Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 15 settembre 2016, n. 38302

Per integrare il reato di bancarotta è necessario creare il pregiudizio agli interessi della massa dei creditori non già per effetto dell’insolvenza, ma per effetto dell’ingiustificato depauperamento del patrimonio societario che deve servire a garantire i loro crediti

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 15 settembre 2016, n. 38302

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PALLA Stefano – Presidente
Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 23/04/2014 della CORTE APPELLO di MESSINA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udito in PUBBLICA UDIENZA del 13/06/2016, la relazione svolta dal Consigliere ANDREA FIDANZIA;
Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. Agnello Rossi, ha concluso per il rigetto del ricorso;
Per il ricorrente l’avv. (OMISSIS) ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 23 aprile 2014 la Corte d’Appello di Messina ha confermato la sentenza di primo grado con la quale (OMISSIS) era stato condannato alla pena di giustizia per il reato di bancarotta fraudolenta documentale nella sua qualita’ di legale rappresentante della (OMISSIS) s.r.l., societa’ dichiarata fallita il (OMISSIS).
2. Con atto sottoscritto dal suo difensore l’imputato ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo e’ stata dedotta la violazione della legge penale con riferimento al Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articoli 216, 217, 223 e 224, ed agli articoli 521, 522 e 604 c.p.p.., nonche’ vizio di motivazione.
Assume il ricorrente che la Corte territoriale, nel recepire integralmente per relationem la motivazione del giudice di primo grado, ha omesso di valutare l’elemento tipico dello scopo di procurare a se’ o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, elemento che anzi la Corte di merito, attraverso il rinvio alla sentenza di primo grado, ha esplicitamente escluso.
La presunta condotta illecita ascritta al prevenuto avrebbe dovuto semmai essere qualificata come bancarotta semplice, la quale non contempla tra i propri elementi costitutivi lo scopo di procurare a se’ o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.
Dunque, la Corte territoriale avrebbe dovuto annullare la sentenza di primo grado e nel contempo disporre la restituzione degli atti al P.M. affinche’ si procedesse per il diverso e meno grave reato di bancarotta semplice impropria.
Inoltre, ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata e’ contraddittoria e manifestamente illogica nel suo percorso motivazionale avendo, da un lato, condividendo la valutazione del primo giudice, dato atto dell’assenza della volonta’ dell’imputato di procurare a se’ o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, e, dall’altro, confermato fa condanna per il reato di bancarotta fraudolenta.
2.2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione della legge penale con riferimento al Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articoli 216 e 223, agli articoli 40 e 43 c.p., articoli 192 e 606 c.p.p., la mancanza, contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione.
Lamenta il ricorrente che la configurabilita’ della dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo, e, in particolare, quale evento del reato di bancarotta, e non come condizione obiettiva di punibilita’, comporta che ai fini della sussistenza del reato e’ necessario sia l’accertamento del rapporto di causalita’ tra la condotta e l’evento-fallimento sia la coscienza e volonta’, anche come accettazione del rischio, che la propria azione provochi tale evento.
Orbene, si duole il ricorrente di essere stato condannato pur in difetto di un qualsiasi accertamento sul nesso di causalita’ e sul dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento, essendo necessario che il prevenuto si fosse prefigurato non una mera crisi di liquidita’ ma il proprio definitivo fallimento.
2.3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione di legge penale con riferimento agli articoli 129, 157 e 161 c.p…
Il ricorrente lamenta che, ove fosse stato derubricato il fatto nella fattispecie meno grave della bancarotta semplice, il reato sarebbe gia’ estinto per la maturazione del termine prescrizionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente per lo stretto collegamento delle tematiche trattate e sono inammissibili.
Va osservato che la quarta ipotesi del reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui alla L. Fall., articolo 216, comma 1, n. 2, ovvero la tenuta delle scritture contabili in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio, non richiede, a differenza delle prime tre ipotesi (sottrazione, distruzione, falsificazione, in tutto o in parte, delle scritture contabili) il dolo specifico dello scopo di procurare a se’ o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato e’, infatti, sufficiente il dolo generico, costituito dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilita’ potra’ rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per contro, necessaria la specifica volonta’ di impedire quella ricostruzione.
La locuzione “in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari” connota, infatti, la condotta e non la volonta’ dell’agente, sicche’ e’ da escludere che essa configuri il dolo specifico (Sez. 5, n. 5264 del 17/12/2013 – dep. 03/02/2014, Manfredini, Rv. 258881; vedi anche sez. 5 n. 11115 del 22.1.2015, non massimata).
