Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 22 marzo 2016, n. 5594
Svolgimento del processo
Con separati atti di citazione M.E. , W. e A.M. e V.N. , comproprietari pro diviso in (OMISSIS) di un fabbricato elevato per due piani, con terreno circostante per tre lati, convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale locale, D.A. e F. e A.A. , comproprietari confinanti che avevano demolito e ricostruito sul loro terreno il fabbricato ivi esistente. Gli attori lamentavano che tale ricostruzione era avvenuta violando la norma sulle distanze contenuta nell’art. 5, comma 11 delle N.T.A (norme tecniche d’attuazione) del P.R.G. (piano regolatore generale), la quale, per gli edifici di nuova costruzione, prevedeva la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, nonché il distacco minimo assoluto di mt. 5 dai confini del lotto edificabile.
I convenuti nel resistere in giudizio proponevano domanda riconvenzionale – fra altre, non più oggetto di controversia in questa sede di legittimità – intesa alla condanna degli attori a rimuovere un balcone posto al primo piano sul lato ovest del loro fabbricato, in quanto posto a distanza inferiore a quella stabilita dall’art. 905, cpv. c.c..
Riunite le cause, il Tribunale accoglieva parzialmente le due domande e (a parte le altre statuizioni su capi di domanda non più in questione) condannava i convenuti ad arretrare la loro costruzione a mt. 6 dalla parete nord dell’edificio degli attori e a mt. 5 dal confine, e gli attori ad eliminare il balcone posto al primo piano sul lato ovest del loro edificio.
La Corte d’appello dell’Aquila, parzialmente riformando la decisione di primo grado, condannava i D. -A. ad arretrare il loro fabbricato in modo tale che la parete sud, con la sola eccezione del settore realizzato in aderenza, venisse a trovarsi ad una distanza minima di mt. 10 dalla parete nord dell’edificio di proprietà M. -V. ; i quali ultimi condannava a trasformare, in luogo che ad eliminare, il balcone del primo piano lato ovest, mediante opere ed accorgimenti idonei ad impedire l’esercizio della servitù di veduta.
A base della sentenza d’appello, le seguenti considerazioni, essenziali e limitate ai profili ancora in questione tra le parti. Correttamente il Tribunale aveva ritenuto applicabili gli arti. 1.6.4. e 1.6.5. della N.T.A. della variante al P.R.G., anziché l’art. 6 del Piano particolareggiato. Ciò in quanto il richiamo di quest’ultima norma alle disposizioni generali del P.R.G., specificate nelle lett. a), b), c) e d) doveva riferirsi alle norme della variante sostitutive del P.R.G..
Ulteriore conferma si traeva dalla circostanza che la nuova costruzione di proprietà D. -A. fronteggiava con una parete finestrata, tale dovendosi qualificare per la presenza di un balcone, la parete anch’essa finestrata del fabbricato dei M. -V. , legittimamente costruito prima dell’adozione del P.R.G. Tale ipotesi, proseguiva la Corte territoriale, non era regolata dalle N.T.A. del Piano particolareggiato, sicché doveva essere ricondotta alle N.T.A. della variante al P.R.G., le cui disposizioni, per il caso specifico, non aveva portata residuale rispetto al Piano particolareggiato. Quanto alla parete munita di balcone ad andamento circolare, la qualificazione di parte finestrata derivava dal fatto che a) le vedute dirette e i balconi sono assoggettati dall’art. 905 c.c. alla medesima distanza rispetto al fonde del vicino; b) la realizzazione di un balcone è idonea a migliorare ed ampliare sia l’inspectio che la prospectio in alienum rispetto a una finestra; c) nella specie, il balcone realizzato dai D. -A. sulla parete sud del loro edificio, era dotato, anche se sul lato ovest, di porte-finestre che consentivano di accedervi; d) chiusa doveva considerarsi soltanto la struttura in vetrocemento, non già il balcone ad essa antistante. Pertanto, dall’applicazione delle norme degli artt. 1.6.4., comma secondo, e 1.6.5, comma terzo, delle N.T.A. della variante al P.R.G., i quali stabilivano che la distanza minima tra pareti finestrate di edifici di nuova costruzione e pareti di edifici antistanti doveva essere pari all’altezza del fabbricato più altro, con un minimo di mt. 10, derivava che i D. -A. dovevano arretrare la parete sud del loro edificio in maniera tale che questo venisse a trovarsi ad una distanza minima di mt. 10 dalla parete nord del fabbricato dei M. -V. .
