Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 5 dicembre 2013, n. 27296

Svolgimento del processo

1. – Con atto di citazione notificato il 1aprile 1996 L.A. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Bassano del Grappa il Comune di quella città esponendo che:
con sentenza n.192 del 21/5/1976 il Pretore di Bassano del Grappa aveva dichiarato S.R. unico ed esclusivo proprietario, per intervenuta usucapione, dell’immobile sito in (omissis) , censito alla sez. A, foglio 3 lettera F, piazza (omissis) , costituito da oratorio privato sotto il titolo dell’Angelo Custode, aperto al pubblico; che alla data di notificazione dell’atto di citazione al convenuto S.G. , costui era deceduto da quasi diciotto anni; con atto 23/3/1978 – notaio Grispigni Manetti di Bassano del Grappa (n.44.160 di rep.) – S.R. aveva donato al Comune di Bassano del Grappa l’immobile in questione e i beni mobili che in esso si trovavano, donazione accettata dal Comune in data 14/12/1978 a seguito di deliberazione consiliare del 14/7/1978;
con atto 11/4/1995 S.B. , unica erede di S.G. , aveva ceduto ad essa attrice ogni suo diritto sui beni in questione (“tutte le azioni ed i diritti se ed in quanto a lei spettanti sull’immobile, nonché sugli arredi e le pertinenze di cui in premessa e cosi come sopra donati dal signor S.R. al Comune di Bassano del Grappa”);
tanto premesso, l’attrice chiedeva che il Tribunale, ritenuta l’inesistenza della sentenza emessa dal Pretore in data 21/5/1976 e la conseguente inefficacia del successivo atto di donazione, la dichiarasse unica ed esclusiva proprietaria dell’oratorio privato e condannasse l’ente convenuto a restituirle quanto indebitamente donatogli. Il Comune di Bassano del Grappa chiedeva il rigetto della domanda. Deduceva la nullità, per difetto di forma, dell’atto di cessione intervenuto tra S.B. e la L. , negando che S.G. fu L. – intestatario catastale del bene – fosse il padre di S.B. (essendone realtà il bisnonno), assumendo la propria assoluta buona fede in ordine alla sentenza di usucapione. In via subordinata e riconvenzionale, chiedeva di essere dichiarato proprietario dell’immobile in questione per intervenuta usucapione ex artt.1159 o 1158 cod. civ. e dei beni mobili ex art. 1153 o 1160/1 e 2 co. cod. civ.; in via ulteriormente subordinata, chiedeva la condanna dell’attrice alla rifusione di tutte le spese sostenute per il restauro e la manutenzione dell’oratorio e dei beni mobili in esso contenuti. Provvedeva altresì, su autorizzazione del giudice istruttore, a chiamare in giudizio B.M.G. , quale unica erede di S.R. , nel frattempo deceduto, per essere da lei manlevato da ogni e qualsiasi domanda formulata nei suoi confronti dall’attrice e per ottenere dalla stessa, in caso di accoglimento della domanda, la rifusione di tutte le spese sostenute per il restauro e la manutenzione dell’oratorio e dei beni mobili in esso contenuti.
La B. contestava sia la pretesa dell’attrice sia quella avanzata nei suoi confronti dal convenuto, sul rilievo che il donante non aveva assunto alcun obbligo di garanzia nei confronti del Comune. Con sentenza del 13 ottobre 1999 il Tribunale rigettava la domanda proposta dall’attrice.
Secondo il primo giudice non poteva ritenersi che intestatario del l’immobile de quo fosse S.G. fu L. morto nel 1958, padre di S.B. ; il Comune aveva in ogni caso maturato l’usucapione decennale.
Con sentenza dep. il 20 ottobre 2006 la Corte di appello di Venezia, in riforma della decisione impugnata dall’attrice, accoglieva la domanda dalla medesima proposta, dichiarando la medesima esclusiva proprietaria del bene de quo.
Era innanzitutto disattesa la eccepita nullità dell’acquisto a favore della L. sul rilievo che: l’atto di cessione non poteva configurarsi come donazione, essendo stato previsto ed era risultato versato il corrispettivo di cui alla quietanza contenuta nel rogito, ma semmai di negotium mixtum cum donatione che è sottratto ai requisiti di forma previsti per la donazione; l’oggetto del contratto era ben individuato, mentre la formulazione della clausola relativa alla previsione dei diritti aveva avuto la funzione di precisare la natura controversa dell’atto di cessione e i rischi per le possibili conseguenze da ciò derivanti.
Quindi, premesso che la sentenza del 21/5/1976 del Pretore di Bassano del Grappa di accoglimento della domanda di usucapione a favore di S.R. era da ritenersi inesistente perché il giudizio era stato celebrato nei confronti di un convenuto già deceduto, veniva ritenuto affetto da nullità l’atto di donazione dell’immobile de quo dal medesimo effettuato a favore del Comune, tenuto che detto bene era di proprietà di S.B. quale figlia ed unica erede di G. fu L. morto nel 1958, il quale doveva considerarsi proprietario in virtù della intestazione catastale avvenuta a suo favore protrattasi per oltre un ventennio fino alla data del suo decesso. Al riguardo, era escluso che intestatario potesse essere considerato l’omonimo bisnonno di B. , G. fu L. deceduto nel 1901, tenuto conto che le operazioni di rilevamento per la costituzione del catasto urbano del Regno di Italia, istituito con la legge n. 3682 del 1886, iniziarono soltanto nel 1902, cioè successivamente al decesso del predetto, e che L. figlio di G. e nonno di B. morì il (omissis).
I Giudici rilevavano ancora che la part. 2839, intestata a S.G. fu L. , era riportata in base a voltura trascritta apparentemente nel 1918, successivamente alla partita n.2838 aperta il 3-8-1917 e prima di quella n.2840 aperta il 9-4-1919, e quindi necessariamente l’iscrizione era quanto meno contestuale al 3-8-1917, quando il padre di B. aveva 32 anni, cioè un età in cui poteva essere acquirente dell’immobile. Mentre l’omonimia spiegava le iscrizioni intervenute a nome di G. fu L. nel periodo di tempo 1872-1946, lo stesso S.R. aveva identificato la persona che aveva convenuto in giudizio nel cugino G. l’intestatario del bene de quo.
Peraltro, era respinta la domanda di usucapione decennale proposta in riconvenzionale dal Comune per difetto di buona fede, eccepita dall’attrice in primo grado con la memoria di replica: dopo avere ritenuto che il requisito in questione è oggetto di una eccezione rilevabile di ufficio e che, pertanto, può essere sollevata dalla parte anche oltre il termine di cui all’art. 183 quinto comma cod. proc. civ., i Giudici – nell’evidenziare che S.R. aveva donato l’immobile de quo al Comune in base a sentenza di usucapione emessa in un giudizio instaurato nei confronti di S.G. fu L. morto diciotto anni prima, ritenevano che il Comune era a conoscenza della comproprietà della chiesa da parte degli eredi S. , atteso che i predetti erano stati convocati dall’Ente nel 1975 al fine di concordare con il Comune la donazione e consentirgli di effettuare i lavori di restauro della chiesa, e fra questi non vi era S.G. fu L. morto nel 1958 ma la figlia B. . D’altra parte, il decreto del Prefetto, che aveva autorizzato la donazione a favore del Comune, aveva fatto espresso obbligo al Sindaco di compiere preventivi accertamenti sul diritto di proprietà e sul possesso del donante, accertamenti che non vennero affatto compiuti, nonostante che, prima che R. avesse iniziato il giudizio di usucapione, lo stesso Sindaco avesse convocato gli eredi, senza che fra i convocati vi fosse R. mentre vi era B. . Poiché il Sindaco non poteva non sapere del vizio insanabile della sentenza emessa a favore del donante, la malafede del rappresentante si trasmette ai sensi dell’art. 1391 cod. civ. all’ente rappresentato.
2. – Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il Comune di Bassano del Grappa sulla base di dodici motivi illustrati da memoria. Resiste con controricorso l’intimata.

