Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 22 gennaio 2018, n. 2691. Esercizio abusivo della professione per il medico chirurgo che eserciti come odontoiatra

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La Corte di appello sarebbe incorsa in manifesta contraddittorieta’ della motivazione la’ dove, pur ritenendo che l’attivita’ di odontostomatologia potesse essere esercitata quale branca della chirurgia dal medico chirurgo generico non aveva poi apprezzato la formazione permanente che, nell’area indicata, sarebbe venuta al sanitario dal conseguimento di un master in “Implantoprotesi in Odontostomatologia” rispetto ad una materia obbligatoria e presente in un qualsiasi piano di studi della facolta’ di Medicina e Chirurgia.
La Corte di merito avrebbe poi travisato i contenuti dell’attivita’ svolta dal sanitario che aveva sempre operato come chirurgo predisponendo impianti ed incidendo su apparati mascellari, per modalita’ proprie della chirurgia orale, coadiuvato da altri medici e/o odontoiatri.
3.3. Con il terzo motivo si fa valere l’inosservanza e l’erronea applicazione della norma penale in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 348 cod. pen. e, sul punto, vizio di motivazione.
Il prevenuto non si sarebbe mai qualificato come odontoiatra, ma poiche’ operavano presso la (OMISSIS) odontoiatri iscritti al relativo albo, egli non avrebbe che esercitato il ruolo di direttore sanitario sull’operato dei primi.
Come evidenziato da una consultazione del sito web della struttura sanitaria da lui diretta, il (OMISSIS) si sarebbe qualificato in modo cristallino come medico chirurgo e nel descrivere la sua formazione professionale egli sarebbe stato guidato dalla convinzione di agire secondo legge e di svolgere attivita’ corrispondenti alle raggiunte competenze.
Tanto sarebbe valso, in ragione: del conseguimento dei master post universitari; delle prassi diffuse presso gli ospedali italiani sull’erogazione di prestazioni odontostomatologiche da parte di medici non iscritti all’albo degli odontoiatri; dello stato frammentario e farraginoso della normativa di settore.
Sarebbe mancato quindi nel giudizio della Corte di appello l’apprezzamento circa l’applicabilita’ dell’articolo 5 cod. pen. all’imputato, con riferimento alla norma extrapenale di definizione dell’atto medico in valutazione, in un quadro, tutt’altro che netto, definito oltre che dalla legislazione in vigore e dalle prassi ospedaliere, dalla giurisprudenza di merito – che si era espressa in senso contrario alla riserva agli iscritti all’albo degli odontoiatri delle attivita’ indicate nella legge istitutiva della professione -, dalla presa di posizione di taluni ordini professionali (tali quelli dei medici di Terni e di Brescia) e dalla stessa condotta del prevenuto, per le modalita’ secondo le quali egli rilasciava prescrizioni di protesi.
La Corte territoriale avrebbe altresi’ erroneamente attribuito rilevanza al decreto penale riportato dal prevenuto per una collaborazione prestata in favore di uno studio medico prima di conseguire la laurea nel 2007 in Italia dopo aver ottenuto all’estero, inutilmente perche’ poi non riconosciuto in territorio nazionale, un titolo in Medicina e Chirurgia con indirizzo in stomatologia.
3.4. Con il quarto motivo si denuncia l’erroneo diniego dell’articolo 131-bis cod. pen. e la mancanza sul punto di motivazione. La Corte territoriale, pur a fronte di specifica richiesta formulata in sede di conclusioni dal difensore, aveva omesso di pronunciare sulla non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto nonostante la non abitualita’ della condotta, la presenza dei limiti di pena previsti dalla norma, l’insussistenza di aggravanti legate alla futilita’ dei motivi o ad effetto speciale, oltre che in ragione delle modalita’ della condotta e dell’insussistenza del danno.
3.5. Con il quinto motivo si deduce inosservanza e/o erronea applicazione della norma penale e vizio di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio, diniego delle generiche e mancata sostituzione della pena detentiva (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), in relazione agli articoli 62-bis, 132 e 133 cod. pen.).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La trattazione delle questioni in diritto introdotte in ricorso vuole che si dia preliminare definizione, saggiandone finalita’ e ratio, del reato di “Esercizio abusivo di una professione” di cui all’articolo 348 cod. pen. per poi verificare se la norma incriminatrice legittimi le deduzioni difensive sui contenuti della legge istitutiva della figura dell’odontoiatra, la L. 24 luglio 1985, n. 409.