Infine, doveva ritenersi ammissibile, poiché costituiva soltanto la specificazione di un profilo del thema decidendum già dedotto in lite, la richiesta avanzata in subordine dai M. -V. , di ottemperare alla condanna a rimuovere la venduta mediante la trasformazione di quest’ultima in luce. Tale operazione era sempre praticabile ai sensi dell’art. 902 c.c., per cui D. -A. non avevano interesse ad opporvisi.
Per la cassazione di tale sentenza D.F. e A. e A.A. propongono ricorso, affidato a quattro motivi.
Resistono con controricorso M.E., W. e A.M. e V.N..
Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. – Preliminarmente va respinta l’eccezione d’improcedibilità del ricorso sollevata dalla parte controricorrente.
Contrariamente a quanto opina detta parte, il termine di 20 gg. dall’ultima notificazione per depositare il ricorso nella cancelleria della Corte, previsto dall’art. 369, 1 comma c.p.c., decorre non dalla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione, ma da quello di ricezione dell’atto da parte del destinatario (cfr. Cass. n. 24639/15). Ciò in quanto la distinzione dei momenti di perfezionamento della notifica per il notificante e il destinatario dell’atto, risultante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, trova applicazione solo quando dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la parte di questo sottratta alla disponibilità del notificante, potrebbero derivare conseguenze negative per il notificante, quale la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibile all’ufficiale giudiziario, non anche quando la norma preveda che un termine debba decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal tempo dell’avvenuta notificazione, come per il deposito del ricorso per cassazione e del controricorso, dovendo essa in tal caso intendersi per entrambe le parti perfezionata, come si ricava dal tenore testuale dell’art. 369 c.p.c., al momento della ricezione dell’ano da parte del destinatario, contro cui l’impugnazione è rivolta (Cass. nri. 24346/13, 10837/07 e 13065/04).
1-bis. – Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 873 c.c., e degli artt. 1.6.4 e 1.6.5. delle N.T.A. del P.R.G. del comune di Giulianova, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c..
Il motivo deduce che il Tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, hanno ritenuto, in sostanza, che ai fini del computo delle distanze debba farsi riferimento alle N.T.A. introdotte dal P.R.G. del 1994, poiché detta nuova disciplina ha integralmente soppiantato quella introdotta dal P.R.G. del 1985, ivi inclusa quella contenuta nel Piano particolareggiato del 1985. Sostiene, quindi, la parte ricorrente che tale tesi sarebbe smentita sia dall’art. 1.6.4., comma 1, delle N.T.A. del P.R.G., il quale dispone che, fatte salve le specifiche prescrizioni di zona e le prescrizioni degli strumenti urbanistici attuativi con previsioni plano volumetriche, tra pareti di edifici antistanti vanno rispettati distacchi come prescritti ai commi seguenti; sia dal successivo art. 1.6.5., comma 1, che del pari contiene analoga espressione (“fermo restando le distanze tra fabbricati così come indicate al precedente art. 1.6.4. e le specifiche prescrizioni delle norme di zona e degli strumenti attuativi con previsioni plano volumetriche…”).