D’altra parte, e’ sufficiente un attento esame della formulazione della norma per verificare che tale scopo si riferisce alle sole condotte di sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili e non a quella di tenuta irregolare delle medesime.
Il ricorrente assume che, nel caso di specie, sarebbe richiesto ai fini della configurabilita’ della bancarotta fraudolenta documentale il dolo specifico, anziche’ il dolo generico, dal momento che si verterebbe in un’ipotesi non di irregolare tenuta delle scritture contabili ma di omessa tenuta delle medesime. L’istruttoria dibattimentale avrebbe, infatti, accertato che il prevenuto aveva del tutto omesso di tenere i libri e registri contabili obbligatori e non li aveva semplicemente tenuti in modo irregolare, come contestato nell’imputazione. Ne consegue, secondo la prospettazione del ricorrente, che, seguendo l’orientamento costante di questa Corte (viene citata la sez. 5 del 15.5.2013 n. 20999), non e’ stato integrato il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, bensi’ quello di bancarotta semplice, non essendo stato provato nel caso di specie – anzi e’ stato espressamente escluso dagli stessi giudici di merito che l’intento del (OMISSIS) fosse quello di recare pregiudizio ai creditori (dolo specifico).
Questo Collegio non condivide l’impostazione del ricorrente.
Il ricorrente, nell’esporre la propria tesi difensiva, muove, in primo luogo, dall’erroneo presupposto – diversamente non si spiega perche’ evidenzi in piu’ punti di non aver semplicemente tenuto irregolarmente le scritture contabili ma di aver invece addirittura del tutto omesso la tenuta delle stesse, condotta senz’altro piu’ grave – che l’omessa tenuta delle scritture contabili obbligatorie, a differenza della tenuta irregolare, costituisca una condotta comunque riconducibile alla fattispecie di cui alla L. Fall., articolo 217, salvo che si accerti che lo scopo dell’omissione fosse quello di recare pregiudizio ai creditori.
In sostanza, secondo tale prospettazione, l’imprenditore o l’amministratore che ometta del tutto di tenere i libri contabili obbligatori risponderebbe del delitto di bancarotta fraudolenta documentale solo ove venga fornita la prova del dolo specifico, del suo intento di recare pregiudizio ai creditori.
In mancanza di tale prova, l’agente risponderebbe del delitto meno grave di bancarotta semplice.
Non vi e’ dubbio che un tale impostazione della questione sia del tutto fuorviante sebbene suggestiva.
In primo luogo, la fattispecie di cui all’articolo 217, comma 2 LF.c.p. si applica, secondo il suo tenore testuale, non solo al fallito che non abbia tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti per legge ma anche a quello che li abbia tenuti in maniera irregolare o incompleta.
Per contro, ai fini della configurabilita’ della bancarotta fraudolenta documentale, rileva non solo l’irregolare ma anche, a maggior ragione, l’omessa tenuta delle scritture contabili – e non solo di quelle obbligatorie per legge – che parimenti non consenta la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari del fallito.
L’elemento distintivo tra le due fattispecie di bancarotta documentale fraudolenta e semplice attiene soprattutto al profilo oggettivo della condotta del fallito, rilevando nella bancarotta semplice l’aspetto meramente formale dell’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, mentre nella bancarotta fraudolenta un profilo sostanziale, atteso che, da un lato, l’illiceita’ della condotta non e’ circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e scritture contabili genericamente intesi, e, dall’altro, e’ richiesto il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, estraneo invece al fatto tipico previsto dall’articolo 217 legge cit. (Sez. 5, n. 32051 del 24/06/2014 – dep. 21/07/2014, Corasaniti, Rv. 260774).
In particolare, non vi e’ dubbio che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 217 c.p., sia posta a presidio della regolarita’ contabile intesa in senso formale. L’articolo 2214 c.c., impone l’istituzione di libri obbligatori, quali il libro giornale, il libro degli inventari ed altre scritture che siano richieste dalla natura e delle dimensioni dell’impresa. Gli articoli dal 2215 al 2220 c.c., prescrivono le modalita’ di tenuta e conservazione di tali scritture contabili obbligatorie.
L’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, in violazione dell’articolo 2214 c.c. e ss., costituiscono condotte punite dalla legge fallimentare solo perche’ espongono a pericolo il bene giuridico tutelato, costituito dalla esigenza di una corretta informazione sulle vicende patrimoniali e contabili dell’impresa fallita, e cio’ nella prospettiva successiva della ricostruzione e della tutela del patrimonio del fallito, che rappresenta la garanzia per la massa dei creditori.
Si tratta di un delitto di pericolo presunto e di pura condotta e viene integrato anche se non si realizza alcun danno o solo la messa in pericolo degli interessi dei creditori.
