Rivendicazione, negatoria, regolamento di confini ed apposizione termini

Rivendicazione, negatoria, regolamento di confini ed apposizione termini

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1) Azione di rivendicazione


Il diritto di proprietà, come gli altri diritti, ha una specifica protezione giurisdizionale e attraverso le azioni dette petitorie.

Dette anche actiones in rem, la cui realità è determinata dal fatto che sono esercitabili nei confronti di chiunque.

Si tratta di rimedi che hanno in comune (oltre lo scopo) come noto, la tutela della proprietà.

La peculiarità risiede nella titolarità stessa del bene


art. 948 c.c.
   azione di rivendicazione: il proprietario  può rivendicare la cosa (1153, 1994, 2653, 2697) da chiunque la possiede o detiene (1140) e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.

Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.

L’azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione (1158 e seguenti).

L’attuale azione di rivendicazione, come la maggior parte delle azioni a tutela dei diritti reali, affonda le radici nel diritto romano, precisamente nella rei vindicatio, da cui trae motivi e termini, ed è la più ampia espressione della signoria del dominus sulla res.

La situazione di fatto presuppone che il proprietario non sia in possesso del bene, né pretenda il recupero coattivo.

L’azione si articola nell’accertamento della titolarità del diritto di proprietà in capo all’attore e conseguentemente nella condanna al rilascio del bene.

La finalità risiede nel ricongiungere la proprietà al possesso.

Detta azione consente al proprietario di ottenere la restituzione, previa dimostrazione del titolo di proprietà sul bene posseduto da altri.

Non sono infrequenti nella prassi casi di usurpazione e/o appropriazione di beni immobili in zone rurali, soprattutto porzioni di terreno, tra due soggetti.

Ciò accade soprattutto in ipotesi di compravendita di terreni allorquando sono incerti i confini fra due fondi, spesso in ipotesi in cui il fondo compravenduto faceva originariamente parte di un unico fondo poi frazionato a seguito di atto di divisione fra i comproprietari.

Accade poi anche che il proprietario di un terreno ometta di gestirlo e lo stesso venga posseduto per oltre un ventennio dal proprietario di un fondo confinante (fattispecie dell’usucapione).

È realmente difficile ipotizzare un’azione di rivendicazione a tutela di un immobile urbano.

In tema di rivendicazione, la prima e fondamentale indagine che il giudice del merito deve compiere concerne

1)   l’esistenza,

2)   la validità e

3)   la rilevanza

del titolo dedotto dall’attore a fondamento della pretesa, e ciò prescindendo da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo essa uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall’attore (c.d. probatio diabolica) e l’eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche di ufficio.

Per quanto, in particolare, attiene alla rilevanza del titolo, essenziale è l’indagine sull’identità del bene domandato dall’attore con quello descritto nel titolo stesso, ed essa deve essere istituita dal giudice anche d’ufficio, senza che il convenuto sia tenuto a formulare specifiche eccezioni e ad onerarsi della dimostrazione di un proprio titolo di acquisto prevalente. Il giudizio sulla corrispondenza tra il bene demandato e quello descritto nel titolo, se adeguatamente motivato e condotto secondo i normali criteri ermeneutici, è incensurabile in sede di legittimità[1].

Orbene la determinatezza del bene rivendicato configura condizione della domanda di rivendicazione, difatti il giudice, anche di ufficio ed in grado di appello, deve rigettare la domanda medesima, ove non siano state fornite indicazioni idonee all’individuazione del bene controverso[2].

In ogni caso la qualità di proprietario deve realmente esistere ed essere provata al momento della decisione della lite.

Poichè la domanda di rivendica, avendo tipica finalità recuperatoria, presuppone necessariamente che all’atto della sua formulazione il bene rivendicato sia nel possesso del convenuto[3].

Nulla impedisce che il proprietario, mediante il ricorso ad un’azione di accertamento, reagisca ad eventuali pretese di altri, ottenendo, così, una pronuncia dichiarativa che elimini ogni incertezza sulla titolarità del diritto l’azione.

  • La natura giuridica

In merito, poi alla natura giuridica secondo la S.C.[4] poiché l’azione di rivendica, tendendo a far conseguire il bene indebitamente posseduto da altri, è tipicamente un’azione di condanna, in cui l’accertamento della proprietà ha funzione di fondamento della condanna al rilascio della cosa, la sentenza che, in accoglimento di un’azione siffatta, condanni il convenuto al rilascio del bene, ove passata in giudicato, preclude che in un successivo giudizio fra le stesse parti detto convenuto possa far valere un diritto reale di godimento su quel bene, rimettendo in discussione la natura indebita del proprio possesso, atteso che questa è necessariamente presupposta da detto giudicato.

Il rapporto con l’azione di restituzione

L’azione di accertamento della proprietà è comunque distinta dall’azione di rivendicazione, la cui funzione è, principalmente, di condanna alla restituzione del bene: ha, cioè, una funzione recuperativa.

L’azione di rivendicazione, appunto, ha il carattere della realità in quanto si rivolge a qualunque terzo che abbia acquistato il possesso del bene al di fuori del precedente rapporto del proprietario dello stesso.

Parte della giurisprudenza ha sostenuto che l’esercizio dell’azione di rivendicazione presuppone che lo spossessamento sia avvenuto senza la volontà del proprietario.

A norma dell’art. 948 c.c. l’azione di rivendicazione, è diretta a far conseguire il bene indebitamente posseduto da altri, di conseguenza il relativo accertamento della proprietà ha funzione di fondamento della condanna al rilascio della res.

Difatti, l’eventuale sentenza di accoglimento di una simile azione, ove passata in giudicato, comporta la condanna del convenuto al rilascio del bene e preclude che in un successivo giudizio fra le stesse parti, detto convenuto possa far valere un diritto reale di godimento su quel bene, rimettendo in discussione la natura indebita del proprio possesso, atteso che questa è necessariamente presupposta da detto giudicato[5].

Tale azione, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà dell’attore e al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, esige necessariamente la prova della proprietà della cosa da parte dell’attore e del possesso di essa da parte del convenuto[6] (ma tale argomento sarà affrontato in maniera approfondita successivamente).

Per altra giurisprudenza[7], invece, l’esercizio dell’azione di rivendicazione non è necessario lo spossessamento del bene senza o contro la volontà, sicché anche quando abbia trasferito il possesso in base ad un’obbligazione assunta contrattualmente non gli è preclusa la possibilità, ove eventi giuridici successivi abbiano determinato il venir meno del diritto dell’accipiens, di proporre anche l’azione reale di rivendica per riottenere il possesso del bene quale proprietario, anziché di agire con l’azione personale di restituzione ex art. 949 c.c.; ovvero, a fronte delle eccezioni del convenuto che opponga un proprio titolo di acquisto della proprietà, di modificare in corso di giudizio la domanda di restituzione originariamente proposta in domanda di rivendicazioni.

L’azione di restituzione, è di natura personale e ha il suo fondamento nel venir meno del titolo in base al quale la cosa sia stata trasferita.

Con essa l’attore non mira ad ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà, del quale non deve fornire alcuna prova, ma tende ad ottenere la riconsegna della cosa stessa, onde si può limitare alla dimostrazione dell’avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di quest’ultimo per qualsiasi causa[8].

Secondo anche una recente sentenza di merito[9] la tradizionale distinzione fra l’azione di rivendicazione e quella di restituzione si atteggia nei seguenti modi.

1)   La prima di esse ha carattere reale ed è fondata sul diritto di proprietà di un bene, di cui l’attore assume di essere titolare, ma di non averne la materiale disponibilità; è esperibile contro chiunque, di fatto, possiede o detiene il bene), ed è volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà di esso e a riaverne il possesso.

2)   La seconda è fondata sull’inesistenza, ovvero sul sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede o dal suo dante causa – e per questo ha natura personale – ed è volta, previo accertamento di tale mancanza, ad attuare il diritto personale alla consegna del bene.

In quest’ultimo caso l’attore non ha l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà, bensì può limitarsi ad allegare l’insussistenza ab origine, oppure il successivo venir meno – per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio della facoltà di recesso – del titolo giuridico legittimante la detenzione del bene da parte del convenuto, che perciò è obbligato a restituirlo. Le due azioni – pur tendendo entrambe al risultato pratico del recupero della disponibilità materiale del bene – hanno natura e presupposti diversi e sono distinte, sia per causa petendi che per petitum.

Pertanto, prescindendo dalla qualificazione dell’azione effettuata dalla parte, la domanda di restituzione di un bene, fondata sull’arbitraria disponibilità materiale da parte del convenuto, non accompagnata dalla contestuale richiesta di accertamento del diritto reale di proprietà su di esso, esula dall’ambito delle azioni reali perché non può esser qualificabile come rivendica, bensì come azione personale di rilascio o di restituzione, e se il convenuto contrappone il suo diritto alla detenzione in base ad un titolo giuridico, la validità e persistenza di questo diviene l’oggetto della controversia (così, fra le più recenti, Cass. sez. II, 27.1.2009, n. 1929).

La circostanza che il convenuto pretenda di essere proprietario del bene in contestazione non è idonea a trasformare in azione reale l’azione personale proposta nei suoi confronti posto che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, per altro, la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, una prova ben più onerosa – la “probatio diabolica” della rivendica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta.

Sicché l’eccezione o la domanda riconvenzionale del convenuto, attraverso le quali opponga un proprio autonomo diritto di proprietà a quello posto dall’attore a fondamento della domanda, hanno la natura e l’efficacia loro proprie e, ove accolte, comportano la reiezione della domanda dell’attore, ma non perché questi non abbia provato il diritto vantato, bensì in quanto il diritto di proprietà sul bene in controversia è risultato accertato in capo al convenuto per intervenuta prescrizione acquisitiva del diritto dell’attore.

Invece, ove dette eccezione o domanda riconvenzionale siano respinte, in nessun modo possono influire sulla natura della domanda principale quale proposta dall’attore e sull’onere probatorio che essa comporta[10].

Secondo la S.C.[11]

–      l’azione di rivendica ha carattere reale ed è fondata sul diritto di proprietà di un bene, di cui l’attore assume di esser titolare, ma di non averne la materiale disponibilità; è esperibile contro chiunque, di fatto, possiede o detiene il bene ed è volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà di esso e a riaverne il possesso.

–      L’azione di restituzione è fondata sull’inesistenza, ovvero sul sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede o dal suo dante causa – e per questo ha natura personale – ed è volta, previo accertamento di tale mancanza, ad attuare il diritto – personale – alla consegna del bene.

Pertanto in quest’ultimo caso l’attore non ha l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà, bensì può limitarsi ad allegare l’insussistenza “ab origine“, oppure il successivo venir meno – per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio della facoltà di recesso – del titolo giuridico legittimante la detenzione del bene da parte del convenuto, che perciò è obbligato a restituirlo.”

Inoltre, secondo la Cassazione[12], nell’esercizio del potere di interpretazione della domanda giudiziale il giudice ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, ma non può sostituire all’azione personale di restituzione del bene immobile promossa dalla parte un’azione reale di rivendica che l’attore non aveva inteso promuovere ed in vista della quale non aveva approntato adeguate difese.

Sul punto è tornata nuovamente la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 12 novembre 2015, n. 23121

riaffermando che “l’azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall’attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l’azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell’assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica. La tesi opposta comporta la sostanziale vanificazione della stessa previsione legislativa dell’azione di rivendicazione, il cui campo di applicazione resterebbe praticamente azzerato, se si potesse esercitare un’azione personale di restituzione nei confronti del detentore sine titolo” (così, in motivazione, la sentenza n. 7305/14).
La rivendica, a sua volta, per costante giurisprudenza di questa Corte è esperibile contro chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado, quindi, di restituirlo (cfr. Cass. nn. 13973/06,9851/97,1613/87 e 3312/80).

Posto ciò, la lesione del diritto di proprietà può provocare un danno risarcibile ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c.

L’azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo entrambe al medesimo risultato, ossia il recupero della cosa oggetto del diritto controverso, hanno carattere e presupposti diversi.

Dunque, ci si chiede quale sia la relazione che si instaura tra le due azioni e soprattutto quali le differenze che intercorrono fra la tutela reale della proprietà (azione di rivendicazione) e la tutela aquiliana, ossia l’azione con la quale il proprietario chiede il risarcimento dei danni per il pregiudizio subito in relazione al suo diritto di proprietà.

Una prima differenza sostanziale si ravvisa nel fatto che, mentre l’azione di rivendicazione e quella negatoria sono tese a contrastare comportamenti volti a mettere in discussione la titolarità del diritto di proprietà, la tutela aquiliana è invocabile, salve alcune ipotesi particolari, solo in presenza di atti che pregiudichino i diritti del proprietario senza, però contestare la titolarità dello stesso.

Inoltre, l’azione reale ha ad oggetto principalmente l’accertamento della proprietà, atteso che l’art. 948 c.c., introdurrebbe un’azione che è, al contempo petitoria – in quanto volta a chiedere l’accertamento della proprietà – e di condanna alla restituzione del bene dal quale il soggetto è stato spossessato.

In questo l’azione reale si differenzia da quella personale ex art. 2043 c.c. laddove l’oggetto del giudizio è la prova del danno ingiusto provocata da un soggetto al proprietario, la cui titolarità del diritto non è messa in discussione.

Colui che agisce in giudizio con l’azione di rivendicazione deve vincere la naturale presunzione di proprietà da parte del possessore del bene, pertanto dovrà dimostrare non solo l’illegittimità del possesso altrui, ma anche la titolarità del proprio diritto di proprietà.

Mentre l’azione di rivendicazione, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà dell’attore ed al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, esige la prova della proprietà della cosa da parte dell’attore e del possesso di essa da parte del convenuto, invece la prova della proprietà dell’attore non è richiesta nella diversa azione di restituzione della cosa da parte del convenuto per il venir meno del titolo in base al quale la deteneva[13].

Sempre secondo la Corte Suprema[14], per l’esercizio dell’azione di rivendicazione non è necessario che l’attore sia stato spossessato del bene senza o contro la volontà, sicché anche quando abbia trasferito il possesso in base ad un’obbligazione assunta contrattualmente non gli è preclusa la possibilità, ove eventi giuridici successivi abbiano determinato il venir meno del diritto dell’accipiens, di proporre l’azione reale di rivendica per riottenere il possesso del bene quale proprietario, anziché di agire con l’azione personale di restituzione; ovvero, a fronte delle eccezioni del convenuto che opponga un proprio titolo di acquisto della proprietà (nella specie: usucapione), di modificare in corso di giudizio la domanda di restituzione originariamente proposta in domanda di rivendicazioni.

Da ultimo, in merito, sono intervenute le sezioni unite

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza del 28 marzo 2014, n. 7305

le quali hanno stabilito che

non è azione di restituzione, ma di rivendicazione, quella con cui l’attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l’occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico giustificativo della consegna della cosa. Tale azione non può pertanto surrogare l’azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna venga richiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell’assenza anche originaria di ogni titolo

Si legge nella sentenza in commento che unanimemente si riconosce che le azioni di rivendicazione e di restituzione sono accomunate dallo scopo pratico cui entrambe tendono – ottenere la disponibilità materiale di un bene, della quale si è privi – ma si distinguono nettamente per la natura, poiché all’analogia del petitum non corrisponde quella delle rispettive causae petendi: la proprietà per l’una, un rapporto obbligatorio per l’altra.