Le disposizioni contenute nel P.R.G. del 1994, prosegue il motivo, hanno portata residuale e la loro applicazione interviene solo in mancanza di una specifica disciplina di zona ovvero un di un Piano particolareggiato. Nella vicenda in esame, pertanto, esistendo un Piano particolareggiato per le zone C1 – G4 (in cui ricade l’immobile di proprietà dei ricorrenti) le norme sulle distanze introdotte con la variante al P.R.G. del 1994 non potevano trovare applicazione, occorrendo fare riferimento esclusivo alle diverse norme previste dal Piano particolareggiato facente parte del P.R.G. del 1985. In particolare, l’art. 6, lett. c) delle N.T.A. del Piano particolareggiato dispone che “Ugualmente una distanza pari ad un mezzo dell’altezza dell’edificio più alto ed in ogni caso mai inferiore a mt. 6 deve essere rispettata in caso di nuova costruzione che fronteggi con una parete non finestrata un fabbricato con parete finestrata legittimamente costruito prima della data di adozione del P.R.G. da parte del Consiglio Comunale. Il distacco del nuovo edificio dal confine del lotto non potrà essere, tuttavia, inferiore ad un quarto dell’altezza dell’edificio più alto e comunque mai inferiore a mt. 3,00”. Da tale norma, prosegue parte ricorrente, emerge che la realizzazione di un edificio demolito, ove abbia luogo all’interno della zona C1 – G4, deve essere posizionato ad almeno mt. 3 dal confine e ad almeno mt. 6 dall’edificio antistante. Distanze, queste, che risultano entrambe rispettate dal fabbricato dei D. -A. .
Detto motivo d’impugnazione mette capo, quindi, al seguente quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis (essendo state pubblicata la sentenza d’appello il P.10.2008): “Dica l’Ecc.ma Corte adita se per individuare, ai sensi dell’art. 873 c.c., la disciplina integrativa delle distanze nelle nuove costruzioni vigente nel Comune di Giulianova, si debba fare riferimento alle norme di cui agli artt. 1.6.4. e 1.6.5. delle N.T.A. del P.R.G. ovvero all’art. 6, lett. c) delle N.T.A. del Piano particolareggiato”.
2. – Il secondo mezzo lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in rapporto all’art. 6 delle N.T.A. del Piano particolareggiato, e in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c..
Ad avviso della Corte aquilana la fattispecie in esame in ogni caso non sarebbe riconducibile all’art. 6 delle N.T.A. del Piano particolareggiato in quanto la nuova costruzione dei D. -A. fronteggia con una parete finestrata, come tale da qualificarsi, stante la presenza del balcone, un fabbricato con parete anch’essa finestrata, legittimamente costruito prima dell’adozione del P.R.G. Detta tesi, che poggia sul presupposto per cui la parete circolare realizzata sul lato sud del fabbricato degli odierni ricorrenti sia finestrata in quanto munita di balcone, sarebbe eversiva della lettera della disposizione in oggetto, che in maniera chiara e univoca si riferisce alle pareti prive di finestre, non anche a quelle prive di balcone.
Nei termini seguenti, il quesito: “Dica l’Ecc.ma Corte adita se l’art. 6, lett. c), delle N T A. del Piano particolareggiato del Comune di Giulianova contenente la disciplina integrativa delle distanze nelle nuove costruzioni ai sensi dell’art. 873 c.c., debba essere interpretato nel senso che sono pareti finestrate solo quelle munite di aperture ovvero anche quelle prive di apertura, ma dotate di balconi aggettanti”.
3. – Il terzo motivo lamenta l’insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione alla condanna dei ricorrenti ad arretrare la parete sud del loro edificio, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. Deduce parte ricorrente che nella vicenda in esame la parete nord dell’edificio dei M. -V. è posta sul confine solo nel tratto realizzato in aderenza e in quello est, viceversa, nel lato ovest della costruzione in aderenza la parete nord dell’edificio M. si trova ad una distanza di circa mt. 4 dal confine. Ne consegue che il lato ovest della parete sud dell’edificio degli odierni ricorrenti non deve essere arretrato di mt. 10 dalla linea di confine, ma soltanto di mt. 6.
