Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 settembre 2017, n. 41586. Omicidio aggravato dalla premeditazione e la valutazione dell’aggravante

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2.4. Con il quarto motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento all’articolo 61 c.p., comma 1, n. 11, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse adeguatamente conto degli elementi giudizio idonei a consentire il riconoscimento dell’aggravante contestata, sulla base del rapporto di coabitazione che intercorreva tra l’imputato e la vittima, rispetto al quale, secondo la difesa del ricorrente, non era ravvisabile quell’abuso delle relazioni presupposte, indispensabile alla configurazione della circostanza in questione.
Osserva, in proposito, il Collegio che tale doglianza appare destituita di fondamento processuale, essendo incontroverso l’abuso di relazioni domestiche, attraverso il quale si concretizzava l’omicidio in esame, posto in essere dal (OMISSIS) in costanza del rapporto di convivenza che lo legava alla vittima, sfruttando il quale il ricorrente uccideva la convivente. Costituisce, del resto, un dato ermeneutico incontroverso quello secondo cui l’aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 11, ha natura di circostanza oggettiva ed e’ finalizzata a punire piu’ gravemente i delitti commessi nell’ambito di un rapporto di coabitazione o nel contesto di relazioni domestiche (Sez. 1, n. 6587 del 12/11/2009, dep. 2010, Saleem, Rv. 246310; Sez. 1, n. 5378 del 15/02/1990, Iarossi, Rv. 184023).
Ricostruito in questi termini in contesto ermeneutico nel quale si inserisce la vicenda delittuoso in esame, appaiono pienamente condivisibili le conclusioni alle quali giungeva la Corte territoriale che, nel passaggio motivazionale esplicitato a pagina 19 della sentenza impugnata, evidenziava che “l’abuso nella vicenda de quo(a), e’ insito nel fatto che il rapporto di coabitazione, nonche’ la relazione domestica radicata da tempo, ha certamente agevolato la perpetrazione del delitto (…)”, avendo l’imputato “preferito commettere il fatto tra le mura domestiche, sfruttando l’elemento sorpresa, nella consapevolezza che nessuno lo avrebbe potuto scorgere (…)”.
Non e’, pertanto, dubitabile che il rapporto di coabitazione esistente tra il (OMISSIS) e la convivente, anche tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo nelle quali l’omicidio in esame si concretizzava, risultava determinante per consentire l’esecuzione del progetto criminoso dell’imputato, legittimando il riconoscimento dell’aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 11, conformemente alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui integra la circostanza in esame non soltanto la coabitazione tra l’agente e la vittima – pacificamente riscontrabile nel caso in esame – ma addirittura l’abituale frequentazione dell’abitazione nella quale il delitto si verifica (Sez. 3, n. 27044 del 12/05/2010, B., Rv. 248066; Sez. 3, n. 6433 del 14/12/2007, Polizzi, Rv. 239062).
2.4.1. Tali considerazioni impongono di ritenere infondato il quarto motivo di ricorso, proposto in relazione all’ipotesi di reato di cui al capo A.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento all’articolo 62-bis c.p., conseguenti al giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e le contestate aggravanti, che appariva in contrasto con le emergenze probatorie, irragionevolmente disattese dalla decisione censurata, anche alla luce delle considerazioni espresse nel primo motivo di ricorso, cui si rinvia, in ordine alla capacita’ di intendere e di volere dell’imputato.
2.5.1. Tale doglianza deve ritenersi assorbita nel terzo motivo di ricorso, presupponendo il giudizio di comparazione circostanziale una corretta rivalutazione del disvalore delle condotte delittuose contestate a (OMISSIS) ai capi A e B, rispetto alle quali assume un valore dosimetrico decisivo il vaglio delle condizioni psicologiche nelle quali maturava la decisione del ricorrente di uccidere (OMISSIS) e della determinazione criminosa che vi era sottesa, che dovra’ essere effettuato dal Giudice del rinvio nel rispetto dei principi che si sono richiamati nel paragrafo 2.3, cui si deve rinviare.
Tali conclusioni discendono ulteriormente dal fatto che le circostanze attenuanti generiche di cui all’articolo 62-bis c.p. rispondono alla funzione di adeguare la pena irrogata al caso concreto nella globalita’ degli elementi oggettivi e soggettivi che la connotano, sul presupposto del riconoscimento di situazioni fattuali, incidenti sia sulla concessione delle attenuanti sia sul bilanciamento delle circostanze, una volta riconosciute applicabili. La necessita’ di un giudizio che coinvolga tale posizione nel suoi complesso e’ sintetizzata dal principio di diritto affermato da questa Corte, cui ci si conforma senza riserve, secondo il quale: “Le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioe’ tra le circostanze da valutare ai sensi dell’articolo 133 c.p., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una piu’ incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena” (Sez. 6, n. 2642 del 14/01/1999, Catone, Rv. 212804; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 2, n. 30228 del 05/06/2014, Vernucci, Rv. 260054).
2.5.2. Tali considerazioni impongono di ribadire l’assorbimento della doglianza in esame nel terzo motivo di ricorso, proposto in relazione all’ipotesi di reato di cui al capo A.
2.6. Con il sesto motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento agli articoli 23 e 575 c.p., conseguenti al fatto che la pena base per il reato di cui al capo A, dalla quale la Corte territoriale era partita, quantificandola in ventisette anni di reclusione, era superiore al limite edittale previsto dall’articolo 23 c.p., stabilito in anni ventitre’ di reclusione, in una misura inferiore a quella considerata dal Giudice di appello ai fini della quantificazione del trattamento sanzionatorio applicato a (OMISSIS).
Tale doglianza appare fondata, non potendosi dubitare del fatto che il limite edittale massimo previsto per l’omicidio non aggravato, per effetto della previsione del comma 1 della stessa disposizione, e’ individuabile nella misura di ventiquattro anni di reclusione; mentre, nel caso di specie, la Corte di assise di appello di Firenze, in violazione della norma dell’articolo 23 c.p., individuava la pena base su cui applicare la riduzione nei confronti di (OMISSIS) in quella di ventisette anni di reclusione, in relazione alla quale ci si deve limitare a richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte (Sez. U, n. 26350 del 24/04/2002, Fiorenti, Rv. 221656).

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