L’imprenditore fallito o l’amministratore della societa’ fallita che, anche solo per negligenza, abbia omesso, sotto il profilo formale, di tenere o abbia tenuto in modo irregolare o incompleto le scritture contabili obbligatorie per legge ma che, sotto il profilo sostanziale, abbia lasciato comunque traccia di tutte le sue operazioni gestorie, evincibile da documenti contabili pur non regolarmente tenuti (fatture, bolle di accompagnamento conservate presso di se’), estratti conto bancari, altre annotazioni comunque intellegibili, etc., in modo tale che a posteriori sia possibile ricostruire sia ili patrimonio sia il movimento degli affari, non risponde del reato di bancarotta fraudolenta ma di quello meno grave di bancarotta semplice.
Per contro, l’imprenditore (ed ovviamente l’amministratore di societa’) che non solo non tenga o tenga irregolarmente i libri contabili obbligatori per legge, ma che non lasci anche alcuna traccia documentale delle operazioni gestorie compiute o conservi comunque documentazione contabile inidonea a ricostruire il patrimonio ed i movimenti contabili dell’impresa, risponde, ricorrendo l’elemento soggettivo del dolo generico, del delitto di bancarotta fraudolenta documentale.
E’ evidente che, ai fini della prova del dolo, l’interprete potra’ valorizzare gli elementi fattuali sopra evidenziati o altri elementi con valutazioni che sono incensurabili in questa sede se sorrette da argomentazioni non apodittiche o manifestamente illogiche.
Con riferimento al caso di specie, non sussiste alcun dubbio che la condotta post in essere dall’imputato debba essere inquadrata nella fattispecie della bancarotta fraudolenta documentale, avendo entrambi i giudici di merito puntualmente evidenziato che l’irregolare tenuta da parte del ricorrente dei libri e delle scritture contabili (libro giornale, libro degli inventari nonche’ registri IVA), consistita nell’omesso aggiornamento delle medesime dal 31.12.2000 al 31.12.2003 – il discorso non cambierebbe se si ritenesse che vi e’ stata omessa tenuta dei libri contabili nello stesso periodo – aveva determinato per tabulas la concreta impossibilita’ di quantificare il reale volume degli affari della societa’.
Peraltro, in ordine all’elemento psicologico, i giudici di merito (la sentenza di primo grado integra quella impugnata dando luogo ad unico complesso argomentativo) hanno osservato, con argomentazioni immuni da vizi logici, che il rinvenimento di ben tre fatture emesse nel 2003 presso terzi, non registrate nella contabilita’ della fallita, costituiva indice sintomatico dello scorretto modus operandi dell’imputato – sotto il profilo non solo formale ma anche sostanziale – che con tale condotta aveva consapevolmente impedito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
Il ricorrente, nell’affermare che era stata accertata una diversa realta’ processuale rispetto a quella ritenuta ditta sentenza impugnata, ed in particolare che lo stesso aveva del tutto omesso di tenere le scritture contabili, evidenziando peraltro una serie di elementi fattuali da cui scaturirebbe il difetto in capo allo stesso dell’elemento psicologico (anche nella forma del dolo generico), muove delle censure che implicano valutazioni di fatto, in quanto finalizzate ad una rivalutazione del materiale probatorio operata dai giudici di merito, come tali inammissibili in sede di legittimita’.
La corretta qualificazione da parte dei giudici di merito della fattispecie sottoposta al loro esame come bancarotta fraudolenta documentale e non come bancarotta semplice documentale impedisce di ritenere maturato il periodo di prescrizione del reato, con conseguente inammissibilita’ anche del terzo motivo.
2. Il secondo motivo e’ inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Va osservato che, come costantemente osservato da questa Corte, tranne che in un unico precedente rimasto isolato (c.d. sentenza Corvetta n. 47502 del 24.9.2012), in tema di reati fallimentari, ad eccezione delle fattispecie di bancarotta impropria da reati societari, la dichiarazione di fallimento non costituisce l’evento del reato di bancarotta, con la conseguenza che e’ del tutto irrilevante il nesso eziologico tra la condotta integrante la bancarotta e la dichiarazione di fallimento (Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014 – dep. 22/07/2014, Tanzi e altri, Rv. 261942).
Nelle fattispecie di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, la necessita’ che il dissesto sia causato dalla condotta descritta dalle norme incriminatrici e che tale evento sia previsto e voluto dall’agente (quanto meno a titolo di dolo eventuale), si evince inequivocabilmente dal tenore letterale della norma.