Per quanto concerne, invece, il lato est della parete sud del fabbricato dei ricorrenti, non vi è agli atti di causa alcuna prova che tale parete sia finestrata, sicché neanche in questo caso i ricorrenti sono tenuti ad arretrare il loro edificio di mt. 10 dal confine.
Parte ricorrente espone, pertanto, il seguente quesito (rette, momento di sintesi): “Dica l’Ecc.ma Corte adita se la condanna dei ricorrenti ad arretrare l’edificio di loro proprietà, in modo che la parete sud di detto edificio (con la 9 sola eccezione del settore realizzato in aderenza) venga a trovarsi ad una distanza di mt. 10 dalla parete nord del fabbricato M. posta sul confine sia viziata da un duplice erroneo presupposto: a) che la suddetta parete si trovi tutta sul confine, laddove invece, nel lato ovest tale edificio si trova ad una distanza di oltre 4,00 mt. dal confine; b) che il lato est della parete sud dell’edificio D. -A. sia una parete finestrata laddove tale circostanza non emerge in alcun modo dalle risultanze istruttorie”.
4. – Il quarto motivo deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 1.6.5. delle N.T.A. del P.R.G. ovvero dell’art. 6, lett. c) delle N.T.A. del Piano particolareggiato, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Corte distrettuale ha ritenuto di accogliere la “domanda” subordinata dei M. -V. volta a regolarizzare la veduta illegittima trasformandola in luce. Sennonché tale regolarizzazione, astrattamente legittima, nella fattispecie concreta comporta la realizzazione di opere non precarie, ovvero di una parete in muratura o vetrocemento a soli 27 cm. dalla linea di confine con la proprietà D. -A. , e dunque la violazione dell’art. 1.6.5. N.T.A. del P.R.G. (che la stessa Corte d’appello ha ritenuto applicabile), che impone un distacco minimo dal confine di mt. 5; ovvero dell’art. 6, lett. c), N.T.A. del Piano particolareggiato (come invece sostengono i ricorrenti), che prevede una distanza di almeno mt. 3. In sostanza, pertanto, per sanare la veduta illegittimamente aperta dai M. -V. sulla proprietà D. -A. , la sentenza impugnata consente la realizzazione di una nuova costruzione, in aperta violazione delle suddette norme che prescrivono una distanza maggiore rispetto a quella che sarebbe possibile rispettare.
Il motivo termina con il seguente quesito: “Dica l’Ecc.ma Corte adita se la regolarizzazione della veduta rappresentata dal balcone, realizzato sul lato ovest del fabbricato M. , comporti la violazione dell’art. 873 c.c. in relazione all’art. 1.6.5. delle N.T.A. del P.R.G. ovvero dell’art. 6 lett. c) N.T.A. del Piano particolareggiato”.
5. – I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati perché presuppongono che la parete sud del fabbricato dei ricorrenti non sia finestrata, a norma delle N.T.A., in quanto il balcone ivi esistente non sarebbe da considerarsi quale finestra a tal fine.
In senso opposto va osservato, invece che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell’articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 2 aprile 1968 – applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150, come modificata dalla legge 6 agosto 1967 n. 765 – stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 6 agosto 1967 n. 765, che, con l’articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 l’articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 2 aprile 1968, che all’articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (Cass. n. 17089/06).
Del resto, se anche le pareti finestrate fossero solo quelle munite di finestre e non anche quelle dotate di balconi, questi ultimi sarebbero pur sempre da considerare come parte della costruzione ai fini della distanza. E poiché, nella specie, gli stessi ricorrenti sostengono (v. pag. 24 del ricorso) che la parete del loro fabbricato è posta a mt. 3,10 dal confine, la presenza del balcone, che per definizione non può essere profondo soli 10 cm., già porterebbe la parete ad essere ad una distanza inferiore a quella legale, anche a voler applicare l’art. 6, lett. c), N.T.A. del Piano particolareggiato.