Motivi della decisione

1.- Il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 948, 1158, 2697, 2727 e 2729 cod. civ., censura la decisione gravata che aveva accolto la domanda di rivendicazione in base alla intestazione catastale, peraltro erroneamente ritenuta riferibile al padre di B. , e alla sua protrazione per oltre un ventennio senza che fosse stato allegato o prodotto alcun titolo, dal quale derivasse un titolo di acquisto a titolo derivativo idoneo a segnare presuntivamente il momento iniziale del possesso né fosse stata data prova della intervenuta maturazione della prescrizione acquisitiva, neppure prospettata, tanto più che nel menzionato adempimento catastale non si faceva alcun riferimento ad alcun atto negoziale o di accertamento.
Evidenzia come la possessio ad usucapionem postula non soltanto il possesso ma anche l’esercizio animo domini, di cui non era stata offerta alcuna prova.
2.- Il secondo mezzo reitera il motivo sotto il profilo della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo, osservando anche l’omessa esame di documentazione da cui doveva evincersi la mancanza di possesso da parte di S.G. dell’immobile de quo.
3.- Il terzo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 1142 cod. civ., censura la sentenza che aveva ritenuto il possesso intermedio facendo leva esclusivamente sul possesso remoto -ovvero l’intestazione catastale (all’apparenza risalente al 1918) – presumendo da questa la continuità e la conservazione del possesso per oltre venti anni ovvero il possesso futuro e omettendo qualsiasi indagine sul possesso attuale.

