Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 21 settembre 2017, n. 43434. Non è configurabile il divieto di ne bis in idem nel caso di un soggetto detenuto che sia stato già sanzionato disciplinarmente

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Contro tale provvedimento, ha proposto ricorso immediato per cassazione, ex articolo 569 c.p.p., il PG distrettuale, denunciando violazione dell’articolo 649 c.p.p.: premessa la condivisione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cc.dd. “criteri Engel”) in applicazione dei quali valutare la natura in concreto penale o meno di una sanzione, il PG contesta la ritenuta assimilabilita’ dell’irrogata sanzione disciplinare (ex articoli 39 Ord. penit. e 77 Reg. penit.) ad una sanzione penale, contestandone il carattere della grave afflittivita’; di qui, l’asserita insussistenza della violazione del divieto di bis in idem al contrario ritenuta dalla sentenza impugnata.
All’odierna udienza pubblica, e’ stata verificata la regolarita’ degli avvisi di rito; all’esito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ fondato: la sentenza impugnata va, pertanto, annullata, con rinvio alla Corte di appello di Lecce per il giudizio.
1. Il divieto di bis in idem (dal brocardo Bis de eadem re ne sit actio) e’ sancito a livello convenzionale dall’articolo 4, § 1, del Protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle liberta’ fondamentali (d’ora in poi, Convenzione EDU): “nessuno puo’ essere perseguito o condannato pena/mente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”.
2. L’articolo 4, § 1, Prot. 7 ha costituito oggetto di plurimi interventi della Corte EDU, ed in particolare, da ultimo, di una decisione della Grande Chambre (sentenza 15 novembre 2016, caso A. e B. c. Norvegia).
2.1. La Grande Chambre ha rigettato il ricorso di due contribuenti che, per la medesima evasione fiscale, avevano riportato condanna in sede penale ed in sede amministrativa (ad una sanzione tributaria), valorizzando, per escludere che fosse stato violato il divieto di bis in idem:
– la agevole prevedibilita’, secondo la normativa interna, del fatto che, in conseguenza dell’accertata evasione fiscale, potessero essere instaurati in danno dei ricorrenti due distinti procedimenti, finalizzati l’uno all’irrogazione della sanzione penale, l’altro di quella amministrativa (tributaria);
– la sostanziale contestualita’ dei due distinti procedimenti;
– l’intervenuto richiamo, nell’ambito del procedimento penale, dei fatti accertati nel procedimento amministrativo;
– l’intervenuta determinazione della sanzione penale irrogata in concreto, tenendo conto anche di quella sanzione amministrativa (tributaria) gia’ irrogata ai ricorrenti.
Per tali ragioni, la Corte EDU ha affermato che, pur essendo stati formalmente celebrati in danno dei ricorrenti, per lo stesso fatto, due distinti procedimenti, che avevano conclusivamente comportato l’irrogazione, in danno dei predetti, di due distinte sanzioni, in concreto, i predetti procedimenti avevano costituito distinti segmenti di un medesimo, complesso, unitario iter giudiziario.
2.2. La citata decisione della Grande Chambre della Corte EDU ha richiamato, per determinare l’identita’ del fatto contestato (che costituisce uno dei presupposti di operativita’ del divieto de quo), la sua precedente sentenza del 10 febbraio 2009, caso Serguei Zolotoukhine c. Russia: “a partire da tale sentenza, e’ chiaro che la questione di stabilire se entrambi i procedimenti riguardassero lo stesso reato deve essere analizzata sulla base dei soli fatti (si vedano in particolare i paragrafi 82 e 84 della sentenza). I due procedimenti verteranno sullo stesso reato se traggono origine da “fatti identici o fatti che sono sostanzialmente gli stessi” (§ 82). E’ dunque necessario che “l’esame riguardi quei fatti che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete che implicano la stessa persona e indissolubilmente legate tra loro dal punto di vista temporale e dello spazio” (§ 84)”.
2.3. La sentenza emessa della Grande Chambre della Corte EDU nel caso A. e B. c. Norvegia ha ribadito anche la necessita’ di far riferimento ai cc. dd. “criteri Engel” (cosi’ definiti in riferimento alla sentenza che per prima li enuncio’: Corte EDU, 8 giugno 1976, caso Engel c. Paesi Bassi) per qualificare la natura “sostanzialmente penale” delle sanzioni irrogabili per uno stesso fatto (che costituisce altro presupposto di operativita’ del divieto de quo), ed evitare che gli ordinamenti nazionali, per eludere il predetto divieto, con una sorta di “frode delle etichette” qualifichino formalmente come amministrative sanzioni sostanzialmente penali:
– la qualificazione giuridica dell’infrazione nel diritto interno;
– la natura dell’infrazione o dell’illecito;
– il grado di severita’ della sanzione applicabile.
Trattasi di criteri validi anche alternativamente, che non devono quindi necessariamente concorrere.
2.4. La Grande Chambre ha, invece, ritenuto non piu’ necessaria l’interruzione del procedimento ancora pendente all’atto della definitivita’ di quello concomitante avente ad oggetto l’idem factum, fissando una regola nuova, secondo la quale la violazione del divieto di bis in idem sancito dall’articolo 4, Prot. 7, Conv. EDU e’ esclusa, ed i distinti procedimenti finalizzati all’irrogazione di sanzioni penali ed amministrative possono essere portati entrambi a conclusione, quando tra essi sussista un “nesso materiale e temporale sufficientemente stretto”: “in altre parole, deve essere dimostrato che questi ultimi si combinavano in maniera da essere integrati in un tutto coerente. Questo significa non solo che gli scopi perseguiti e i mezzi utilizzati per raggiungerli devono essere in sostanza complementari e presentare un nesso temporale, ma anche che le eventuali conseguenze derivanti da una tale organizzazione del trattamento giuridico del comportamento in questione devono essere proporzionate e prevedibili per la persona sottoposta alla giustizia” (§ 130).

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