La prima è connotata quindi da realità e assolutezza, la seconda da personalità e relatività.
Nella rivendicazione la ragione giuridica e l’oggetto del giudizio coincidono, identificandosi nel diritto di proprietà, di cui l’attore deve dare la cd. probatio diabolica, dimostrando un acquisto del bene avvenuto a titolo originario da parte sua o di uno dei propri danti causa a titolo derivativo (acquisto che per lo più deriva dall’usucapione, maturata eventualmente mediante i meccanismi dell’accessione o dell’unione dei possessi). Nel caso dell’azione di restituzione si verte invece su una prestazione di dare, derivante da un rapporto di carattere obbligatorio.
Ciò stante, sono due le questioni su cui si sono delineati contrasti nella giurisprudenza della Corte: se le difese di carattere petitorio opposte a un’azione di rilascio o consegna comportino la trasformazione in reale della domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall’attore come personale; se sia inquadrabile nell’una o nell’altra specie l’azione esercitata nei confronti di chi non accampa alcun titolo a giustificazione della disponibilità materiale del bene oggetto della controversia.
Tra questi due orientamenti, ha ritenuto il collegio che debba essere seguito il secondo, stante la sua coerenza con i basilari principi di disponibilità e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che riservano alle parti la formulazione delle loro richieste, la deduzione delle relative ragioni, l’allegazione dei fatti su cui esse si fondano, mentre vietano al giudice di pronunciare al di fuori o oltre i limiti delle domande come effettivamente proposte. Il destinatario di un’azione personale di restituzione, pertanto, può bensì contrastarla con eccezioni o domande riconvenzionali di carattere petitorio, senza tuttavia che ciò dia luogo a una mutatio o emendati libelli, che non sono consentite neppure all’attore, se non nei ristretti limiti stabiliti dall’art 183 c.p.c. La domanda di restituzione, in ipotesi, sarà allora respinta non’ perché la probatio diabolica non sia stata data dall’attore, ma ove sia stata fornita dal convenuto, il quale con le sue deduzioni se ne era accollato l’onere, proponendo, egli sì, in via riconvenzionale, un’eccezione o azione di carattere reale. Dal piano dei diritti relativi di natura obbligatoria, sul quale l’interessato ha inteso porre la sua pretesa, questa non può dunque essere dislocata, per iniziativa altrui, nel campo dei diritti assoluti di natura reale, con la conseguenza di addossare all’attore, tra l’altro, un compito probatorio particolarmente pesante, per assolvere il quale egli non era tenuto ad approntarsi. L’argomento che (unicamente) viene posto a fondamento della tesi della trasformazione della domanda – dovere il giudice «decidere sulla sussistenza del diritto di proprietà vantato da una parte e negato dall’altra» – non è dunque congruente con la conseguenza che si pretende di trarne.
Resta comunque salvo il potere del giudice di dare della domanda l’esatta qualificazione giuridica, eventualmente in difformità da quella prospettata dalla parte, ma sempre alla stregua dei fatti allegati, delle ragioni esposte, delle richieste formulate.
Con ultimo adagio la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, 31 agosto 2015, n.17321

ha nuovamente specificato che l’azione di rivendica e l’azione di restituzione, pur tendendo entrambe al medesimo risultato pratico del recupero della disponibilità materiale del bene, hanno natura e presupposti distinti. L’azione di rivendica ha carattere reale ed è fondata sul diritto di proprietà di un bene di cui l’attore assume di essere titolare, ma di non averne la materiale disponibilità, ed è volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà e a riaverne il possesso; l’azione di restituzione è invece fondata sull’inesistenza, ovvero sul sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede o dal suo dante causa e per questo ha natura personale ed è volta, previo accertamento della mancanza del titolo, ad attuare il diritto personale alla consegna del bene. Per quanto riguarda poi il regime probatorio, l’azione di rivendicazione, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà dell’attore ed al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, esige la prova della proprietà della cosa da parte dell’attore e del possesso di essa da parte del convenuto
  • La c.d. probatio diabolica

A tal fine non sarà sufficiente provare in giudizio il proprio atto di compravendita, potendo lo stesso dante causa non essere proprietario, bensì si dovrà provare un acquisto a titolo originario (probatio diabolica), che normalmente implicherà la prova di un proprio possesso ovvero del cumulo del possesso dei vari danti ed aventi causa fino a raggiungere il termine dell’usucapione ventennale: l’attore, infatti, per provare di essere proprietario, deve dimostrare anche che il suo dante causa era effettivo titolare del bene, dovendosi così risalire la catena degli acquisti sino a raggiungere la dimostrazione di un acquisto a titolo originario da parte di un dante causa remoto, ovvero dimostrare l’intervenuta usucapione del bene stesso, attraverso il cumulo di successivi possessi “uti dominus”.

I principi in tema di prova nel giudizio di revindica non hanno carattere assoluto ma vanno adeguate alle concrete particolarità delle singole situazioni in relazione alla linea difensiva adottata dal convenuto[15].

L’utile esperimento dell’azione di rivendicazione esige che l’attore provi il proprio diritto di proprietà, risalendo, attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario, oppure dimostrando essersi compiuta in suo favore l’usucapione, eventualmente anche per effetto dell’accessio possessionis, mentre il convenuto non ha l’onere di fornire alcuna prova, potendo limitarsi ad assumere la posizione del possideo quia possideo.

Quando, tuttavia, il convenuto rinunci a questa posizione per esempio non contestando il diritto di proprietà dell’attore ma opponendo un proprio diritto di comproprietà il giudice del merito non può respingere la domanda per difetto di prova, ma deve tener conto delle ammissioni del convenuto, traendone elementi di prova, e deve considerare altresì gli altri fatti di causa, ricavandone possibili elementi presuntivi[16].

Mentre, come espresso in ultima pronuncia della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 16 maggio 2016, n. 9959

l’azione di accertamento della proprieta’, che esime colui il quale propone l’azione dall’onere della “probatio” diabolica e lo subordina solo a quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, si caratterizza per il fatto che detta azione mira non gia’ alla modifica di uno stato di fatto, bensi’ solo all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimita’ del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore e’ gia’ investito.

Nel caso invece in cui l’attore non abbia il possesso del bene o lo abbia acquistato acquistato con violenza o clandestinita’, ovvero sulla cui legittimita’ sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza, in relazione alle particolarita’ del caso concreto, parte attrice ha l’onere di offrire la stessa prova rigorosa richiesta per la rivendica, non ricorrendo in tali ipotesi la presunzione di legittimita’ del possesso, che giustifica l’attenuazione del rigore probatorio qualora l’azione di accertamento della proprieta’ sia proposta da colui che sia nel possesso del bene.

Sul punto è nuovamente tornata la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 18 gennaio 2017, n. 1210

la quale ha avuto modo di riscontrare un diverso orientamento della medesima Cassazione sull’onere probatorio in merito all’azione di mero accertamento della proprietà.

Si legge nella sentenza che colui il quale proponga un’azione di mero accertamento della proprietà di un bene non abbia l’onere della “probatio diabolica”, ma soltanto quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto, quando l’azione non miri alla modifica di uno stato di fatto, bensì unicamente all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito (Cass. 14 aprile 2005, n. 7777; Cass. 9 giugno 2000, n. 7894; Cass. 4 dicembre 1997, n. 12300). In altre pronunce, viceversa, si è negata ogni attenuazione dell’onere probatorio del titolo del preteso dominio della proprietà, rispetto all’azione di rivendica, per chi proponga un’azione di accertamento della proprietà di un bene (Cass. 22 gennaio 2000, n. 696). Quest’ultima più rigorosa interpretazione potrebbe ora trovare corroborazione pure negli argomenti posti da Cass. sez. un. 28 marzo 2014, n. 7305, nel senso di non ammettere alcuna elusione dall’onere della probatio diabolica ogni qual volta sia proposta un’azione, quale appare pure quella di accertamento, che trovi il proprio fondamento comunque nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione. 

 

Ancora secondo altra pronuncia della S.C.[17] nel giudizio di rivendicazione l’attore deve provare di essere diventato proprietario della cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario, o dimostrando il possesso proprio e dei suoi danti causa per il tempo necessario per l’usucapione.

Se poi anche il possesso è contestato dal convenuto, l’attore non può limitarsi a dimostrare che il titolo o i titoli (tra i quali, per la sua natura dichiarativa, non può annoverarsi la divisione, salvo che si provi il titolo d’acquisto della comunione) risalgono ad un ventennio, ma deve provare che egli o i suoi danti causa abbiano effettivamente e continuativamente posseduto l’immobile, salva la presunzione iuris tantum di possesso intermedio, senza che il rigore di siffatto onere probatorio sia attenuato dalla mera proposizione di una domanda riconvenzionale o di un’eccezione di usucapione da parte del convenuto, quando queste non siano formulate in modo da comportare il riconoscimento della pregressa titolarità del diritto da parte dell’attore o dei suoi danti causa.

La difesa della parte che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, per altro, “la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, una prova ben più onerosa – la probatio diabolica della rivendica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta”[18].

Questo rigoroso onere probatorio si attenua solo

1)    laddove il bene in contestazione provenga pacificamente da un dante causa comune ai due litiganti 

E sul punto, occorre riportare recente sentenza della S.C.

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|19 gennaio 2022| n. 1569

secondo la quale, appunto, in caso di azione di rivendica, la portata dell’onere probatorio a carico dell’attore deve stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia, sicché il criterio di massima secondo cui l’attore deve fornire la prova rigorosa della sua proprietà e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per l’usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto attenuato il rigoroso regime probatorio della rivendicazione, nella ipotesi di provenienza del bene rivendicato dallo stesso titolo dei convenuti, un atto di divisione, atteso che quest’ultimo ha valore probatorio nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, con la conseguenza che la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula il riconoscimento dell’appartenenza dei beni in comunione)

2)    qualora l’unicità del dante causa venga contestato in modo generico e immotivato, o senza il conforto di prove specifiche e pertinenti.

Invece, l’onere probatorio posto a carico dell’attore non è di regola attenuato dalla proposizione da parte del convenuto di una domanda o di una eccezione riconvenzionale di usucapione, a meno che quest’ultimo non invochi un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo del rivendicante, attenendo il thema decidendum alla appartenenza attuale del bene al convenuto in forza della invocata usucapione e non già dell’acquisto da parte dell’attore.

In tal caso, pertanto, l’onere della prova del rivendicante può ritenersi assolto, in mancanza della avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale il bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare.

D’altra parte, l’attenuazione del rigore dell’onere probatorio non può ritenersi esclusa in considerazione della posizione del convenuto in rivendica che, pur opponendo un proprio diritto, può comunque avvalersi del principio possideo quia possideo senza alcuna rinuncia di tale situazione vantaggiosa, atteso che, quando invoca l’acquisto per usucapione, il convenuto non si limita ad opporre la tutela garantita dalla legge a favore del possessore indipendentemente da un corrispondente diritto di proprietà, ma deduce di possedere nella qualità di proprietario, chiedendo — nell’ipotesi di domanda riconvenzionale — addirittura una pronuncia di accertamento di tale diritto di proprietà con efficacia di giudicato[19].

Inoltre, per altra massima[20], l’onere della cosiddetta probatio diabolica, che incombe sull’attore, si attenua quando il convenuto deduca, a scopo difensivo, un titolo di acquisto, quale l’usucapione, che non sia in contrasto con l’appartenenza ai danti causa dell’attore del bene rivendicato, con la conseguenza che detto onere è correttamente assolto allorquando l’attore provi che, in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, il bene è appartenuto ai suoi danti causa, che detta appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto e che il bene è a lui pervenuto in virtù di un valido titolo di acquisto.

Invece, qualora sia esercitata l’azione di rivendica della proprietà di un immobile, il fatto che questo prima di essere trasferito al rivendicante sia stato oggetto di espropriazione da parte di un ente pubblico, non comporta alcuna attenuazione dell’onere della prova, il quale incombe con uguale rigore su colui che intende rivendicare la proprietà sia se il titolo di acquisto originario consegna all’esercizio del potere di espropriazione per pubblica utilità, sia se abbia origine per il verificarsi di una delle ipotesi previste dal codice civile, in quanto in entrambi i casi, quando vi sia contestazione del convenuto, occorre la prova ininterrotta dei titoli derivativi fino all’acquisto originario, ovvero per il tempo necessario ai fini della usucapione[21].

Per quanto riguarda il risarcimento del danno ex art. 2043, invece, sarà sufficiente la dimostrazione dell’acquisto a titolo derivativo oppure la prova che il proprio legittimo possesso sia stato inciso dall’altrui condotta di spossessamento. Alla luce di ciò deriva che, poiché l’art. 948 c.c. prevede una azione di accertamento del diritto di carattere reale, tale azione non necessita di alcun presupposto che non sia quello oggettivo della titolarità della proprietà alla quale corrisponda lo svuotamento del possesso, in quanto il proprietario ha diritto ad essere riconosciuto tale anche se colui che lo ha spossessato abbia agito in perfetta buona fede; l’azione aquiliana ex art. 2043 c.c., invece, essendo finalizzata a censurare un danno ingiusto con conseguente richiesta di risarcimento del danno, richiede la dimostrazione del comportamento soggettivamente riprovevole di colui che ha spossessato il proprietario.

Infine, ai fini prettamente processuali chi chiede la restituzione di un’area rivendicata e non dimostri di esserne proprietario per l’intero, ma solo in parte, ha diritto di vedere accolta la sua domanda nei limiti della raggiunta prova e non deve già vedersi rigettare l’istanza, solo perché ha domandato più di quanto consentitogli dall’oggetto del suo diritto di proprietà[22].

 

  • Il titolo

In merito al titolo sono stati affrontati alcuni casi ovvero:

1)  L’atto di divisione, stante la carenza di effetti traslativi derivanti dallo stesso, ha carattere semplicemente dichiarativo e non è idoneo, pertanto, a fornire da solo, nei confronti dei terzi, la prova dell’acquisto della proprietà[23].

2)  Il decreto emesso dal pretore ai sensi della legge 14 novembre 1962, n. 1610 in tema di cosiddetto usucapione abbreviata, pur non costituendo una sentenza neanche in senso sostanziale, e non essendo, quindi suscettibile di passare in cosa giudicata, contiene, però, il riconoscimento giudiziale del diritto di proprietà, il quale si deve presumere iuris tantum a favore del soggetto che abbia ottenuto tale decreto (fino a quando non venga pronunciata una decisione di accertamento della proprietà del terzo che abbia contestato il diritto del beneficiario del provvedimento in questione), e, pertanto, ove il soggetto medesimo agisca in rivendicazione, può concorrere, insieme agli altri elementi del caso concreto (compreso l’atteggiamento difensivo del convenuto), a fornire la prova incombente sul rivendicante[24].