4.- Il primo, il secondo, il terzo motivo – che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono fondati.

La sentenza, nell’accogliere la domanda di rivendicazione, ha ritenuto valido l’acquisto compiuto dall’attrice sul rilievo che la venditrice era divenuta iure hereditario proprietaria dell’immobile per successione al genitore S.G. fu L. deceduto nel 1958: quest’ultimo è stato considerato a sua volta legittimo proprietario perché intestatario catastale del bene per oltre venti anni e fino al momento della sua morte.
In sostanza, la questione che la sentenza ha affrontato ha avuto per oggetto esclusivamente la identificazione del soggetto che doveva considerarsi l’intestatario catastale del bene: avendolo individuato nel padre di S.B. e avendo accertato che il medesimo era stato per oltre venti anni intestatario catastale del bene, ha affermato l’esistenza di un acquisto a titolo originario in forza della suddetta intestazione.
Il convincimento dei Giudici è erroneo.
Giova solo accennare che, in tema di azione di rivendicazione, l’attore ha l’onere di offrire la c.d. probatio diabolica, che può essere assolto con la dimostrazione dell’acquisto del bene a titolo derivativo e della titolarità del diritto di proprietà in capo ai precedenti danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, o dell’avvenuto compimento in suo favore dell’usucapione.
Ciò premesso, la sentenza ha dato rilevanza alla mera intestazione catastale dell’immobile e al suo protrarsi per oltre venti anni, prescindendo del tutto dall’esistenza di qualsiasi titolo in virtù del quale il medesimo avrebbe acquistato la proprietà esclusiva del bene de quo: conclusione questa che, oltretutto, è addirittura in contrasto con quanto poi affermato dalla sentenza laddove, nel respingere per mancanza di buona fede la domanda riconvenzionale del Comune di acquisto per usucapione decennale, la Corte ha fatto riferimento alla circostanza che il bene doveva ritenersi in comproprietà dei vari eredi S. – fra i quali anche B. , figlia di G. fu L. morto nel 1958 – che per l’appunto vennero convocati nel 1975 per concordare le modalità attraverso le quali procedere al restauro della chiesa, che il Comune intendeva effettuare, e per autorizzare l’Ente a trasportare gli arredi nel museo civico: dunque, ciò avrebbe dovuto escludere che il predetto S.G. fu L. morto nel 1958 potesse essere considerato titolare esclusivo del bene, che iure hereditario sarebbe stato trasmesso alla figlia.
D’altra parte, la sentenza ha omesso qualsiasi verifica sulla esistenza di un possesso utile ad usucapionem, possesso che evidentemente deve estrinsecarsi in una situazione di fatto ovvero nell’esercizio sulla cosa di un potere corrispondente al diritto di proprietà (o di altro diritto reale). Al riguardo, è appena il caso di rilevare come l’intestazione catastale di un immobile, compiuta dall’autorità amministrativa nell’ambito di accertamenti di carattere fiscale per individuare il titolare della proprietà, non comporta la dimostrazione che l’intestatario, o gli intestatari, abbiano effettivamente esercitato su di esso quel potere di fatto che, unitamente all’indispensabile elemento intenzionale, è idoneo a produrre l’acquisto della proprietà per il decorso del tempo ed il concorso di tutte le altre condizioni a tal fine richieste dalla legge.

D’altra parte, le indicazioni catastali non sono elementi decisive per l’accertamento del diritto di proprietà.

