contestata affermazione di responsabilita’ (in particolare, ff. 77 ss. della sentenza impugnata), valorizzando incensurabilmente plurime e convergenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia motivatamente ritenute attendibili, nonche’ di una persona offesa, oltre che puntualmente esaminando, e dettagliatamente con’utando tutte le censure specifiche dell’appellante.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio gia’ sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, e’ giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilita’ dell’imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze gia’ incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture difensive improduttive di effetti.
20.2.2. Le doglianze inerenti alla recidiva non sono consentite, perche’ (come peraltro evidenziato anche dalla Corte di appello a f. 83 della sentenza impugnata) non avevano costituito oggetto di appello, e non sono deducibili per la prima volta in sede di legittimita’.
20.2.3. Non puo’ porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della totale inammissibilita’ del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, piu’ volte chiarito che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione “non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilita’ di rilevare e dichiarare le cause di non punibilita’ a norma dell’articolo 129 c.p.p.” (Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, CED Cass. n. 217266: nella specie, l’inammissibilita’ del ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, e la prescrizione del reato era maturata successivamente alla data della sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2 marzo 2005, CED Cass. n. 231164, e Sez. un., sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008, CED Cass. n. 239400).
21) (OMISSIS).

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