3)  In tema di prova della proprietà, anche le risultanze dei certificati catastali possono valere a formare il convincimento del giudice. La valutazione della sufficienza o meno della prova offerta dal rivendicante costituisce apprezzamento di fatto del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se esente da vizi logici e giuridici[25].

Anche se in realtà per altra ultima pronuncia

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 25 ottobre 2013, n. 24167

la prova della proprietà dei beni immobili non può essere fornita con la produzione dei certificati catastali, i quali sono solo elementi sussidiari in materia di regolamento di confini. (Cass. 11-11-1997 n. 11115; Cass. 4-3-2011 n. 5257).

Dalla medesima sentenza, inoltre è opportuno riportare un altro principio secondo cui nell’ipotesi di controversia tra due aggiudicatari di beni immobili espropriati in danno di un fallito relativa ad una porzione dei beni medesimi, sostenendo entrambi che la stessa va ricompresa nell’oggetto del trasferimento disposto in loro rispettivo favore, orientamento poi ribadito in linea generale in tema di azione di rivendicazione, essendosi affermato che la base primaria dell’indagine del giudice di merito al riguardo è costituita dal’esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà (Cass. 17-10-2007 n. 21834).

In realtà, in merito al valore dei dati catastali, la Cassazione, con una sentenza del 2014

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 29 gennaio 2014, n. 1947

ha riaffermato, specificando ulteriormente, che  i dati catastali non hanno valore di prova ma di semplice indizio, costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all’insieme degli elementi raccolti in fase istruttoria.
Il regime probatorio rigoroso prescritto per l’azione di rivendicazione e’ quindi soddisfatto dall’accertamento compiuto sulla base degli iniziali titoli di acquisto e dell’accertato (e non censurato) valore contrattuale del regolamento condominiale, sorto con la prima vendita appena successiva alla costruzione del fabbricato. Giova peraltro ricordare che: la presunzione legale di condominialita’ stabilita per i beni elencati nell’articolo 1117 cod. civ., la cui elencazione non e’ tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il proprietario che ne rivendichi la proprieta’ esclusiva ha l’onere di dare la prova di tale diritto. A tal fine, e’ necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono utilizzabili i dati catastali, utili solo come concorrenti elementi indiziari di valutazione a fornire la prova richiesta.
Nel caso sottoposto e’ stata rinvenuta nei titoli di acquisto la prova positiva della condominialita del bene, che non e’ stata presunta, ma dichiarata nell’atto vantato dagli attori e richiamata in quello dei ricorrenti.

Non vi è quindi – si continua a leggere nella sentenza – alcun profilo di utilizzabilita’ delle risultanze catastali invocate. La eventuale non conformita’ della denuncia catastale con la volonta’ espressamente manifesta nell’atto di compravendita, considerato nelle sue varie parti, non inficia di per se’ il valore preminente del titolo di acquisto

Inoltre, per la medesima Cassazione, come da recente pronuncia

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 dicembre 2013, n. 27296

– poichè in tema di azione di rivendicazione, l’attore ha l’onere di offrire la c.d. probatio diabolica, che può essere assolto con la dimostrazione dell’acquisto del bene a titolo derivativo e della titolarità del diritto di proprietà in capo ai precedenti danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, o dell’avvenuto compimento in suo favore dell’usucapione – l’intestazione catastale di un immobile, compiuta dall’autorità amministrativa nell’ambito di accertamenti di carattere fiscale per individuare il titolare della proprietà, non comporta la dimostrazione che l’intestatario, o gli intestatari, abbiano effettivamente esercitato su di esso quel potere di fatto che, unitamente all’indispensabile elemento intenzionale, è idoneo a produrre l’acquisto della proprietà per il decorso del tempo ed il concorso di tutte le altre condizioni a tal fine richieste dalla legge.

4)  La denuncia di successione — avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali e priva di rilevanza civilistica se non di tipo indiziario — è inidonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene, così come, per converso, la mancata indicazione in essa di un bene non consente di desumere automaticamente il difetto del relativo diritto di proprietà[26].

Il rapporto con l’azione di regolamento di confini

          La distinzione tra azione di rivendicazione e azione di regolamento di confine va ricavata non dall’esito della lite, bensì dalla natura della domanda proposta.

          Pertanto, si ha rivendica quando la contestazione ha per oggetto i rispettivi titoli di proprietà, mentre l’azione deve essere qualificata come regolamento di confine quando è dedotta l’incertezza della linea di confine, o perché manca una demarcazione visibile (incertezza oggettiva), o perché questa, pur sussistendo, è inidonea a separare i fondi in modo certo e definitivo (incertezza soggettiva), anche se non vi è in atto il possesso promiscuo della zona intermedia[27].

          Inoltre, qualora, incontestati i titoli di proprietà, ciascuno dei contendenti assuma che l’estensione posseduta non corrisponde a quella risultante dal suo titolo, il conflitto tra fondi si risolve in conflitto tra titoli, limitatamente alla questione dell’estensione e senza che l’azione di regolamento di confini si trasformi in rivendica, se l’estensione di ognuno dei fondi, come indicata nel titolo ad esso relativo, sia incompatibile con quella dell’altro: in tal caso, l’indagine del giudice del merito deve inevitabilmente riguardare, in relazione alle deduzioni difensive delle parti, anche la validità ed efficacia del titolo nel punto concernente la indicazione dell’estensione del fondo e, se necessario, estendersi al titolo d’acquisto dei danti causa immediati o remoti delle parti stesse[28].

          Per altra massima[29] ricavata da una pronuncia del 67’, in altre parole, il presupposto fondamentale dell’azione di regolamento di confini, disciplinata dall’art. 950 cod. civ., è che non si faccia questione in ordine alla proprietà dei fondi limitrofi, appartenenti a proprietari diversi, ma si controverta unicamente sull’esatto tracciato della linea di demarcazione tra i fondi medesimi.

          Non venendo, pertanto, in contestazione i titoli di acquisto, i quali anzi rappresentano un dato certo, indiscusso e indiscutibile, bensì, e soltanto, la determinazione quantitativa dell’oggetto della proprietà dei due confinanti, e cioè la corrispondenza, in concreto, dell’estensione dei fondi a quella segnata dai rispettivi titoli, viene meno ogni questione in ordine alla legittimità degli acquisti, sicché, mentre l’attore è sollevato dall’onere di fornire la dimostrazione del suo diritto di proprietà in virtù di un titolo di acquisto originario o derivativo, risalente ad un periodo di tempo atto alla usucapione, su entrambe le parti, per contro, si riversa l’onere probatorio, ed ogni mezzo di prova, anche tecnico o presuntivo, può essere utilizzato per la formazione del convincimento del giudice.

Il rapporto con l’azione negatoria

          Il fondamento, in questo caso, sta nella differenza dell’onere probatorio, difatti per la S.C.[30] nell’actio negatoria servitutis, diretta al riconoscimento, non del dominio, ma della libertà del fondo, non è richiesta la prova rigorosa del diritto di proprietà come nell’azione di rivendicazione, essendo sufficiente che l’attore dimostri con ogni mezzo e, quindi, anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un valido titolo. Peraltro, quando, il convenuto, anziché limitarsi alla mera difesa del diritto contestato, eccepisca di essere proprietario del fondo di cui ex adverso si nega l’asservimento, per avere fatto regolare acquisto da colui che agisce a tutela della libertà del fondo stesso, sorge l’esigenza di accertare la titolarità del vantato diritto di proprietà sul preteso fondo servente.

          Inoltre, sotto il profilo processuale è bene anche precisare[31] che non esiste rapporto di pregiudizialità in senso proprio tra l’azione di rivendicazione della proprietà di un bene e quella negatoria, intesa ad escludere la sussistenza di diritti vantati da altri sullo stesso bene.

          Infatti, come già scritto, il primo giudizio, che ha un ambito più ampio del secondo, includendolo ed assorbendolo, esige una dimostrazione piena della proprietà da parte di chi se ne afferma titolare, che, invece, non è imposta con pari rigore a chi esercita un’actio negatoria, sicché, per decidere relativamente a quest’ultima non è necessario attendere l’esito dell’altro giudizio, essendo sufficienti elementi di prova desumibili anche da semplici presunzioni.

Il rapporto con l’opposizione di terzo all’esecuzione (art. 619 c.p.c.) e con l’opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.)

In realtà la differenza, come per l’actio negatoria servitutis, si ritrova nel minor rigore probatorio, poiché l’opposizione di terzo all’esecuzione, a norma dell’art. 619 cod. proc. civ. è azione di accertamento negativo, diretta a vincere la presunzione iuris tantum di appartenenza al debitore dei beni staggiti nella casa di abitazione o nell’azienda dello stesso, mediante la prova della proprietà dell’opponente e la correlativa negazione del diritto del creditore di procedere alla loro espropriazione, tale prova non è soggetta ai rigorosi principi disciplinanti la rivendicazione, e l’onere relativo può essere assolto, nel rispetto dei limiti fissati dall’art. 621 cod. proc. civ., anche mediante la produzione di un atto di acquisto derivativo, senza necessità dell’ulteriore dimostrazione del diritto del dante causa […][32].

Il debitore esecutato, che propone opposizione all’esecuzione per impignorabilità dei beni ai sensi del secondo comma dell’art. 615 cod. proc. civ., esercita un’azione che non è di rivendicazione, bensì di accertamento della illegittimità dell’esecuzione in relazione ai beni che ne formano oggetto, e, pertanto, non ha l’onere di fornire la probatio diabolica, propria di detta azione reale[33].

 

Il rapporto con l’azione di petizione ereditaria

art. 533 c.c.     nozionel’erede può (c.c. 2652, 2690) chiedere il riconoscimento della qualità ereditaria   contro chiunque   possiede  tutti o parte   dei beni ereditari   a titolo di erede o  senza titolo alcuno,  allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi.

I presupposti dell’azione sono:

1)   Realità: perché l’erede esercita l’azione direttamente sul bene (inteso asse ereditario, quota di eredità singolo bene) sulla base del riconoscimento del proprio status di erede; solo indirettamente essa è esercitata contro il possessore dei beni ereditari.

2)   Azione assoluta: dal punto di vista soggettivo, l’azione può essere esperita contro:

a)   chiunque  pretenda di essere egli stesso erede e a tale titolo legittimato  a possedere; l’erede che agisce deve provare esclusivamente  l’esistenza di una valida vocazione in proprio favore e di una valida accettazione: così se un erede legittimo contesta ad un erede testamentario la qualità in quanto il testamento sarebbe invalido, questi dovrà dare la prova della validità, da cui discende l’obbligo dell’altro di restituire tutti i beni ereditari comunque posseduti

b)   chi non contesti la qualità di erede e possieda senza disporre di alcun titolo di possesso (possiedo quia possisideo);qui non vi è disputa sulla qualità, l’erede si deve limitare a dare prova che il bene posseduto dal terzo fa parte dell’asse ereditario.

3)   Universalità: l’azione mira solo all’accertamento della qualità (o dell’appartenenza del bene all’asse ereditario) mentre l’effetto restitutorio è solo un’ulteriore, automatica conseguenza (positiva) dell’accertamento. L’azione non ha pertanto carattere particolare ma universale e ciò a differenza della rivendica, che ha ad oggetto al restituzione del singolo bene o dei singoli beni rivendicati.

4)   Azione di condanna: perché il suo scopo finale è quello di recuperare, in tutto o in parte, i beni ereditari posseduti dal convenuto; essa ha, come causa petendi, la qualità di erede nell’attore e, come petitum, la restituzione dei beni ereditari.

Orbene, fatta questa necessaria premessa, per la Corte di Cassazione[34] l’azione di petizione ereditaria, prevista dall’art. 533 cod. civ. ha natura prevalentemente recuperatoria, essendo il riconoscimento della qualità di erede, cui essa tende, strumentalmente diretto all’ottenimento dei beni ereditari, con la conseguenza che, qualora il convenuto non contesti la qualità di erede dell’attore, ma si limiti a negare l’appartenenza del bene all’asse ereditario, l’azione di petizione ereditaria non si trasforma in azione di rivendicazione, in quanto la mancata contestazione della detta qualità di erede non fa venire meno le finalità recuperatorie della petizione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, esonerando l’attore dalla prova della sua qualità fermo restando l’onere della dimostrazione nei limiti relativi alla difesa della controparte dell’appartenenza del bene all’asse ereditario al momento dell’apertura della successione.

Inoltre[35], la petio hereditatis ha natura di azione reale, volta a conseguire il rilascio dei beni ereditari da colui che li possegga, vantando un titolo successorio che non gli compete, ovvero senza alcun titolo, e presuppone l’accertamento della sola qualità ereditaria dell’attore o di diritti che a costui spettano iure hereditatis, qualora siano contestati dalla controparte; la petitio hereditatis, pertanto, si differenzia dalla rei vindicatio malgrado l’affinità del petitum, in quanto si fonda sull’allegazione dello stato di erede ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell’universum ius o di una quota parte di esso. Ne consegue, quanto all’onere probatorio che, mentre l’attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella petizione di eredità può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario.

Questioni processuali

1)    Competenza

L’azione di rivendicazione deve essere proposta in base ad un criterio di competenza territoriale fondata sull’ubicazione dell’immobile (art. 21 cod.proc.civ.) e ad una competenza per valore determinabile in base al valore delle cose rivendicate (artt. 14 e 15 cod.proc.civ.).

In ipotesi di rivendica della proprietà di beni immobili, in ipotesi di conflitto fra norme, ovvero se sono toccati interessi di soggetti di diversa nazionalità, la domanda va proposta dinanzi al giudice dello Stato in cui si trova l’immobile (art. 5, legge n. 218/1995) e deve essere trascritta presso la Conservatoria dei Pubblici Registri Immobiliari competente per territorio (art. 2653 c.c.).

Allorquando venga richiesta la condanna del convenuto al rilascio di un immobile, previo accertamento dell’invalidità del titolo giustificativo del suo possesso, costituito da un contratto di compravendita intercorso tra lui ed un terzo, l’azione, concretandosi la sua finalità pratica nel conseguimento del bene ed essendo la domanda di accertamento della invalidità del contratto solo strumentale rispetto alla rivendica, ha natura essenzialmente reale e va quindi proposta, ai sensi dell’art. 21 cod. proc. civ., davanti al giudice del luogo dove è posto l’immobile, senza che possa trovare applicazione la regola del foro facoltativo dettata dal precedente art. 20 per le cause relative a diritti di obbligazione[36].

Qualora il proprietario esperisca azione di revindica nei confronti degli occupanti di un suo immobile, la competenza a conoscere della relativa controversia che va determinata secondo gli ordinari criteri del codice di rito, non trova deroga a seguito dell’eccezione degli occupanti circa l’opponibilità di una sublocazione stipulata con un terzo, non rappresentante né dante causa dell’attore, non comportando tale eccezione l’accertamento di un rapporto diretto con il proprietario, ricadente o meno nella disciplina delle locazioni di cui alla legge n. 392 del 1978, e così la necessità di una preliminare verifica del giudice competente alla stregua della legge suddetta[37].