Con riferimento invece alla previsione di cui alla L. Fall., articolo 216, comma 1, richiamata dal primo comma del gia’ citato articolo 223, la risposta deve essere negativa, per una molteplicita’ di ragioni.
Alla stregua di un insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risalente alta sentenza n. 2 del 1958 (imputato (OMISSIS)) e rimasto costante nel tempo, la dichiarazione di fallimento non costituisce una condizione obiettiva di punibilita’, ma una condizione di esistenza del reato; si tratta, in definitiva, di un elemento costitutivo della fattispecie criminosa che, nella bancarotta prefallimentare, segna il momento consumativo del reato ad ogni effetto di legge. Cio’, tuttavia, non significa che le si possa attribuire la qualifica di evento, come se non fosse data via di uscita rispetto all’alternativa tra condizione obiettiva di punibilita’ ed evento del reato.
Di contro, puo’ certamente affermarsi che e’ facolta’ del legislatore inserire nella struttura dell’illecito penale elementi costitutivi estranei alla cennata dicotomia; e con altrettanta certezza puo’ dirsi che il legislatore, quando a un determinato accadimento intende assegnare la valenza di evento del reato, lo esplicita in termini inequivocabili, col ricorso a forme lessicali immediatamente evocative del rapporto causale (“causare”, “cagionare”, “determinare”). Basti pensare, al riguardo, proprio alle norme incriminatrici contenute nel gia’ citato articolo 223, comma 2, della stessa legge fallimentare, nelle quali l’indefettibilita’ del nesso eziologico fra condotta e dissesto, o fallimento, e’ evidenziata dall’utilizzo, al n. 1), dell’espressione “hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della societa’…” e, al n. 2, dell’espressione “hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della societa’”. Al contrario, un’analisi di tipo descrittivo della fattispecie di cui alla L. Fall., articolo 216, comma 1, consente di rimarcare l’assenza di qualsiasi accenno alla necessita’ di un collegamento causale fra le condotte vietate e la dichiarazione di fallimento. L”oggetto del divieto legislativo consiste, quanto alla bancarotta documentale, nella soppressione – o nell’irregolare tenuta – della contabilita’, dalla quale dipende la possibilita’ di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. E proprio nelle conseguenze or ora descritte si individua l’evento del reato, nella sua accezione giuridica e non naturalistica.
Va, infine, osservato che nulla impedisce al legislatore di attribuire a un determinato reato una struttura unica e peculiare, purche’ non ne risulti violato un precetto di rango costituzionale. Sotto tale profilo, si deve evidenziare che la lettura qui condivisa della norma in questione e’ stata avallata dalla stessa Corte Costituzionale che nella motivazione della sentenza n. 110 del 1972, ha osservato fra l’altro che “il legislatore avrebbe potuto considerare la dichiarazione di fallimento tra l’altro come semplice condizione di procedibilita’ o di punibilita’, ma ha invece voluto – come e’ riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – richiedere l’emissione della sentenza per l’esistenza stessa del reato. E cio’ perche’, intervenendo la sentenza dichiarativa del fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come effettiva ed attuale”.
Quanto all’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria, di cui alla L. Fall., articolo 216, e articolo 223, comma 1, lo stesso non comprende la previsione ed accettazione del fallimento, ma solo la consapevole volonta’ di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alla finalita’ dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori. (Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014 – dep. 07/08/2014, P.G. in proc. Sistro, Rv. 261446).
La previsione ed accettazione del fallimento non e’ prevista ne’ dalla lettera della legge, che punisce “l’imprenditore che ha distratto” e non gia’ l’imprenditore che ha cagionato il fallimento,” e non e’ prevista nemmeno dalla ratio della L. Fall., articolo 216, comma 1, che intende punire la condotta distrattiva in ragione non gia’ della sua effettiva dannosita’, ma della sua pericolosita’ per la tutela del bene giuridico protetto, anche prima dell’intervento del giudice che emette la sentenza di fallimento. Si punisce, cioe’, il pregiudizio agli interessi della massa dei creditori non gia’ per effetto dell’insolvenza, bensi’ per effetto dell’ingiustificato depauperamento del patrimonio della societa’ che deve servire a garantire i loro crediti.
Alla luce di tale ricostruzione del reato in esame, e’ da escludere dunque, assieme alla configurabilita’ del fallimento come evento del reato di bancarotta, anche la estensione dell’elemento psicologico fino a “coprire” la stessa dichiarazione di fallimento, nel senso della sua previsione e, quantomeno, accettazione come conseguenza della condotta distrattiva da parte dell’agente.
Alla declaratoria d’inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equo stabilire nella misura di 1.000,00 Euro.
P.Q.M.

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