5.- Il quarto motivo, lamentando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, denuncia l’omesso esame della attestazione della avvenuta intestazione catastale dell’immobile a favore del Comune in base all’impianto del NCEU avvenuto negli anni 1937 e 1938, secondo le risultanze documentali e la deposizione del teste F. , responsabile UTE di Vicenza: detta intestazione aveva da 48 anni sostituito l’originaria.
6.- Il quinto motivo, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo, denuncia l’erronea attribuzione alla persona di G. fu L. deceduto nel 1958 anziché a G. fu L. morto nel 1901 l’intestazione catastale, non avendo i Giudici valutato la documentazione prodotta dalla quale sarebbe risultato che l’intestatario catastale era il nonno e non il nipote, padre di B. ; che la Chiesa era rimasta in comproprietà di tutti gli eredi di G. fu L. deceduto nel 1901, tant’è vero che vennero contattati tutti i predetti e non soltanto B. , la quale non aveva mai rivendicato il diritto di proprietà esclusiva a favore del padre e neppure aveva inserito il bene nella denuncia di successione del genitore, atteso che i medesimi vennero convocati dal Comune nel 1975 per risolvere i problemi relativi alla manutenzione della chiesa e fu adottata la decisione di concentrare in unica quota i diritti spettanti ai vari comproprietari e, a seguito di ciò, fu trovata la soluzione di iniziare un giudizio di usucapione da parte di R. che perciò intese citare in giudizio il nonno. Evidenzia che, alla morte di G. fu L. deceduto nel 1901 – al quale l’immobile era stato lasciato da S.P. con testamento pubblicato il XXXXXXXX – si era determinata la comunione ereditaria fra i suoi discendenti secondo quanto emerso dall’atto di divisione del 8-3-1908, che in effetti costituiva l’’ultimo atto di disposizione patrimoniale fra gli eredi S. nel quale è menzionato l’immobile de quo.
Pertanto, al momento della iscrizione in catasto della particella n.2839, il bene era in comproprietà fra gli eredi del bisnonno di Beatrice, che era rimasto l’ultimo proprietario esclusivo; il che era comprovato dalla notifica del 23-3-1926 del vincolo esistente a opera del Ministero della Pubblica Istruzione.
7.- Il quarto e il quinto motivo, avendo a oggetto la questione relativa alla identificazione del soggetto che doveva considerarsi l’intestatario catastale, sono assorbiti per effetto dell’accoglimento dei primi tre motivi.
8. – Il sesto motivo, lamentando nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 180 co. 2, 183 e 345 cod. proc. civ., censura la decisione gravata che aveva ritenuto rilevabile d ufficio l’eccezione relativa alla mancanza di buona fede del possesso posto a base della domanda riconvenzionale di cui all’art. 1159 cod. civ., quando si trattava di una eccezione in senso stretto – in quanto volta a contrastare la presunzione legale di buona fede – che era stata tardivamente proposta e in forza di allegazioni pure tardivamente formulate, per le quali si erano maturate le preclusioni di cui alle richiamate disposizione del codice.
9.- Il motivo è infondato.
La sentenza ha correttamente ritenuto rilevabile di ufficio e, pertanto, non tardiva, l’eccezione sollevata dall’attrice dopo l’udienza di cui all’art. 183 cod. pro civ., relativamente alla questione circa la sussistenza o meno della buona fede, trattandosi di elemento inerente al fatto costitutivo del diritto azionato ai sensi della previsione di cui all’art. 1159 cod. civ..
Qui occorre ricordare che le eccezioni non rilevabili di ufficio sono solo quelle nelle quali la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito. Non può condividersi la tesi secondo cui sarebbe da qualificare come eccezione non rilevabile di ufficio quella che, essendo diretta a superare la presunzione (relativa) di buona fede del possesso (art. 1147 cod. civ.), renderebbe necessaria la contestazione della controparte. Occorre chiarire che le presunzioni legali operano sul piano probatorio e quelle relative, stabilendo l’inversione dell’onere della prova, esonerano la parte da quello da cui altrimenti sarebbe gravata. Peraltro, la esistenza di circostanze di fatto contrarie alla presunzione, che sia emersa nel processo, deve essere verificata e rilevata di ufficio dal giudice alla stregua degli elementi probatori ritualmente acquisiti. Ed invero, il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, non è soggetto alle preclusioni di cui agli art. 183 ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (ORD. S.U.10531/2013).
10.- Il settimo motivo, lamentando nullità della sentenza per violazione dell’art. 1391 cod. civ., nel combinato disposto con l’art. 131 R.D. n. 148 del 1915, censura la decisione gravata che aveva esteso al Sindaco l’elemento soggettivo quando il contenuto dell’atto era stato integralmente determinato dal Consiglio Comunale che, avendo la competenza esclusiva a emettere la relativa deliberazione, aveva espresso in maniera esaustiva la volontà dell’ente, non lasciando alcun margine di autonomia al rappresentante.