Nell’azione di rivendica la pretesa dell’attore, diretta alla demolizione delle opere costruite dal convenuto sul fondo di cui viene chiesta la restituzione, non influisce sul valore della causa, ai fini della competenza, perché tale pretesa è compresa nel contenuto della detta azione, la quale è preordinata non solo al recupero del fondo, ma anche alla eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal convenuto[38].

2)    La trascrizione

Inoltre, se come già detto  la domanda di rivendica è stata trascritta avendo per oggetto un bene immobile, allora la sentenza è comunque opponibile ai terzi che abbiano trascritto il loro titolo successivamente.

art. 2653 c.c. altre domande e atti soggetti a trascrizione a diversi effetti.Devono parimenti essere trascritti [2654, 2668, 2691; disp.att. 225 ss.]:

1) le domande [c.p.c. 163] dirette a rivendicare la proprietà [948, 949] o altri diritti reali di godimento su beni immobili [1079] e le domande dirette all’accertamento dei diritti stessi.

La sentenza pronunziata contro il convenuto indicato nella trascrizione della domanda ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base a un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda [2644]

3)    La legittimazione attiva

Non solo chi afferma di essere proprietario del bene è il soggetto titolare della legittimazione attiva all’azionedi rivendicazione, ma anche il comproprietario.

In questo caso non occorre un’integrazione di contraddittorio nei confronti di tutti gli altri dal momento che tale azione non attiene a un unico rapporto giuridico inscindibile per cui non ha modo di esistere un litisconsorzio necessario, bensì può esercitarsi anche da uno solo dei comproprietari.

Da ultimo, secondo la S.C.[39], in tema di condominio ciascun condomino può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che si renda necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari, il litisconsorzio necessario sussista soltanto nel caso in cui il convenuto proponga una vera e propria domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva. Per contro esso va negato nel caso, affatto diverso, in cui la proprietà individuale del bene venga opposta dal convenuto in via di eccezione, atteso che, se la natura riconvenzionale di essa amplia di fatto il thema decidendum, tuttavia l’accertamento con essa richiesto è domandato soltanto in via incidenter tantum, al solo fine di paralizzare la pretesa avversaria.

In merito è sono intervenute anche le Sezioni Unite

Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 13 novembre 2013 n. 25454

affermando che è condivisibile e da mantenere l’orientamento, risalente agli anni ‘50, secondo cui le azioni a tutela della proprietà e del godimento della cosa comune e in particolare l’azione di rivendica possano essere promosse anche soltanto da uno dei comproprietari, senza che si renda necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini. Ciò si è detto vuoi perché il diritto di ogni partecipante al condominio ha per oggetto la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui; vuoi perché compete ad ogni condomino la tutela dei diritti comuni sussistendo il principio della “rappresentanza reciproca”; ed ancora perché essa non tende a una pronuncia con effetti costitutivi.

In linea generale, in tema di tutela del diritto di comproprieta’, vige il principio della concorrenza di pari poteri gestori in capo a tutti i comproprietari, per cui ciascuno di essi e’ legittimato ad agire contro chi vanti  diritti di godimento sul bene, attesa la comunanza d’interessi tra tutti i contitolari del bene medesimo, tale da lasciar presumere il consenso di ciascuno all’iniziativa giudiziaria volta alla tutela degli interessi comuni, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza degli altri comproprietari.

Principio ripreso anche da ultimo adagio della Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 14 novembre 2016, n. 23127

La medesima sentenza, poi, ha avuto modo di precisare anche che quando la domanda di rivendica di un bene e’ proposta da uno o piu’ soggetti, che assumono di essere i comproprietari, la necessita’ di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non secundum eventum litis, ma al momento in cui essa sorge, con la conseguenza che dipende dal comportamento del convenuto. Ed, infatti, se il convenuto si limiti a negare il diritto di comproprieta’ degli attori, non si richiede la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene, mentre nel caso in cui eccepisca di essere il suo proprietario esclusivo, la controversia ha come oggetto la comunione di esso, cioe’ l’esistenza del rapporto unico plurisoggettivo, e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti di tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarita’ (litisconsorzio necessario), affinche’ la sentenza possa conseguire un risultato utile, che, invece, non avrebbe in caso di mancata partecipazione al giudizio di alcuni, non essendo essa a loro opponibile.

E’  opportuno riportare, poi, alcuni casi affrontati dalla Giurisprudenza di legittimità secondo la quale:

1)   Il mandatario con procura, abilitato ad agire in nome e per conto del mandante a tutela dei suoi interessi patrimoniali, è legittimato ad esperire azione di rivendicazione, anche quando la procura non includa il compimento di atti di straordinaria amministrazione, dato che tale azione, come in genere quelle di tipo restitutorio, non esula dall’ordinaria amministrazione, essendo rivolta al mantenimento della situazione patrimoniale del mandante[40].

2)   Chi abbia acquistato, per effetto del possesso continuato di un immobile, la proprietà di esso per usucapione, può esercitare la rivendica ancorché detto acquisto non sia stato giudizialmente accertato e lo spossessamento dell’immobile sia avvenuto da oltre un anno[41].

3)   L’art. 936 ultimo comma cod. civ., trova applicazione esclusivamente nell’ambito della particolare disciplina dell’accessione, nel senso che detto proprietario, privato della scelta fra ritenzione e rimozione della costruzione, resta obbligato al pagamento del valore dei materiali e del prezzo della mano d’opera (oppure dell’aumento del valore del fondo), ma non interferisce sulla facoltà del proprietario medesimo di agire in rivendicazione, al fine di recuperare la porzione del bene della quale sia stato spossessato con l’esecuzione di quell’opera, e, quindi, di conseguirne la demolizione (fermo restando il suddetto obbligo di pagamento)[42].

Di contro, in forza di una vicenda analizzata dalla S.C.[43], il venditore non è legittimato ad agire con azione di rivendicazione (art. 948 cod. civ.) per ottenere la restituzione del bene alienato, che sia detenuto da terzi, neppure al limitato scopo di poter adempiere alla obbligazione assunta di consegnare la cosa al compratore (art. 1476 cod. civ.), atteso che detta azione spetta esclusivamente a chi sia proprietario del bene al momento della proposizione della domanda.

4)    La legittimazione passiva

A norma dell’art. 948 cod. civ., legittimato passivamente all’azione di rivendica (che è, per sua natura, reale e non personale) è chiunque di fatto, comunque, possegga o detenga il bene rivendicato, onde abbia la facultas restituendi.

Tale legittimazione, pertanto, ricorre anche nei confronti del detentore, che abbia ottenuto la consegna della cosa, in base ad un rapporto contrattuale, dallo stesso richiedente, ove quest’ultimo, anziché avvalersi semplicemente della cessazione del predetto rapporto e dell’obbligo di restituzione in esso compreso, intenda invece ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà ed il recupero del possesso[44]. Ebbene, quindi, l’azione reale di revindica può essere sperimentata anche contro il venditore, il quale, sino alla consegna della cosa al compratore, è semplice detentore della stessa, avendone di regola, perduto il possesso per effetto del solo consenso[45].

È stato anche precisato che – essendo come già più volte detto passivamente legittimato colui che si trova nella materiale detenzione della cosa – quest’ultimo può essere condannato alla sua restituzione del bene (o colui che, per fatto proprio, ha cessato di possedere o detenere il bene dopo la domanda) anche se ne abbia temporaneamente consentito ad altri la precaria utilizzazione[46].

Inoltre il proprietario di un bene può esperire l’azione di rivendicazione, e non soltanto l’azione restitutoria, anche nei confronti di chi abbia ricevuto il bene in esecuzione di un contratto con esso attore stipulato, ove il contratto medesimo sia affetto da nullità sicché detta consegna del bene non sia riconducibile ad una volontà giuridicamente rilevante del rivendicante[47].

Mentre, come da recente pronuncia della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 8 gennaio 2015, n. 40

in tema di condominio, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini (o contro terzi) e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell’edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n. 4 cod. civ.) possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea, ex art. 1131, primo comma, cod. civ., adottata con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 dello stesso codice (Cass., Sez. II, 3 aprile 2003, n. 5147; Cass., Sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3044).

Infine secondo il principio su enunciato l’assuntore del concordato fallimentare assume, oltre il rischio che i beni acquistati possano essere di valore inferiore alla massa dei debiti fallimentari, anche quello che una parte dei beni acquistati non sia di proprietà del fallito ma di un terzo, onde egli è soggetto anche alla eventuale rivendicazione del terzo. Il suo diritto soccombe sia nel caso che la domanda di rivendicazione venga proposta nella prima fase, in cui l’assuntore ha soltanto il potere di disporre dei beni del fallito nell’interesse della massa fallimentare sia che venga proposta quando egli ha già acquistato la proprietà dei beni[48].

Ai fini endoprocessuali è bene sottolineare che in tema di azione di rivendicazione, il venir meno della legittimazione passiva del convenuto, con il suo diritto di estromissione dalla causa, si verifica quando egli alleghi una mera detenzione in nome di un terzo, indichi quest’ultimo e non si opponga alla pretesa del rivendicante[49].

Nel caso di compossesso del bene, che si assume esercitato senza titolo da più soggetti, l’azione recuperatoria deve ritenersi esperibile nei confronti anche di uno solo di essi, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, perché la pronuncia richiesta al giudice non può considerarsi inutiliter data, essendo idonea a spiegare effetti nel rapporto con la parte evocata in giudizio[50].

Infine, secondo una pronuncia della S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 dicembre 2013, n. 27295

l’azione di rivendicazione non da luogo ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di eventuali terzi che vantino o possano avere interesse a vantare diritti sulla cosa contrastanti con il diritto di proprieta’ fatto valere in giudizio dall’attore, poiche’ in tal caso l’unica conseguenza sara’ che la sentenza, facendo stato solo tra le parti del giudizio, non sara’ opponibile ai terzi interessati rimasti estranei al giudizio stesso, non potendo, invece, essere considerata “inutiliter data”

5)    Eccezioni, riconvenzionali del convenuto e modifica della domanda

In un giudizio di rivendica o di accertamento della proprietà si deve ritenere proposta una mera eccezione e non una domanda riconvenzionale se il convenuto nelle sue difese si limita a chiedere l’accertamento di una situazione giuridica (quale l’avvenuta usucapione) incompatibile con la pretesa dell’attore; in questo caso il giudice non può esimersi dal procedere all’accertamento chiesto dal convenuto al fine specifico di stabilire la fondatezza della domanda dell’attore, e ciò anche se il convenuto abbia ritenuto di collegare a detto accertamento una domanda riconvenzionale per qualsiasi verso inammissibile[51].

Per recente Cassazione, già menzionata in merito alla legittimazione passiva,

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 8 gennaio 2015, n. 40

poiché la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, nelle relative azioni la causa petendi si identifica con il diritto e non con il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda o dell’eccezione, essendo, viceversa, necessaria ai soli fini della prova. Non viola il divieto di ius novorum in appello, pertanto, la deduzione – da parte del convenuto che già in primo grado aveva eccepito l’esistenza in proprio favore della proprietà dell’area rivendicata da controparte – che l’acquisto da parte sua della proprietà era avvenuto per usucapione, ordinaria o abbreviata (Cass., Sez. II, 13 ottobre 1999, n. 11521; Cass., Sez. II, 4 marzo 2003, n. 3192; Cass., Sez. II, 24 maggio 2010, n. 12607; Cass., Sez. II, 24 novembre 2010, n. 23851; Cass., Sez. II, 23 dicembre 2010, n. 26009).

G)  Prescrizione

L’azione di rivendicazione è un’azione imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione, mentre quella risarcitoria ex art. 2043 c.c., essendo un’azione personale a tutela di un diritto di credito, soggiace alla prescrizione speciale quinquennale.

Sulla nota imprescrittibilità al pari del diritto di proprietà non soggetto a estinzione, come del resto ogni altro diritto disponibile, occorre precisare che il solo fatto per cui il titolare si astenga dall’esercitarlo non vale a farlo cadere in prescrizione. Conseguentemente, anche lazionedirivendicazione non soggiace ad alcun termine prescrizionale. Al limite l’unico ostacolo si rinviene nel caso del possesso prolungato oltre un certo tempo (20 anni) id est per usucapione.

In questo caso il trascorrere di un periodo così ampio determina la perdita del possesso e quind’anche della proprietà.

2) Azione negatoria

La definizione normativa dell’azione negatoria è sancita dall’art. 949 c.c.

art. 949 c.c.    azione negatoria:  il proprietario  può agire per far dichiarare l’inesistenza  di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivato di temerne pregiudizio (1079).

Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può anche chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno (1170).

Ebbene, riprendendo in pieno la fattispecie romanistica, anche tale azione ha carattere reale ed è principalmente posta a tutela della proprietà per bloccare le intromissioni lesive della libertà del bene.

La fattispecie normativa rivela in realtà una triplice finalità :

  • l’accertamento della libertà del fondo e dell’insussistenza dei diritti reali da altri affermati;
  • l’inibitoria a proseguire molestie e turbative svolte sulla base del diritto vantato;
  • il risarcimento del danno, oltre alla riduzione in pristino.

Per la S.C.[52] il risarcimento del danno, in aggiunta al ristabilimento della violata situazione, non è dovuto ove non risulti, neppure per indizi, che dall’illegittimo esercizio della servitù sia derivato un concreto pregiudizio patrimoniale all’altra parte.

Inoltre qualora, unitamente ad actio negatoria servitutis, per il ripristino dello stato dei luoghi, venga proposta azione di risarcimento del danno, quest’ultima resta soggetta al disposto del comma secondo dell’art. 2058 cod. civ., secondo cui il giudice può disporre che il risarcimento abbia luogo per equivalente, quando il risarcimento in forma specifica è eccessivamente oneroso per il debitore[53].

La lesione del diritto del proprietario, inoltre, può realizzarsi in forme meno aggressive rispetto alla materiale privazione del possesso del bene.

Nella fattispecie, l’ordinamento appronta un altro strumento di tutela avverso la pretesa di terzi di essere titolari di diritti reali sul bene, ci si riferisce all’azione c.d. negatoria.

Quest’ultima differisce dall’azione poc’anzi disaminata per il fatto che è diretta a ottenere in negativo l’accertamento dell’inesistenza del diritto vantato sulla cosa da altri.

L’azione negatoria, che deriva dall’originaria negatoria servitutis con cui il proprietario mirava a far accertare l’inesistenza di diritti di servitù vantati da terzi sul suo fondo, è a oggi un rimedio generale posto a tutela del proprietario contro terzi i quali asseriscono la titolarità di diritti reali limitati sulla cosa.

Si tratta di un’ azione di mero accertamento che il proprietario può intentare quando sussiste un concreto e fondato pericolo di pregiudicare il suo diritto.

Tipico è il caso in cui il proprietario del fondo finitimo abbia costruito a una distanza inferiore a quella legale[54]

Per ciò il Legislatore ha concepito l’azione negatoria volta tanto all’accertamento negativo dell’altrui diritto quanto all’eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere, mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà.