L’indicata disciplina normativa si vorrebbe in ricorso sostanzialmente affermativa di una equipollenza di competenze tra il sanitario che abbia conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia – in epoca successiva ai regimi transitori che hanno preceduto la piena affermazione delle previsioni della legge istitutiva, in un registrato susseguirsi di norme di settore ad ispirazione comunitaria -, osservando mirati percorsi di formazione e specializzazione, e chi abbia conseguito il medico che abbia conseguito il titolo in “Odontoiatria e protesi dentaria”.
A tanto varrebbe l’affermazione di una generale legittimazione del medico chirurgo ad esercitare la propria attivita’ in tutte le branche della medicina, nella comune finalita’ di diagnosi delle malattie e di cura propria della professione medica, in ragione della funzione sociale dalla stessa assolta.
2. L’esercizio abusivo della professione e’ figura delittuosa venuta ad esistenza con il codice penale del 1930, nella finalita’ di colmare quanto apprezzato dal legislatore dell’epoca come lacuna dell’allora previgente codice.
Inserito nel Capo 2, “Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione”, del Titolo 2 “Dei delitti contro la pubblica amministrazione”, del secondo libro del codice, l’articolo 348 cod. pen., per il quale, nella sua formulazione vigente all’epoca di adozione del dispositivo, “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello Stato, e’ punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da Euro 103 a Euro 516”, risponde all’intento del compilatore di “tutelare gli interessi generali, a cui e’ legato l’esercizio di alcune professioni” ed esprime il riconoscimento dell'”importanza di tali professioni” operato dallo Stato attraverso la subordinazione de “l’esercizio di esse ad una speciale abilitazione” (“Relazione del guardasigilli”, parte 2, pg. 154).
2.1. L’abilitazione all’esercizio della professione e’ elemento che segnando la distinzione tra professioni “protette” e “non protette” attribuisce fondamento costituzionale solo alle prime in quanto rette da ordini professionali (articolo 33 Cost., comma 5) per attivita’ che, rimesse nella loro determinazione alla legge, restano subordinate nel loro esercizio all’iscrizione in appositi albi o elenchi (in identica prospettiva nella disciplina civilistica, l’articolo 2229 cod. civ. dettato a definizione dell'”Esercizio delle professioni intellettuali”).
L’obbligatoria iscrizione ad appositi albi e l’appartenenza necessaria ad ordini o collegi assolvono, come osservato in dottrina, ad una duplice funzione che e’ da una parte quella di assoggettare il professionista alle regole deontologiche, al controllo e al potere disciplinare dell’ordine, in cui si inserisce la funzione di rendere pubblico il derivato status, in tal modo garantendo l’interesse generale al corretto esercizio della professione e l’affidamento della collettivita’.
L’esclusivita’ della funzione professionale, definita anche da limitazioni all’accesso imposte dal legislatore ordinario, rinviene giustificazione, come rilevato da attenti autori, per molte professioni, tra le quali quella sanitaria, proprio dall’esistenza di un effettivo interesse pubblico da tutelare.
2.2. In detto quadro vengono in considerazione da un canto il diritto al lavoro, riconosciuto e tutelato dalla Costituzione come manifestazione della liberta’ di scelta dell’attivita’ lavorativa (articolo 4 Cost., comma 1), da sempre inteso “come un mezzo fondamentale di attuazione dell’interesse allo sviluppo della sua personalita’”, che non puo’ essere limitata da divieti discriminatori o che sortiscano l’effetto di affievolirla gravemente o di rinnegarla (Corte cost. n. 61 del 06/07/1965) e dall’altro interessi della collettivita’, anch’essi costituzionalmente protetti, come i diritti fondamentali alla salute ed alla difesa (articoli 24 e 32 Cost.), all’incolumita’ pubblica e privata, alla cui tutela puo’ dirsi permeato l’intero disegno costituzionale dedicato ai diritti civili.

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