11.-. L’ottavo motivo, lamentando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo, denuncia che dalla documentazione in atti doveva escludersi la mala fede del Sindaco, tenuto conto che la convocazione degli eredi S. era stata effettuata dal Sindaco Fa.Pi. al quale sarebbe poi subentrato l’avv. M. che stipulò l’atto; l’usucapione fu gestita dagli S. e il Sindaco M. nulla sapeva della procedura né tanto meno era a conoscenza del destinatario al quale venne notificato l’atto di citazione, non potendo non fare affidamento sulla competenza e sulla correttezza dei legali patrocinatori dell’usucapione e del Giudice che decise la causa; non fu lui a convocare la figlia di G. deceduto nel 1958.
12.- Il settimo e l’ottavo motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta connessione, sono infondati.
La sentenza, nell’escludere la buona fede del Comune, ha evidenziato la sua consapevolezza in merito a quella che doveva considerarsi la condizione, anche proprietaria, della chiesetta de qua, attesa la conoscenza di quelli che dovevano considerarsi gli attuali comproprietari, che erano stati per l’appunto convocati al fine di verificare le modalità per consentire al Comune di compiere gli interventi necessari per la conservazione e per essere autorizzato al trasporto degli arredi al museo civico: il che, del resto, è confermato ancora da quanto esposto dal ricorrente circa la necessità di trovare al riguardo una soluzione in presenza della comproprietà dei numerosi, e non tutti identificati, eredi S. . E fu, proprio in considerazione della obiettiva incertezza da parte dell’Amministrazione sulla titolarità del bene, che il decreto prefettizio, con il quale si autorizzava l’accettazione della donazione da parte del Comune, incaricò il Sindaco di compiere gli accertamenti necessari per procedere alla verifica della titolarità e del possesso del bene nella persona del donante: la mala fede dell’organo rappresentativo sta – secondo la ricostruzione in fatto compiuta dai Giudici – nel non avere il Sindaco, incaricato di stipulare l’atto, compiuto tale verifica, pur in presenza di uno specifico obbligo che era espressione della consapevolezza da parte dell’Amministrazione dei dubbi sulla appartenenza del bene al donante.
Ne consegue che, da un lato, è del tutto irrilevante la circostanza che non era stata la persona del Sindaco M. ad effettuare le convocazioni degli eredi S. e a occuparsi della procedura, dovendo rendersi conto con la ordinaria diligenza, richiesta dall’incarico svolto, della obiettiva situazione esistente in merito alla titolarità del bene a stregua di quella che era stata la manifestazione della volontà dell’Ente e della documentazione in atti; dall’altro, ove si volesse sostenere che, essendo l’atto predeterminato nel suo contenuto, non sarebbero rilevanti gli stati soggettivi del rappresentante il quale non avrebbe avuto alcun margine di autonomia, allora – a stregua di quanto si detto a proposito dall’attività svolta dall’Amministrazione in merito alla individuazione dei proprietari e alla ricerca di una soluzione idonea per procedere agli interventi di restauro – avrebbe dovuto trovare applicazione il secondo comma dell’art. 1391 cod. civ., secondo cui in nessun caso la buona fede del rappresentante (il Sindaco) giova al rappresentato (il Comune) che sia in mala fede, posto che secondo quanto si è visto sopra, l’Amministrazione era comunque a conoscenza dell’assetto proprietario del bene de quo.
13.- Il nono motivo lamenta violazione di legge per avere la sentenza d’appello – nel ritenere determinato o determinabile l’oggetto della convenzione dell’11.4.1995, e quindi valida la convenzione medesima – omesso di prendere in considerazione alcune delle clausole della stessa pattuizione, in spregio al disposto dell’art. 1363 cod. civ..
Denuncia che, nel disattendere l’eccezione di indeterminatezza o indeterminabilità del contratto di cessione, aveva erroneamente interpretato la clausola “tutte le azioni ed i diritti se ed in quanto a lei spettanti sull’immobile, nonché sugli arredi e le pertinenze di cui in premessa e cosi come sopra donati dal Sig. S.R. al Comune di Bassano del Grappa”, che era equivoca e intrascrivibile, mentre avrebbe dovuto esaminarla congiuntamente con l’altra, quella n.8, ove le parti avevano precisato non essere “dovuta la dichiarazione INVIM in quanto non risulta trasferito col presente atto alcun immobile bensì solo eventuali ragioni di rivalsa”: si trattava di una specificazione che si affiancava — rafforzandola — a quanto precisato in chiusura della clausola 5 del contratto, ove la cedente S.B. affermava “che il reddito fondiario dell’immobile urbano ora venduto non è stato da lei dichiarato nell’ultima dichiarazione dei redditi per la quale il termine di presentazione è scaduto alla data odierna per le ragioni esposte in premessa”.