Da ultimo la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 31 dicembre 2014, n. 27564

ha ribadito che una azione negatoria servitutis puo’ essere diretta sia all’accertamento dell’inesistenza di diritti di terzi, che alla cessazione delle turbative e molestie e, in tale ultimo caso, puo’ determinare – ove la servitu’ o la turbativa venga esercitata mediante un’opera, anche la condanna alla demolizione o trasformazione dell’opera, ma non l’ordine di esecuzione di opere eccedenti la finalita’ dell’azione di rimuovere una situazione comportante una menomazione del godimento del proprio fondo da parte di colui che l’azione ha esercitato

Inoltre, se come già detto per  la domanda di rivendica, l’actio negatoria servitutis deve essere trascritta quando ha per oggetto un bene immobile, pertanto la sentenza è comunque opponibile ai terzi che abbiano trascritto il loro titolo successivamente.

art. 2653 c.c.   altre domande e atti soggetti a trascrizione a diversi effetti.Devono parimenti essere trascritti [2654, 2668, 2691; disp.att. 225 ss.]:

1) le domande [c.p.c. 163] dirette a rivendicare la proprietà [948, 949] o altri diritti reali di godimento su beni immobili [1079] e le domande dirette all’accertamento dei diritti stessi.

 Per la Corte di legittimità[55] in tema di azioni a difesa della proprietà, costituisce actio negatoria servitutis non solo la domanda diretta all’accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù ma anche quella volta alla eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà dal medesimo realizzate, allo scopo di ottenere la effettiva libertà del fondo, così da impedire che il potere di fatto del terzo corrispondente all’esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l’acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui; ne consegue che l’azione diretta a conseguire la riduzione in pristino a favore di colui che ha subito danno per effetto della violazione delle distanze legali deve qualificarsi come actio negatoria servitutis, essendo volta non già all’accertamento del diritto di proprietà dell’attore libero da servitù vantate da terzi, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dare luogo a servitù.

  • I presupposti

La sola affermazione dell’inesistente diritto altrui non costituisce, peraltro, condizione sufficiente all’esercizio dell’azione.

Si richiede, infatti, che esista anche una condizione sufficiente per l’esercizio dell’azione e che sussista un motivo per temere il pregiudizio, al fine di evitare di incrementare una litigiosità fine a se stessa.

Pertanto, altra condizione dell’azione in negatoria è l’interesse ad agire, che si ravvisa allorquando venga posta in essere dal terzo un’attività implicante in concreto l’esercizio, che si assume abusivo, di una servitù a carico del fondo di colui che agisce, mentre l’azione non può essere proposta al fine di far dichiarare la generica libertà del fondo, indipendentemente da concreti attentati alla stessa o di inequivoche pretese reali affermate dalla controparte.

In tale senso è oramai consolidato l’orientamento della giurisprudenza, sia di legittimità che di merito[56]

Orbene l’interesse ad agire in negatoria servitutis sussiste anche quando, pur non denunciandosi l’avvenuto esercizio di atti materialmente lesivi della proprietà dell’attore, questi, a fronte di inequivoche pretese reali affermate dalla controparte sulla stessa, intenda far chiarezza al riguardo con l’accertamento dell’infondatezza delle dette pretese[57].

Di contro l’azione non è esercitabile dal proprietario quando, pur verificandosi una molestia o turbamento del possesso o godimento del bene, la turbativa non si sostanzi in una pretesa di diritto sulla cosa, in tal caso essendo apprestati altri rimedi di carattere essenzialmente personale. Per altro verso, non è precluso a colui che abbia ottenuto, con sentenza passata in giudicato, declaratoria di inesistenza sul suo fondo di una servitù di passaggio, di agire in giudizio per far cessare il comportamento del proprietario dell’altrui fondo che ne abbia continuato l’esercizio nonostante il giudicato sfavorevole[58].

L’azione negatoria è esperibile anche se tra i due immobili manchi un nesso di contiguità materiale.

Infatti, unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di contiguità in senso giuridico, che permetta, cioè, lo stabilirsi, tra i due immobili, di situazioni corrispondenti di pregiudizio e vantaggio.

È ampia la produzione giurisprudenziale in materia di actio negatoria, soprattutto contro pretese servitù di passaggio.

Capita, infatti, che il proprietario di un fondo si trovi a dover subire il passaggio di un terzo che rivendica il diritto di attraversarlo per accedere a un fondo di sua proprietà. In questo caso, è necessario verificare se il passaggio altrui non rientri nell’ipotesi di cui all’art. 1051 ss. c.c., che legittimano l’intromissione nella proprietà altrui.

Il sistema della prova

La parte che agisce con l’actio negatoria servitutis non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo, ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido. Al convenuto incombe, invece, l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore[59].

Principio ripreso anche da ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 7 aprile 2014, n. 8120

secondo la quale, appunto, in tema di azione negatoria, la titolarita’ del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e, se essa e’ contestata, la parte che agisce non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendica, la prova rigorosa della proprieta’, ma deve dare la dimostrazione, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, dell’esistenza di un titolo valido di proprieta’ del bene

In altre parole, il legittimato passivo che afferma di essere titolare del diritto sulla cosa altrui ha l’onere di provare il fondamento delle sue pretese.

Il proprietario che agisce in via negatoria può non essere in possesso del bene: il suo interesse all’accertamento negativo del diritto reale altrui prescinde, infatti, dall’attuale disponibilità della cosa.

Esercitata l’actio negatoria servitutis da parte dell’attore, se il convenuto eccepisca di essere egli stesso proprietario del fondo che si assume gravato, oggetto del giudizio è l’accertamento della libertà del fondo mentre l’accertamento della proprietà del medesimo ha valore soltanto strumentale; di conseguenza, non essendo la domanda rivolta al recupero del bene, l’onere della prova che grava sull’attore nel possesso del bene è meno rigoroso che nell’azione di rivendicazione e la prova, in caso di insufficienza dei titoli di provenienza, può essere data con ogni mezzo e anche con presunzioni[60].

Inoltre, la parte che agisce con l’actio negatoria servitutis non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendicazione, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo, ed anche in via presuntiva, di possedere la res in forza di un titolo valido.

Al convenuto incombe, invece, l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale[61]

Inoltre, sempre secondo altra pronuncia della Cassazione[62], tale prova  può essere fornita mediante la produzione di un valido titolo di acquisto.

Ciò non significa, tuttavia, che la produzione del detto titolo debba in ogni caso essere considerata sufficiente, rientrando pur sempre nel potere istituzionale del giudice del merito, sindacabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, valutare se gli elementi forniti siano sufficienti ad esaurire tale onus probandi.

Qualora il proprietario di un fondo agisca, ad esempio, per la rimozione di opere abusivamente costruite da altri, sia che l’azione proposta abbia natura personale, in quanto rivolta contro colui che, pur non vantando pretese di natura reale sul bene abbia posto in essere su di esso le anzidette attività lesive dell’integrità e del godimento, sia che l’azione debba inquadrarsi nello schema dell’actio negatoria, la prova della proprietà può essere fornita dall’attore con qualunque mezzo, incluse le presunzioni, mentre al convenuto, che deduca l’esistenza, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale del diritto di compiere l’attività lamentata come lesiva, spetta di offrire la relativa dimostrazione[63].

Casistica

Luci e vedute[64]

L’interesse ad agire in negatoria servitutis postula la sussistenza dell’esercizio attuale e concreto della servitù, accompagnato dalla pretesa di esercitare un diritto sulla cosa asservita. Ne consegue che l’attore è carente di un interesse attuale e concreto ad agire in «negatoria» in ordine ad una servitù di veduta esercitata in passato su una terrazza di sua proprietà attraverso una finestra successivamente murata[65].

Il proprietario del fondo su cui si esercita una veduta illegale può proporre l’azione negatoria e chiedere l’accertamento dell’inesistenza della servitù e anche la sua eliminazione in ogni momento , purché non sia decorso il termine ventennale necessario per l’usucapione delle servitù apparenti , quale è quella di veduta[66].

In ipotesi di alterazioni dei luoghi compiute dal titolare di una servitù prediale e tali da concretare vere e proprie turbative o molestie in pregiudizio al proprietario del fondo servente, la tutela di questi non si esercita mediante l’actio negatoria servitutis, ma facendo ricorso ai rimedi di cui all’art. 1063 o 1067, o sussistendone le condizioni, ai rimedi di natura possessoria[67].

Le distanze legali[68]

L’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è, salvo gli effetti dell’eventuale usucapione, imprescrittibile perché modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, essendo rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù[69]

La casistica giurisprudenziale ci dimostra come oltre alle ipotesi di passaggio sul fondo altrui, l’actio negatoria venga in concreto in rilievo con riferimento a costruzioni fra fondi attigui edificate a distanza inferiore a quella legale, nonché come già visto  in ipotesi di apertura di vedute illegali sul fondo vicino.

La domanda diretta a denunziare la violazione della distanza legale da parte del proprietario del fondo vicino e a ottenere l’arretramento della sua costruzione è funzionale alla tutela del diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e a impedirne tanto l’esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione.

Tale domanda deve essere trascritta ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c., norma che va interpretata estensivamente[70].

 

Tubature del gas

L’azione volta ad ottenere l’accertamento della inesistenza della servitù di apporre le tubature del gas sul muro perimetrale di un edificio e la conseguente condanna alla loro rimozione va proposta non nei confronti dell’utente del servizio di fornitura comproprietario del muro, che è privo di legittimazione passiva, ma nei confronti dell’ente erogatore del gas, quale proprietario del fondo dominante costituito dall’impianto di distribuzione[71].

 

Conduttura idrica

La domanda di rimozione di una conduttura idrica, che l’attore assume essere stata abusivamente installata sul proprio fondo da parte del proprietario di un fondo vicino, anche se accompagnata da richieste risarcitorie, va qualificata actio negatoria servitutis (avente come contraddittore il proprietario del preteso fondo dominante), e non azione di risarcimento del danno mediante reintegrazione in forma specifica, in quanto — per la natura della opera, tale da determinare, nel suo uso normale, l’asservimento del primo fondo al secondo — la domanda deve ritenersi intesa a difendere in prospettiva la libertà del fondo dall’acquisto per usucapione della corrispondente servitù[72].

Stenditoio

L’azione con la quale il proprietario di una terrazza chiede la rimozione di uno stenditoio, collocato nel confinante edificio ed aggettante sulla terrazza stessa con conseguenti immissioni (nella specie, «gocciolio di panni e creazione di ombra») deve essere qualificata come negatoria servitutis, ai sensi dell’art. 949 cod. civ., implicando i fatti posti in essere dal vicino l’affermazione di un diritto di natura reale sulla terrazza, il cui esercizio per il tempo prescritto dalla legge potrebbe comportare l’acquisto per usucapione della servitù[73].

Strada privata a servitù di uso pubblico

L’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico non elimina l’interesse del proprietario ad agire in negatoria servitutis nei confronti dei proprietari frontisti che abbiano aperto accessi diretti dai loro fondi su detta strada, in guisa da determinare un aggravamento dell’intensità del passaggio in ragione dell’utilizzo dei detti accessi non riconducibile al contenuto della servitù già esercitata uti civis[74].

Cancellazione d’ipoteca

La controversia inerente la cancellazione dell’ipoteca iscritta in virtù dei titoli cambiari, ha natura reale allorquando non venga in discussione l’esistenza del credito in forza del quale si è proceduto all’iscrizione dell’ipoteca ovvero l’obbligo di prestare la garanzia, dato che in tal caso l’azione proposta si configura come actio negatoria. Ha invece natura personale quando l’azione presupponga l’insussistenza di un valido negozio ipotecario cioè di un rapporto giuridico giustificativo della costituzione della garanzia, traducendosi non in un’actio negatoria sottesa alla dichiarazione di libertà dell’immobile ma in una richiesta di accertamento negativo della relativa obbligazione. In tal caso la competenza per territorio non può determinarsi alla stregua del forum rei sitae[75].

La legittimazione processuale attiva e passiva

Nelle azioni reali, di negatoria servitutis, la legittimazione processuale attiva spetta esclusivamente ai proprietari, e ai titolari di un diritto reale di godimento sul fondo servente, come espresso in una nota sentenza della S.C.[76].

Il conduttore, titolare di un diritto personale di godimento, non può esperire l’actio negatoria servitutis per eliminare un indebito esercizio da parte di un terzo (es. passaggio, ma può trattarsi anche di una veduta) su una porzione dell’immobile condotto in locazione.

Tale azione è infatti esclusiva del proprietario, dell’enfiteuta e dell’usufruttuario, ovvero di chi può vantare sul bene un diritto dominicale o di godimento in re aliena.

Il conduttore, come il comodatario, può solamente intervenire nel processo instaurato da uno dei predetti soggetti per aderire alla sua posizione, in quanto titolare di un interesse di fatto nella questione.

Il conduttore non può nemmeno essere convenuto in negatoria servitutis, essendo carente anche di legittimazione passiva.

L’actio negatoria servitutis può essere utilmente esperita anche soltanto da uno dei suoi comproprietari del fondo, senza che ciò comporti la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri[77]. In tema è opportuno riportarsi a quanto già detto per l’azione di rivendicazione[78].

Legittimato passivo è anche colui che si affermi proprietario della porzione immobiliare oggetto dell’azione pur non avendone il possesso, in quanto finalizzata a rimuovere una situazione che comporti una manomissione del godimento del fondo stesso[79] .

In merito a quella passiva è bene portare alcune pronunce della S.C. secondo le quali:

1)   L’azione negatoria tutela qualsiasi lesione del diritto del proprietario confinante, mirando a far cessare le manomissioni e gli sconfinamenti da parte del vicino. L’obbligo di far cessare le turbative e le molestie incombe anche su colui che, pur non avendo inizialmente posto in essere lo stato di cose in cui si sostanzia la violazione della proprietà altrui, si rende successivamente partecipe di tale violazione con un comportamento che implichi l’affermazione di un proprio diritto al mantenimento di quella situazione[80].

2)   L’azione negatoria della servitù, può essere esercitata non solo contro colui che vanti un preteso diritto configurabile come “ius in re aliena”, ma anche contro chi si affermi proprietario della porzione immobiliare oggetto dell’azione pur non avendone il possesso, in quanto finalizzata a rimuovere una situazione che comporti una manomissione del godimento del fondo stesso[81].

3)   L’actio negatoria servitutis, avendo carattere reale, non può portare al risultato che di essa costituisce lo specifico oggetto, cioè all’accertamento negativo dell’affermato diritto di servitù, senza la presenza in giudizio del legittimo contraddittore, che è il proprietario dell’altro fondo. Se all’affermazione di tale diritto di servitù si accompagnino turbative o molestie, può essere chiamato in giudizio, al fine del risarcimento dei danni, anche il possessore o detentore del fondo autore delle turbative o delle molestie: ciò però non significa che legittimato passivamente nella negatoria servitutis sia il detentore del fondo, sibbene che, insieme con l’accertamento negativo di diritto reale nei confronti del proprietario, può essere utilmente esercitata contro terzi un’azione personale che in quell’accertamento trovi il suo presupposto logico e giuridico[82].