6. – Il terzo motivo è inammissibile, perché non soddisfa il requisito di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c..
Il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. ex multis, Cass. nn. 14784/15, 8569/13, 4220/12, 6937/10, 15952/07 e 14767/07).
Nello specifico la censura si basa su due fatti – l’essere la parete nord del fabbricato di proprietà M. ad una distanza di circa mt. 4 dal confine, e l’essere il lato est della parete sud dell’edificio D. -A. una parete non finestrata – contrari a quanto, invece, accertato dalla sentenza impugnata. Per contrastare adeguatamente i quali la parte ricorrente avrebbe dovuto indicare e depositare, a mente dell’articolo citato, i documenti o gli atti processuali da cui si ricaverebbero, invece, le circostanze opposte. In difetto, la censura è da ritenersi inammissibile.
7. – Il quarto motivo è fondato.
Il capo di decisione impugnato si basa su di un non meditato automatismo applicativo, indotto dal richiamo a Cass. n. 1511/82, secondo cui nel caso di apertura di veduta abusiva, l’offerta di rimuovere la violazione mediante trasformazione della medesima in luce non può essere disattesa dal giudice, in quanto tale trasformazione – comunque sempre praticabile ai sensi dell’art. 903 c.c. e con le caratteristiche di cui al precedente art. 901 – si risolve in eliminazione della veduta abusiva, con conseguente restaurazione del diritto del vicino da essa leso.
Posto che le luci si aprono sul “muro” comune o non “contiguo al fondo altrui” (art. 903, primo comma c.c.), la facoltà di trasformare una veduta in luce presuppone che anche questa debba essere aperta lungo il medesimo muro preesistente, in mancanza del quale non può darsi trasformazione dell’una apertura nell’altra. È intrinsecamente contraddittorio, rispetto agli artt. 901 e 903 c.c., ipotizzare che la veduta esercitata da un balcone posto a distanza inferiore a quella di cui all’art. 905, cpv. c.c., possa essere eliminata e trasformata in luce previo tamponamento su tre lati del balcone stesso, cioè creando ex novo dei muri che, a loro volta, integrerebbero gli estremi di una costruzione da tenere a distanza ancora maggiore. E ciò per la semplice eppur ottima ragione che la reintegrazione di un diritto leso non può essere attuata provocando una lesione di tipo diverso.
Né varrebbe replicare che una tale diversa lesione esulerebbe dalla causa petendi della domanda diretta alla rimozione della veduta. L’obiezione proverebbe troppo, ove si consideri che come l’attore così neppure il convenuto può conseguire dal processo un’utilità che sia altra rispetto al tema in discussione.
8. – Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata va cassata limitatamente al quarto motivo, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello dell’Aquila, che nel decidere la residua questione di merito riguardante l’individuazione delle opere necessarie all’eliminazione della veduta, si atterrà al seguente principio di diritto: “la facoltà di trasformare una veduta illegittima in luce, quale si desume dall’art. 903 c.c., presuppone che anche questa debba essere aperta lungo il medesimo muro preesistente, in mancanza del quale non può darsi trasformazione dell’una apertura nell’altra. È pertanto da escludere che la veduta esercitata da un balcone posto a distanza inferiore a quella di cui all’art. 905, cpv. c.c., possa essere eliminata e trasformata in luce previo tamponamento su tre lati del balcone stesso, cioè creando ex novo dei muri che, a loro volta, integrerebbero gli estremi di una costruzione da tenere a distanza ancora maggiore, in quanto la reintegrazione di un diritto leso non può essere attuata provocando una lesione di tipo diverso”.
8.1. – Ai sensi dell’art. 385, 3 comma c.p.c., al giudice di rinvio si rimette anche il regolamento delle spese di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo, respinti gli altri, cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello dell’Aquila, che provvederà anche sulle spese di cassazione.
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