14.- Il decimo motivo, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, ribadisce le considerazioni sopra svolte circa la indeterminatezza e indeterminabilità del contratto di cessione, evidenziando la intrascrivibilità dell’atto, atteso che opponibile ai terzi è la nota di trascrizione.
15.- Il nono e il decimo motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta connessione, sono infondati.
La sentenza, nel procedere all’interpretazione del contratto de quo, ha chiarito il significato della clausola contestata, spiegando che la previsione ivi contenuta sula cessione di tutte le azioni ed i diritti se ed in quanto a lei spettanti sull’immobile, aveva la funzione di precisare la natura controversa dell’atto di cessione e quindi di evitare eventuali azioni risarcitorie per il caso di evizione.
La critica, formulata anche con riferimento al mancato esame di altra clausola, si risolve nella censura della interpretazione compiuta dai Giudici attraverso una diversa ricostruzione della volontà negoziale e del significato che ad essa dovrebbe attribuirsi secondo la prospettazione del ricorrente.
Qui occorre ricordare che l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, che deve essere specificamente indicata in modo da dimostrare – in relazione al contenuto del testo contrattuale – l’erroneo risultato interpretativo cui per effetto della predetta violazione è giunta la decisione, che altrimenti sarebbe stata con certezza diversa la decisione. Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati: occorre ricordare che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra. (Cass.7500/2007; 24539/2009).
16.- L’undicesimo motivo lamenta violazione di legge per avere la sentenza d’appello ritenuto che il contratto del 1995 non integrava donazione, essendo risultato avvenuto il pagamento del prezzo, e ciò in violazione dei principi in tema di efficacia probatoria della quietanza che non è opponibile ai terzi.
17.- Il motivo va disatteso.
Il principio di inopponibilità ai terzi della quietanza sta a significare che costoro possono fornire la prova della simulazione “senza limiti”, ai sensi dell’art. 1417 cod. civ., e, quindi, sia a mezzo di testimoni, sia a mezzo di presunzioni. Ma allora il ricorrente avrebbe dovuto dedurre, sotto il profilo del vizio di motivazione, il mancato esame di elementi probatori da cui sarebbe dovuta emergere la prova della simulazione: tale onere non risulta in alcun modo ottemperato.
18.- Il dodicesimo motivo denuncia l’omesso esame da parte della Corte di appello della domanda riconvenzionale con cui il Comune aveva comunque riproposto in sede di gravame la domanda subordinata, rimasta assorbita in primo grado, con cui aveva chiesto l’acquisto per usucapione ventennale.
19.- Il motivo è infondato.
Il rigetto della domanda di usucapione ventennale è implicito nelle stesse argomentazioni con le quali la sentenza ha respinto la domanda di usucapione decennale, basata sulla donazione effettuata da S.R. , del quale è stato evidentemente escluso quanto meno il possesso esclusivo del bene laddove è stato chiarito che: a) il bene era in comproprietà dei vari eredi S. , che per l’appunto vennero convocati dal Comune; b) il giudizio di usucapione da R. promosso fu un espediente trovato dagli eredi per addivenire alla soluzione che, accentrando le quote in uno solo dei comproprietari, avrebbe consentito il successivo trasferimento del bene al Comune; c) il decreto prefettizio aveva incaricato l’accertamento anche sul possesso del donante. In sostanza, tali considerazioni portavano i Giudici a escludere i presupposti perché il Comune potesse unire il proprio possesso a quello (insussistente) del suo dante causa, essendo il possesso del dante causa necessario perché fosse maturato il periodo ventennale.
Allora, il ricorrente avrebbe dovuto denunciare l’eventuale vizio di motivazione per censurare l’iter logico giuridico dei Giudici e non l’insussistente difetto di attività del giudice per omesso esame di una domanda (art. 112 cod. pro civ.).
Pertanto, vanno accolti il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso, assorbiti il quarto e il quinto, mentre sono da rigettare gli altri; la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

P.Q.M.

Accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso, assorbiti il quarto e il quinto, rigetta gli altri gli altri cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

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