4)   Quando il godimento completo del bene, cui si riferisce (in linea di vantaggio o di svantaggio) la contestata situazione di servitù, spetta non al proprietario, ma al titolare del diritto di usufrutto, al quale è assimilabile il concessionario di bene demaniale, a tale soggetto (usufruttuario o concessionario) si estende la legittimazione processuale, attiva e passiva, ai sensi dell’art. 1012, secondo comma, cod. civ., che, legittimando espressamente l’usufruttuario all’azione confessoria per la difesa della servitù costituita a favore del fondo, implica di per sé la legittimazione passiva alla negatoria (costituente l’aspetto negativo della confessoria), salvo l’onere (in base alla norma citata) di chiamare in causa il proprietario che, quindi, deve partecipare al giudizio come litisconsorte necessario dell’usufruttuario (o del concessionario)[83].

5)   Ai mezzadri, inquilini e titolari di altro diritto personale sulla cosa può riconoscersi soltanto un interesse di fatto che consente loro di intervenire in giudizio per sostenere le ragioni di una delle parti (come previsto dall’art. 105, secondo comma, cod. proc. civ.), ma non conferisce il potere di proporre impugnazione quando la parte legittimata abbia omesso di farlo[84].

6)   In tema di azioni negatorie e confessorie (servitutis) la legittimazione passiva dell’amministratore del condominio sussiste tutte le volte in cui sorga controversia sull’esistenza e sulla estensione di servitù prediali costituite a favore o a carico dello stabile condominiale nel suo complesso o di una parte di esso; invero, le servitù a vantaggio dell’intero edificio in condominio, contraddistinte dal fatto che l’utilitas da esse procurate accede allo intero stabile e non ai singoli appartamenti individualmente considerati, vengono esercitate indistintamente da tutti i condomini nel loro comune interesse, e, pertanto, pur appartenendo a costoro e non al condominio in quanto tale, posto che questo è privo di personalità giuridica, integrano un bene comune inerente alla sfera della rappresentanza processuale del suddetto amministratore, a norma del secondo comma dell’art. 1131 cod. civ. allorquando, invece, l’azione negatoria sia diretta a conseguire anche la rimozione di opere comuni, attraverso le quali la servitù venga esercitata, è necessaria la partecipazione al giudizio di tutti i condomini in quanto, in tale ipotesi, gli effetti di detta azione sono destinati a riflettersi sulle situazioni giuridiche dei singoli condomini considerati come espressioni di interessi individuali[85].

Per ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza 12 marzo 2020, n. 7040

in tema di “actio negatoria servitutis”, sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario allorché il fondo, nel quale sono state realizzate le opere di cui si chieda la rimozione, appartenga a più soggetti; ne deriva, in fase di appello, la inscindibilità delle cause, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., e, quindi, la necessità della partecipazione a tale fase di tutte le parti originarie, la quale deve essere verificata dal giudice del gravame preliminarmente ad ogni altra pronuncia, con l’emissione di un eventuale ordine d’integrazione del contraddittorio; in difetto, si determina la nullità, rilevabile di ufficio pure in sede di legittimità, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso.

Prescrizione

L’actio negatoria servitutis è azione imprescrittibile, con la conseguenza che il proprietario del preteso fondo servente può in ogni momento, e fatti salvi gli effetti dell’intervenuta usucapione, chiedere che venga accertata, per mancanza del titolo o del decorso del termine per l’usucapione, l’inesistenza di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali, giacché, diversamente opinando, si configurerebbe, di fatto, l’acquisto di una servitù in base al possesso decennale e non ventennale, come invece disposto dall’art. 1158 cod.civ.[86]

3) Azione di regolamento di confini

art. 950 c.c.   azione di regolamento di confini: quando il confine tra due fondi è incerto, ciascuno dei proprietari può chiedere che sia stabilito giudizialmente.

Ogni mezzo di prova è ammesso.

In mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali.

A)  La natura giuridica ed i presupposti

Tale azione è chiamata a risolvere un conflitto tra fondi, teso a individuare l’esatto tracciato della linea confinaria.

Il presupposto è quindi una situazione di incertezza,

1)   sia oggettiva (possesso promiscuo) che

2)   soggettiva, come quando il confine risulti ben delineato, ma un proprietario confinante sostenga non essere quello effettivo.

In poche parole, non è sufficiente una semplice inesattezza.

Difatti per la S.C.[87] l’azione di regolamento dei confini ha per oggetto la determinazione quantitativa delle rispettive proprietà dei contendenti, in base ai rispettivi titoli d’acquisto e presuppone una situazione di conflitto tra i fondi e quindi l’incertezza oggettiva o soggettiva dei confini.

Ne consegue che detta azione non è proponibile quando la situazione dei luoghi corrisponda all’effettiva consistenza delle proprietà confinanti in base ai rispettivi titoli di acquisto e la domanda sia diretta unicamente ad ottenere la correzione della linea di confine segnata sulle mappe catastali, e perciò all’attuazione di una operazione di carattere amministrativo e non giurisdizionale.

L’azione di regolamento di confini, che si configura come una vindicatio incertae partis in quanto sia all’attore che al convenuto incombe l’onere di allegare e fornire qualsiasi mezzo di prova idoneo all’accertamento della esatta linea di confine, non presuppone necessariamente l’esistenza di una linea di confine tra due fondi, in quanto l’incertezza alla cui eliminazione è diretta può derivare tanto dalla mancanza di qualsiasi limite (cosiddetta incertezza oggettiva), quanto dalla contestazione del confine esistente (cosiddetta incertezza soggettiva).

La natura dell’azione non muta quando insieme alla determinazione del confine l’attore chieda il rilascio di una zona determinata di terreno, compresa nel suo confine e tenuta in possesso dal convenuto[88].

Difatti, per altra massima della S.C.[89], nel giudizio di regolamento di confini può proporsi la richiesta di rilascio di una zona compresa tra i due fondi contigui ove il possesso di essa da parte del convenuto derivi da mera incertezza dei confini (si ripete, incertezza oggettiva dovuta alla promiscuità del possesso della zona confinaria o anche incertezza meramente soggettiva, come nel caso in cui si contesti che il confine apparente corrisponda a quello reale), senza che tale richiesta snaturi l’azione proposta trasformandola in rivendicazione, perché l’effetto recuperatorio è soltanto una conseguenza dell’accertamento del confine.

Tuttavia, se l’attore assuma che la superficie del fondo da lui in concreto posseduta sia inferiore a quella indicata nel proprio titolo d’acquisto e denunci lo sconfinamento del vicino, il quale contesti quanto dedotto dall’attore invocando, a sua volta, il proprio titolo d’acquisto, il conflitto non è più tra fondi, ma tra titoli, con la conseguenza che l’attore è soggetto all’onere probatorio proprio dell’azione di rivendicazione.

L’azione di regolamento di confini non perde, quindi, la natura dichiarativa e ricognitiva neppure nel caso in cui l’eliminazione di quell’incertezza comporti l’obbligo del rilascio di una porzione indebitamente posseduta[90].

Recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 11 luglio 2016, n. 14131

ha avuto modo di precisare che l’azione di regolamento di confini mira ad un accertamento qualificato e all’eventuale recupero della porzione di terreno illegittimamente occupata, non gia’ (in assenza di altra e specifica domanda altrimenti basata) ad impone all’uno o all’altro dei confinanti il compimento di opere, provvisionali o definitive, intese ad evitare smottamenti del terreno o a consentirne lo sfruttamento edilizio. Pertanto, la circostanza che uno dei confinanti abbia illegittimamente inglobato nel proprio dominio una porzione di terreno appartenente all’altro, attraverso la realizzazione di un muro (sia esso di contenimento o di fabbrica) di cui si renda necessaria, ai fini recuperatori, la demolizione, non implica il diritto dell’altra parte di ottenere la ricostruzione del medesimo muro in corrispondenza della linea di confine accertata.

Ancora, secondo ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 9 agosto 2018, n. 20691.

l’azione di regolamento di confini si configura come una “l’indicatio duplex incertae partis” nel senso che, ai fini dell’incidenza probatoria, la posizione dell’attore e quella del convenuto sono sostanzialmente eguali, incombendo a ciascuno di essi di allegare e fornire qualsiasi mezzo di prova idoneo all’individuazione dell’esatta linea di confine, mentre il giudice svincolato dal principio “actore non probante reus absolvitur” – ha un amplissimo potere di scelta e valutazione dei mezzi probatori acquisiti al processo, salvo, nell’ipotesi di mancanza di prove o di inidoneita’ delle prove disponibili, il ricorso alle indicazioni delle mappe catastali. In ogni caso la prima indagine che il giudice e’ tenuto a compiere e’ quella volta ad accertare se sussista nei titoli l’univocita’ relativa al confine e se essi forniscano elementi, anche indiretti, atti a consentire l’eliminazione della denunciata situazione di incertezza.
In particolare occorre osservare che, in tema di regolamento di confini, il ricorso al sistema di accertamento configurato dalle mappe catastali e’ sussidiario ed e’ consentito nel caso di mancanza assoluta ed obiettiva di altri elementi, nonche’ nel caso che questi, per la loro consistenza o per ragioni relative alla loro attendibilita’, risultino comunque inidonei alla determinazione certa del confine (Cass. 30 dicembre 2009 n. 28103).
Occorre, altresi’, aggiungere – sempre quale principio generale che per questa Corte la regola stabilita dall’articolo 950 c.c., ultimo comma, trova applicazione anche nel caso in cui all’accertamento del confine si proceda in via incidentale, ai fini della verifica del rispetto delle distanze, fuori del tipico processo di regolamento di confini previsto nel citato articolo (Cass. 9 novembre 1978 n. 5132; Cass. 6 maggio 1988 n. 3379; piu’ di recente: Cass. 19 aprile 2013 n. 9652).

Sul punto, la Cassazione

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 25 agosto 2020, n. 17721.

ha avuto modo di ribadire in via generale, non paga delle precedenti pronunce, che nell’azione di regolamento di confini, tesa a determinare estensione e configurazione di fondi contigui la cui linea di demarcazione sia ormai incerta, la prova può fornirsi con qualsiasi mezzo e il giudice può fissare il confine anche basandosi sugli elementi che gli appaiano attendibili.

È pacifico, come supportato da più pronunce[91], che, l’art. 950 cod. civ. — prevedendo che ciascuno dei proprietari possa chiedere che sia giudizialmente stabilito l’incerto confine tra due fondi e disponendo il ricorso all’uopo, in mancanza di altri elementi, alle mappe catastali — si riferisce non solo ai terreni rustici, ma anche a quelli urbani (ma come già sottolineato di difficile realizzazione), edificati o non, essendo la parola «fondo» indicativa dell’unità immobiliare come area suscettibile di tutte le sue possibili utilizzazioni.

In relazione ai presupposti si rilevare che la contiguità dei beni, rispetto ai quali si pone la questione del regolamento di confini, costituisce elemento indispensabile. Non è perciò ammissibile la domanda di regolamento di confini allorché risulti che i fondi in contestazione siano separati da una strada pubblica, anche se il convenuto abbia arbitrariamente occupato il sedime di detta strada pubblica con mucchi di detriti e con colture abusivamente immesse, giungendo, altresì, all’occupazione di parte del fondo dell’attore, poiché, in tal caso, diversi sono i rimedi offerti dall’ordinamento, potendosi reagire a tale situazione con un’azione possessoria ovvero con la rivendicazione, né le relative doglianze possono ritenersi comprese in una domanda di regolamento di confini[92] .

  • La natura

Si tratta di un’azione avente natura reale e petitoria anch’essa imprescrittibile[93] a meno che non venga eccepita l’usucapione, non mi stancherò mai si sottolinearlo.

L’eccezione di usucapione sollevata da parte del convenuto con l’azione di regolamento di confini non è ammissibile nel caso in cui l’incertezza del confine abbia carattere oggettivo, il che si verifica nell’ipotesi di promiscuità del possesso nella zona confinaria, situazione che di per sé è incompatibile con l’esclusività del possesso quale requisito necessario per usucapire, ma è proponibile soltanto nel caso di incertezza soggettiva, riscontrabile laddove l’attore sostenga che il confine apparente non è quello esatto, per avere il vicino usurpato ai suoi danni la zona confinaria adiacente[94] .

B)  Il rapporto con l’azione di rivendica

Il discrimen con l’azione di rivendica risiede proprio sul presupposto, vale a dire quest’ultima non concerne un conflitto tra fondi, ma semmai tra titoli.

L’azione di rivendica presuppone un conflitto di titoli determinato dal convenuto il quale oppone a suo favore un titolo (anche non negoziale) diverso da quello su cui l’attore fonda la sua istanza. Nell’azione di regolamento di confini, invece il conflitto è tra i fondi, in quanto il convenuto deduce che in forza del titolo dedotto dall’attore e del titolo di proprietà del fondo a lui appartenente, il confine è diverso, senza che rilevi l’effetto recuperatorio di detta domanda, che consegue all’eliminazione del preesistente stato di incertezza sui confini[95].

L’eccezione del convenuto con azione di regolamento di confini di avere usucapito il terreno in contestazione non snatura l’azione proposta trasformandola in rivendicazione, giacché il convenuto con quell’eccezione non contesta l’originario titolo del diritto di proprietà della controparte, ma si limita ad opporre una situazione sopravvenuta, idonea, se riconosciuta fondata, ad eliminare la dedotta incertezza del confine[96].

C)  La legittimazione processuale attiva e passiva

La legittimazione processuale attiva e passiva spetta esclusivamente ai proprietari.

Difatti secondo una pronuncia della S.C. [97], legittimati ad agire e a resistere nell’azione di regolamento di confini sono solo i titolari (proprietari) dei fondi confinanti, relativamente ai quali si pretende stabilire l’esatta demarcazione del confine, e ciò anche nel caso in cui per tale demarcazione sia necessario l’esame di titoli di acquisto di soggetti diversi dai contendenti, giacché nessun altro soggetto, al di fuori dei titolari dei fondi il cui confine deve essere regolato, rimane o può rimanere coinvolto nel giudicato che regola tra costoro il confine.

In un caso particolare si è affermato che il titolare di una servitù di passaggio è legittimato a proporre azione per il regolamento di confini in una fattispecie in cui lo spostamento del confine aveva limitato l’esercizio della servitù restringendo il passaggio che si esercitava anche sulla parte del fondo oggetto della pretesa del convenuto[98].

Il proprietario di un terreno che sia confinante con una pluralità di fondi altrui può esperire l’azione di regolamento al limitato scopo di risolvere l’incertezza della linea di demarcazione con uno soltanto di detti fondi altrui, senza che insorga necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti dei proprietari degli altri fondi [99].

Se i fondi confinanti appartengono a più proprietari non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario e ciascuno dei comproprietari è legittimato ad agire o resistere senza l’intervento degli altri, a meno che, alla domanda di regolamento, si accompagni la richiesta di rilascio o di riduzione in pristino della parte di fondo che si ritiene usurpata in conseguenza dell’incertezza oggettiva soggettiva dei confini.

Detto principio non trova deroga nel caso di appartenenza dei fondi di cui sia incerto il confine coniugi in regime di comunione legale, posto che l’azione diretta al suo regolamento, non implicando la soluzione di un conflitto tra titoli di proprietà, non comporta alcun apprezzamento sull’esistenza dell’unico e inscindibile rapporto giuridico di cui i coniugi sono titolari in relazione al loro fondo[100] .

Trova, invece, deroga se l’azione di regolamento dei confini contiene anche una domanda di riduzione in pristino dei luoghi che si ritengono usurpati allora ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra i proprietari, così come affermato da ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 2 dicembre 2013 n. 27041

secondo la quale, appunto, nell’azione di regolamento di confini, diretta ad ottenere una sentenza meramente dichiarativa, se i fondi confinanti appartengono a più proprietari non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario e ciascuno dei comproprietari è legittimato ad agire o resistere senza l’intervento degli altri, a meno che, alla domanda di regolamento, si accompagni la richiesta di rilascio o di riduzione in pristino della parte di fondo che si ritiene usurpata in conseguenza dell’incertezza oggettiva o soggettiva dei confini

D)  Gli oneri ed i mezzi probatori

La controversia tra proprietari confinanti in cui, senza porre in discussione i titoli di proprietà, si dibatta esclusivamente sulla estensione dei rispettivi fondi va qualificata come regolamento di confini, con l’effetto che l’onere della prova, diversamente da quanto avviene nel giudizio di rivendica (come già enunciato), incombe su entrambe le parti e che il giudice, se esso non è compiutamente assolto, è comunque tenuto a provvedere nel merito, indicando il confine come delineato nelle mappe catastali[101].

In tema da ultimo è intervenuta la S.C.

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 21 novembre 2012, n. 20556

confermando i seguenti principi, ovvero: solo la mancanza o la insufficienza di indicazioni specifiche, desumibili dai rispettivi titoli di provenienza, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, rivestendo, nella relativa indagine, importanza fondamentale il tipo di frazionamento allegato ai singoli atti di acquisto ed in essi richiamato con valore negozialmente vincolante (Cass. 5-7-2006 n. 15304; Cass. 15-7-2002 n. 10234; Cass. 17-5-2001 n. 6770). In materia di regolamento di confini, pertanto, l’elemento primario di prova per l’individuazione dei confine è rappresentato dal tipo di frazionamento allegato ai contratti, che, quale elemento interpretativo della volontà negoziale, non lascia margini di incertezza nella determinazione della linea di confine tra i fondi (Cass. 1-12-2000 n. 15386). In particolare, è stato puntualizzato che le schede di accatastamento fatte redigere appositamente da un tecnico e riproducenti planimetricamente in scala, nella sua consistenza ed estensione, un immobile non ancora censito in catasto, sono, di norma, dirette ad individuare il bene compravenduto o assegnato e, pertanto, se assunte quali parti integranti dell’atto contrattuale cui vengono allegate, sono da considerare non come semplici dati catastali con valore soltanto indiziario e sussidiario, ma come fonti dei dati medesimi, come tali idonee a determinare l’oggetto materiale del negozio (Cass. 28-11-1996 n. 10611).

Per altra recente Cassazione

Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 novembre 2014, n. 23695

in tema di azione di regolamento di confini, per l’individuazione della linea di separazione fra fondi limitrofi la base primaria dell’indagine del giudice di merito e’ costituita dall’esame e dalla valutazione dei titoli d’acquisto delle rispettive proprieta’; solo la mancanza o l’insufficienza di indicazioni sul confine rilevabile dai titoli, ovvero la loro mancata produzione, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, ivi comprese le risultanze delle mappe catastali (Cass. 9-10-2006 n. 21686; Cass. 15-11-2007 n, 23720; Cass. 6-5-2013 n. 10501).

Inoltre, si legge nella sentenza in commento che il tipo di frazionamento, se espressamente richiamato nel titolo, concorre all’individuazione dell’immobile senza bisogno di particolari espressioni ne’ di apposita sottoscrizione; trattandosi di documento redatto proprio allo scopo di individuare una determinata area, e’ sufficiente il semplice richiamo che ad esso venga fatto nel titolo, per ritenere che le parti, anche senza sottoscrivere il documento ne’ indicare nel titolo la finalita’ del richiamo, abbiano inteso far riferimento a quel determinato bene (Cass. 7-2-2008 n. 2857; Cass. 26-1-1998 n. 711).

Anche se avendo il giudice un ampio potere di scelta e di valutazione dei mezzi probatori acquisiti al processo, in ordine ai quali il ricorso alle indicazioni delle mappe catastali costituisce un sistema di accertamento di carattere meramente sussidiario, al quale, cioè, si pone riferimento solo in assenza di altri elementi idonei alla determinazione del confine[102].

La prova della suddetta estensione e configurazione può essere data con ogni mezzo, e il giudice, dato il carattere di vindicatio duplex incertae partis dell’azione medesima, è del tutto svincolato dal principio actore non probante reus absolvitur, dovendo, invece, determinare il confine in relazione a quegli elementi che gli sembrano attendibili[103].

          Pertanto ai fini di detta determinazione, se va data prevalenza agli atti traslativi della proprietà, in quanto contenenti utili indicazioni sull’estensione dei fondi confinanti, è peraltro utilizzabile ogni mezzo istruttorio, anche di carattere tecnico e preventivo e persino la prova testimoniale (fermo il vaglio dell’ammissibilità e della concludenza della medesima), avendo le risultanze catastali, ai sensi del terzo comma dell’art. 950 cod. civ., valore meramente sussidiario[104].

Inoltre[105], qualora si tratti di fondi appartenenti originariamente come unico appezzamento ad un solo proprietario, deve necessariamente farsi riferimento agli atti di frazionamento allegati ai contratti di vendita o di divisione, quando dalle misure ivi contenute possono essere desunti elementi idonei ad individuare con esattezza la linea di confine tra le due proprietà.

In merito poi alle preclusioni ed all’onere probatorio va necessariamente coordinato con il principio della disponibilità delle prove sancito dall’art. 115 cod. proc. civ., in forza del quale il giudice non può disporre d’ufficio, oltre i limiti di cui agli artt. 117, 118, primo comma, 191 e 219 cod. proc. civ., l’acquisizione al processo di elementi probatori non offerti o richiesti dalle parti. Da ciò deriva che il giudice, mentre può eseguire ispezione dei luoghi e disporre consulenza tecnica, non può ordinare alle parti la produzione dei rispettivi titoli di acquisto e, così pure, il consulente tecnico nominato, mentre può consultare gli atti del catasto e acquisire, ai sensi dello art. 213 cod. proc. civ., le planimetrie catastali, non può prendere in esame, neppure se ne abbia appreso gli estremi attraverso dette consultazioni, i titoli di acquisto dei fondi non prodotti in giudizio dalle parti[106].

Come enunciato, l’art. 950 cod. civ. consente al giudice di ricorrere al sistema di accertamento mediante le mappe catastali soltanto in via sussidiaria, in caso cioè di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo. Secondo la S.C.[107] l’anzidetto principio risulta pertanto violato nel caso in cui il giudice fondi la propria decisione esclusivamente sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, basata, a sua volta, esclusivamente sulla rispondenza della situazione dei luoghi alle mappe catastali, in guisa da considerare queste ultime prevalenti sulle prove testimoniali richieste dalla parte.

E)   Le convenzioni tra proprietari ed il loro valore

Il regolamento di confine può essere effettuato anche mediante un accordo tra i proprietari interessati, inquadrabile nell’ambito dei negozi di accertamento  e che ha valore di prova tra le parti.

Per la S.C.[108] le convenzioni fra i proprietari di fondi contigui con le quali senza alcun contrasto si riconosca e determini l’esatto confine fra i fondi stessi in base ai relativi titoli d’acquisto, avendo il solo scopo di eliminare una situazione d’incertezza, rivestono, per il loro contenuto esclusivamente dichiarativo, il carattere di negozi di accertamento e, pertanto, non sono soggetti al requisito della forma scritta e possono provarsi per testimoni. Per contro, qualora le parti, non concordano sulla linea di confine, si rivolgono ad un terzo in funzione di perito contrattuale od arbitratore, cui conferiscono l’incarico anche di assegnare la zona marginale controversa, l’accettazione configura un negozio che non ha più funzione meramente dichiarativa, ma traslativa o transattiva, di guisa che riguardando diritti reali immobiliari, ove non venga tradotto in forma scritta ex art. 1350 cod. civ., è privo di valore e non preclude la proponibilità dell’azione di regolamento di confini.

La Corte di Cassazione[109], inoltre, ha affermato che il negozio di accertamento costituisce una figura caratterizzata dall’intento di imprimere certezza giuridica a un precedente rapporto – al quale si collega – al fine di precisarne l’esistenza, il contenuto e gli effetti, rendendo definitive e immutabili situazioni di obiettiva incertezza e vincolando le parti ad attribuire al preesistente rapporto gli effetti risultanti dall’accertamento. In particolare, il negozio di accertamento, con cui si riconosca e determini l’esatta confinazione tra fondi contigui, non è soggetto a forma scritta: esso può perfezionarsi, pertanto, anche verbalmente, o mediante attuazione (cosiddetto comportamento comportamento concludente) idonea a realizzare immediatamente la volontà delle parti.

L’accertamento dei confini può essere implicito o espresso.

Nel primo senso si è affermato che l’incertezza sul confine tra due fondi può essere eliminata anche mediante un negozio di accertamento per facta concludentia, come nel caso in cui i proprietari dei fondi limitrofi erigano, d’accordo tra loro, una rete metallica per delimitarli[110] .

4) Apposizioni di termini

art. 951 c.c.   azione per apposizione di termini: se i termini tra fondi contigui mancano o sono diventati irriconoscibili, ciascuno dei proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni.

 

L’azione non presuppone l’incertezza sul confine e mira, piuttosto, a soddisfare l’interesse del proprietario all’apparenza di tale confine, per farlo risultare mediante segni idonei.

A)  La natura giuridica

L’azione per apposizione di termini ha carattere personale[111], presupponendo che il confine sia certo e determinato (ab initio o per intervenuta sentenza di regolamento di confini) e tendendo solo a renderlo visibile e riconoscibile, attraverso l’esecuzione di una prestazione consistente nell’obbligo, posto dall’art. 951 c.c., a carico del proprietario del fondo contiguo, di apporre o ristabilire a spese comuni con il richiedente i segni indicativi dei termini tra i due immobili.

Ne consegue, ad esempio, che la pronunzia su tale azione è priva di efficacia nei confronti del successore a titolo particolare della parte, che sia ad essa subentrato dopo la definizione del giudizio.

Mentre l’azione proposta per ottenere il ricollocamento dei segni di confine contro l’autore della illecita demolizione e rimozione di essi non è la tipica azione per apposizione di termini, data nei confronti del proprietario vicino per ottenere il concorso nella spesa per l’apposizione o il ristabilimento dei termini di confine tra fondi contigui, bensì una mera azione personale di risarcimento del danno da fatto illecito mediante la reintegrazione in forma specifica[112].

Sul punto è intervenuta anche ultima Cassazione

Corte di Cassazione, sezione VI civile, sentenza 7 settembre 2016, n. 17739

la quale ha affermato nuovamente che:

Il diritto, riconosciuto dall’articolo 951 c.c., a ciascuno dei confinanti, di richiedere che il confine sia delimitato a spese comuni si riferisce alle spese per l’apposizione materiale dei termini e non alle spese del procedimento instaurato ai sensi della stessa norma.

L’azione di cui all’articolo 951 c.c., che ha carattere personale, presuppone un confine certo o accertato dal giudice, sicche’ non comporta alcun contenzioso tra le parti, le quali sono tenute in ogni caso a concorrere in misura paritaria alle spese di apposizione dei termini.

Mentre, nel giudizio di regolamento di confini, deve considerarsi soccombente, al fine dell’attribuzione dell’onere delle spese, la parte le cui pretese o inutili resistenze siano state disattese.

B)  Il rapporto con l’azione di regolamento di confine

La differenza tra azione per apposizione di termini e quella di regolamento di confini risiede nel fatto che mentre nella prima il confine tra i due fondi è certo ed incontestato e si vuole soltanto apporvi, perché mancanti o divenuti irriconoscibili, i segni di delimitazione, al fine di evitare possibili sconfinamenti o usurpazioni, nella seconda, invece, pur prescindendo da ogni contestazione circa il diritto di proprietà risultante dai titoli, vi è incertezza in ordine alla linea di demarcazione tra fondi limitrofi, il cui accertamento viene rimesso al giudice[113].

Anche se, per altra massima[114], in realtà l’azione di apposizione di termini contiene in sé, implicitamente, l’azione di regolamento di confini: ove il convenuto aderisca all’indicazione dei confini contenuti nella domanda avversa, allora il thema decidendum resta limitato al punto relativo all’obbligo di creare o ripristinare a spese comuni i segni esteriori del confine; se, invece, il convenuto contesti la indicazione dei confini dati dall’attore, allora detto thema si sviluppa in tutta la sua implicita estensione, già potenzialmente compresa nell’atto introduttivo, e si ha un’azione per regolamento di confini.

Principio confermato in altra sentenza[115] secondo la quale il carattere personale dell’azione per apposizione di termini, distinta da quella reale di regolamento di confini, non osta a che la prima possa essere esplicitamente od implicitamente inserita nella controversia promossa con la seconda, quale pretesa accessoria e consequenziale, in una situazione in cui non solo manchi un confine certo e determinato, ma difettino anche segni esteriori del confine stesso.


NOTE

[1] Corte di Cassazione, sentenza del 19-9-85, n. 4704.

[2] Corte di Cassazione, sentenza del 10-4-76, n. 1262.

[3] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 7777 del 14-4-2005. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che, non avendo i ricorrenti allegato che il bene fosse nel possesso della controparte, aveva escluso la finalità recuperatoria e qualificato la domanda proposta come azione di accertamento del diritto di proprietà

[4] Corte di Cassazione, sentenza del 14-7-83, n. 4824.

[5] Corte di Cassazione, sentenza del 14-7-83, n. 4824

[6] Corte di Cassazione, sentenza del 26-6-91, n. 7162

[7] Corte di Cassazione, sentenza del 26-4-94, n. 3947

[8] Corte di Cassazione, sentenza del 30-11-87, n. 8895 e cfr. Corte di Cassazione, sentenza del 2-3-78, n. 1051 e Corte di Cassazione, sentenza del 27-1-97, n. 808

[9] Trib. Bari, Sez. III, 16/02/2010

[10] In tal senso Cass. sez. II, 26.2.2007, n. 4416, che ha affermato i suesposti principi in un caso analogo a quello in esame, relativo ad un’azione di rilascio di immobile alla quale parte convenuta aveva contrapposto domanda riconvenzionale per far dichiarare l’intervenuta usucapione

[11] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27/01/2009, n. 1929

[12] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27/02/2001, n. 2908

[13] Corte di Cassazione, sentenza del 26-6-91, n. 7162.

[14] Corte di Cassazione, sentenza del 26-4-94, n. 3947 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 3-5-91, n. 4836).

[15] Pertanto, ove il convenuto in rivendicazione non contesta il diritto di proprietà del rivendicante sul fondo, quale risulta dal titolo, ma vi opponga un dominio utile, vale a dire un potere di godimento come enfiteuta, il tema del decidere ed il correlativo onere probatorio verte solo sull’esistenza di questo potere, con la conseguenza, ove esso sia dimostrato inesistente, dell’accoglimento della domanda di rivendicazione della proprietà piena del fondo. Corte di Cassazione, sentenza del 11-11-86, n. 6592.

[16] Corte di Cassazione, sentenza del 23-2-81, n. 1098 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 6-12-69, n. 3909).

[17] Corte di Cassazione, sentenza del 4-3-97, n. 1925. Nella specie la S.C. ha annullato la sentenza impugnata, che non aveva compiuto alcun effettivo accertamento circa l’esistenza di una situazione possessoria in capo agli attori e ai loro danti causa, impropriamente valorizzando a tal fine un atto di divisione e una successiva attribuzione testamentaria

[18] Corte di Cassazione, sentenza del 26 febbraio 2007, n. 4416

[19] Corte di Cassazione, sentenza del 22418 del 29-11-2004. Inoltre, per altra Cassazione, il rigore della regola secondo cui chi agisce in rivendicazione deve provare la sussistenza del proprio diritto di proprietà o di altro diritto reale sul bene anche attraverso i propri danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario o dimostrando il compimento dell’usucapione, non riceve attenuazione per il fatto che la controparte proponga domanda riconvenzionale ovvero eccezione di usucapione, in quanto chi è convenuto nel giudizio di rivendicazione non ha l’onere di fornire alcuna prova, potendo avvalersi del principio «possideo quia possideo», anche nel caso in cui opponga un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, dal momento che tale difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa. posizione di possessore Corte di Cassazione, sentenza del 11555 del 17-5-2007.

[20] Corte di Cassazione, sentenza del 8-7-89, n. 3234 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 21-6-77, n. 2617 e Corte di Cassazione, sentenza del 18-6-91, n. 6888).

[21] Corte di Cassazione, sentenza del 8-8-79, n. 4633.

[22] Corte di Cassazione, sentenza del 11-6-71, n. 1781.

[23] Corte di Cassazione, sentenza del 13-4-87, n. 3669  (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 15-4-87, n. 3724).

[24] Corte di Cassazione, sentenza del 11-8-90, n. 8207 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 11-8-90, n. 8220).

[25] Corte di Cassazione, sentenza del 8-6-68, n. 1756.

[26] Corte di Cassazione, sentenza del 29-7-2004, n. 14395.

[27] Corte di Cassazione, sentenza del 28-4-86, n. 2933 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del. 19-9-95, n. 9900).

[28] Corte di Cassazione, sentenza del 5-4-84, n. 2212.

[29] Corte di Cassazione, sentenza del 22-12-67, n. 3009.

[30] Corte di Cassazione, sentenza del 13-7-87, n. 6111.

[31] Corte di Cassazione, sentenza del 7-4-2000, n. 4349.

[32] Corte di Cassazione, sentenza del 29-1-81, n. 694 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 4-7-79, n. 3807).

[33] Corte di Cassazione, sentenza del 20-12-85, n. 6557.

[34] Corte di Cassazione, sentenza del 20-10-84, n. 5304.

[35] Corte di Cassazione, sentenza del 10557 del 2-8-2001.

[36] Corte di Cassazione, sentenza del 6-4-87, n. 3327.

[37] Corte di Cassazione, sentenza del 7-9-85, n. 4650.

[38] Corte di Cassazione, sentenza del 10-3-86, n. 1599.

[39] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 14765 del 3 settembre 2012. Per la lettura del testo integrale aprire il seguente collegamento

  Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 14765 del 3 settembre 2012

[40] Corte di Cassazione, sentenza del 5-10-83, n. 5799.

[41] Corte di Cassazione, sentenza del 21-5-73, n. 1459.

[42] Corte di Cassazione, sentenza del 10-2-84, n. 1018.

[43] Corte di Cassazione, sentenza del 6-5-94, n. 4421.

[44] Corte di Cassazione, sentenza del 14-2-87, n. 1613.

[45] Corte di Cassazione, sentenza del 27-2-69, n. 648.

[46] Corte di Cassazione, sentenza del 9-9-97, n. 8748.

[47] Corte di Cassazione, sentenza del 16-5-83, n. 3361.

[48] Corte di Cassazione, sentenza del 8-6-68, n. 1763.

[49] Corte di Cassazione, sentenza del 3-12-88, n. 6547.

[50] Corte di Cassazione, sentenza del 28-1-95, n. 1044.

[51] Corte di Cassazione, sentenza del 18-10-74, n. 2921.

[52] Corte di Cassazione, sentenza del 15-4-87, n. 3722.

[53] Corte di Cassazione, sentenza del 24-2-92, n. 2255.

[54] Per un maggior approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento

  Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss c.c.

[55] Corte di Cassazione, sentenza del 5-8-2005, n. 16495. Per ultimissima sentenza di merito, Tribunale L’Aquila, civile, sentenza 25 maggio 2012, n. 409,   l’azione negatoria servitutis tende alla negazione di qualsiasi diritto, anche dominicale, affermato dal terzo sulla cosa dell’attore, e dunque non soltanto all’accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù, ma anche al conseguimento della cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dal vicino, al fine di ottenere la libertà del fondo. In ciò l’azione suddetta si differenzia dall’azione di rivendicazione caratterizzata, ed avente presupposto, in un eventuale conflitto tra titoli (nella specie non ravvisabile), tale che nella prima ipotesi l’onere della prova che grava sull’attore è meno rigoroso che nel secondo tipo di azione, essendo sufficiente provare l’esistenza del titolo di proprietà. Invero, la parte che agisce con l’actio negatoria servitutis non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo, ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido, incombendo, invece sul convenuto, l’onere di provare la esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore. Nella fattispecie, mentre il convenuto non contesta la titolarità del diritto di proprietà di uno degli attori, che nei diversi atti posti in essere fra le parti si qualificava come unico proprietario del bene, gli altri attori non hanno fornito alcuna prova del titolo di proprietà a loro favore, limitandosi alla produzione di una visura catastale, che non costituisce prova della proprietà del bene, per cui deve ritenersi provata, sulla base del principio di non contestazione, esclusivamente la proprietà del primo di essi.

[56] ex multis: App. Napoli 27 gennaio 2011, n. 193; Corte di Cassazione, sentenza del 8 marzo 2010, n. 5569;  Corte di Cassazione, sentenza del 28 agosto 2002, n. 12607.

[57] Corte di Cassazione, sentenza del  8-3-2010, n. 5569.

[58] Corte di Cassazione, sentenza del del 11-2-2009, n. 3389.

[59] Corte di Cassazione, sentenza del 25-3-99, n. 2838 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 22-3-2001, n. 4120, rv. 545017).

[60] Corte di Cassazione, sentenza del 23-3-99, n. 2982 e Corte di Cassazione, sentenza del 18-8-03, n. 12091

[61] Corte di Cassazione, sentenza del 25-3-99, n. 2838; Corte di Cassazione, sentenza del 22-3-01; Cass. 23-1-2007, n. 1409

[62] Corte di Cassazione, sentenza del 16-1-87, n. 284 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 26-1-82, n. 504)

[63] Corte di Cassazione, sentenza del 28-11-88, n. 6412  (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 8-6-83, n. 3942 e Corte di Cassazione, sentenza del 13-7-87, n. 6111). Il principio che le annotazioni catastali hanno la limitata efficacia di elementi presuntivi, che possono essere vinti da prove contrarie, vale anche in tema di azione negatoria. Pertanto, gli estratti catastali non possono essere considerati prova sufficiente del contestato titolo dominicale, condizione remota dell’azione negatoria. Corte di Cassazione, sentenza del 24-1-69, n. 221.

[64]  Per un maggior approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento

Luci e vedute

[65] Corte di Cassazione, sentenza del 21-1-2000, n. 649.

[66] Corte di Cassazione, sentenza del  14-2-2002, n. 2159.

[67] Corte di Cassazione, sentenza del 15-12-2003, n. 19182.

[68] Per un maggior approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento

 Le distanze tra le costruzioni ex artt. 873 e ss c.c.

[69] Corte di Cassazione, Sezione II civile, sentenza 23 gennaio 2012, n. 871.  In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 26 gennaio 2000, n. 867, Cassazione civile, Sez. II, sentenza 19 agosto 2002, n. 12241.

[70] Cass. civ., Sez. Un., 12 giugno 2006, n. 13523

[71] Corte di Cassazione, sentenza del 19-5-2006, n. 11784.

[72] Corte di Cassazione, sentenza del 15-6-82, n. 3637.

[73] Corte di Cassazione, sentenza del 30-3-89, n. 1561.

[74] Corte di Cassazione, sentenza del 18-1-95, n. 509.

[75] Corte d’Appello L’Aquila, civile, sentenza 21 marzo 2012, n. 250

[76] Corte di Cassazione, sentenza del 12-8-2002, n. 12169.

[77] Corte di Cassazione, sentenza del 22-5-95, n. 5612.

[78]  Vedi pag. 23

[79] Corte di Cassazione, sentenza del 23 gennaio 2009, n. 17789

[80] Corte di Cassazione, sentenza del 16-10-68, n. 3312.

[81] Corte di Cassazione, sentenza del 23-1-2009, n. 1778.

[82] Corte di Cassazione, sentenza del 14-3-72, n. 743.

[83] Corte di Cassazione, sentenza del 29-1-83, n. 819.

[84] Corte di Cassazione, sentenza del 27-5-87, n. 4744.

[85] Corte di Cassazione, sentenza del 6-12-84, n. 6396.

[86] Corte di Cassazione, sentenza del 26-1-2000, n. 864.

[87] Corte di Cassazione, sentenza del 27-6-88, n. 4335.

[88] Corte di Cassazione, sentenza del 11-11-86, n. 6594 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 21-3-77, n. 1089e Corte di Cassazione, sentenza del 20-11-81, n. 6186).

[89] Corte di Cassazione, sentenza del 3-5-93, n. 5114. Inoltre è correttamente qualificata actio finium regundorum, e non rivendica, l’azione proposta dal proprietario che, pur in presenza di un confine apparente, ne deduca l’incertezza per intervenuta usurpazione di una porzione del proprio terreno da parte del vicino, e chieda, per l’effetto, un accertamento giudiziale della superficie dei fondi confinanti senza porre in discussione i titoli di proprietà, dovendosi ritenere del tutto irrilevante, al riguardo, che l’accertamento della proprietà di una delle parti sulla porzione di fondo controversa comporti anche un (inevitabile) effetto recuperatorio della proprietà stessa quale mera conseguenza dell’esperimento della detta azione, la cui finalità è soltanto quella di eliminare l’incertezza e le contestazioni relative alla linea divisoria, prescindendo da ogni controversia sui titoli. Del tutto irrilevante risultano, ancora, tanto la proposizione di una eccezione di usucapione da parte convenuta (attesane la inidoneità a trasformare, ex se, la controversia in tema di confini in azione di rivendica), quanto il rilievo che il preesistente confine non sia stato alterato da fattori esterni, quale l’opera dell’uomo, bensì da agenti naturali (non rinvenendosi alcuna ragione logico-giuridica per condizionare la disciplina normativa applicabile alla variabile natura delle cause dell’incertezza del confine materiale). Corte di Cassazione, sentenza del. 27-5-97, n. 4703.

[90]  Corte di Cassazione, sentenza del 9 ottobre 1996, n. 8822;  Corte di Cassazione, sentenza del 1 dicembre 1997, n. 12139;  Corte di Cassazione, sentenza del 18 aprile 1994, n. 3663; Trib. Bologna 11 maggio 1995.

[91]   Corte di Cassazione, sentenza del 28-1-83, n. 801.

[92] Corte di Cassazione, sentenza del 25 marzo 1978, n. 1451

[93] L’azione di regolamento di confini, avendo natura reale e petitoria, è imprescrittibile, a meno che non venga eccepita l’usucapione (Corte di Cassazione, sentenza del 27 febbraio 2008, n. 5134).

[94]  Corte di Cassazione, sentenza del 13 dicembre 2005, 27413

[95] Corte di Cassazione, sentenza del 19-9-95, n. 9900 (conf. 26-1-85, n. 404, rv. 438616)

[96] Corte di Cassazione, sentenza del 1-3-95, n. 2332 (conf. Cass. 18-4-94, n. 3663; Cass. 11-11-86, n. 6594; Cass. 11-6-98, n. 5809).

[97] Corte di Cassazione, sentenza del 18-7-91, n. 8003.

[98] Corte di Cassazione, sentenza del 18 dicembre 1965, n. 2457

[99]  Corte di Cassazione, sentenza del aprile 1986, n. 2401

[100]  Corte di Cassazione, sentenza del 13 febbraio 2006, n. 3082;  Corte di Cassazione, sentenza del 27 agosto 2002, n. 12558;  Corte di Cassazione, sentenza del 27 settembre 1997, n. 9510. Conforme  Corte di Cassazione, sentenza del 9 febbraio 1995, n. 1462

[101] Corte di Cassazione, sentenza  del 31-5-2006, n. 12891.

[102] Corte di Cassazione, sentenza n. 27521 del 29-12-2009.

[103] Corte di Cassazione, sentenza n. 6189 del 3-5-2001. Nella specie, il giudice del merito aveva desunto i confini, valorizzando da una parte i dati catastali e dall’altra il posizionamento di un muro divisorio comune.

[104] Corte di Cassazione, sentenza del 8-11-85, n. 5459.

[105] Corte di Cassazione, sentenza del 24-8-94, n. 7498

[106] Corte di Cassazione, sentenza del 11-2-87, n. 1491 (conf. Corte di Cassazione, sentenza del 4-8-90, n. 7873).

[107] Corte di Cassazione, sentenza del 4-8-90, n. 7873.

[108] Corte di Cassazione, sentenza del 7-12-91, n. 13212.

[109] Corte di Cassazione, sent. 30 marzo 2009, n. 7640, Sez. II

[110]  Corte di Cassazione, sentenza del 21 febbraio 2008, n. 4437;  Corte di Cassazione, sentenza del 5 giugno 1997 n. 4994

[111] Corte di Cassazione, sentenza del 26-10-81, n. 5597.

[112] Corte di Cassazione, sentenza del 18-12-78, n. 6064.

[113] Corte di Cassazione, sentenza del 27-3-90, n. 2461.

[114] Corte di Cassazione, sentenza del 5-7-75, n. 2639.

[115] Corte di Cassazione, sentenza del 15-12-84, n. 6573.

Avv. Renato D’Isa

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