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Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 12 febbraio 2014, n. 3207

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 25-5-1999 V.F. conveniva dinanzi al Tribunale di Savona P.M. e Ma. , assumendo che con contratto preliminare del 31-3-1995 P.M. , dante causa dei convenuti, si era impegnato a trasferirgli la proprietà di un terreno in (…), a fronte dell’obbligo del V. di cedergli una quota pari al 20% della volumetria edificabile. L’attore, nel far presente che l’efficacia del contratto era subordinata al rilascio della concessione ad edificare e che l’iter burocratico della concessione si era prolungato per motivi dipendenti dai tempi tecnici necessari degli uffici preposti, deduceva che, a seguito del decesso di p.m. , gli eredi P.M. e Ma. , pur essendosi in un primo tempo dichiarati disponibili ad adempiere il contratto, in seguito si erano rifiutati di dare esecuzione all’impegno. Tanto premesso, il V. chiedeva, ai sensi dell’art. 2932 c.c., l’emissione di sentenza sostitutiva del contratto non concluso, con condanna dei convenuti al risarcimento dei danni.
Nel costituirsi, i P. dichiaravano di non conoscere la firma apposta in calce alla scrittura attribuita al loro dante causa; negavano di avere in qualche modo ratificato il contratto e di avere assunto, in proposito, alcuna obbligazione. Essi sostenevano, comunque, che il V. si era reso inadempiente, non essendosi adoperato in tempo debito per predisporre un valido progetto, ed evidenziavano di avere indirizzato alla controparte una diffida ad adempiere a seguito della quale, non avendo l’attore adempiuto, il contratto doveva ritenersi risolto di diritto. I P. , pertanto, chiedevano che venisse accertata l’inesistenza del diritto azionato e, in via subordinata, che venisse dichiarata la risoluzione di diritto del preliminare o la risoluzione di tale contratto per inadempimento dell’attore.
Con memoria del 27-4-2000 l’attore, avendo accertato che nell’aprile del 1999 i P. avevano alienato a terzi il terreno oggetto di causa, modificava la domanda, chiedendo la risoluzione del contratto preliminare per colpa dei convenuti e la condanna di questi ultimi al risarcimento dei danni.
Con sentenza in data 29-5-2003 il Tribunale dichiarava risolto il contratto preliminare per inadempimento dei convenuti, condannando i medesimi a pagare all’attore, a titolo di risarcimento del danno, la somma di Euro 77.000,00, oltre interessi legali.
Avverso la predetta decisione proponevano appello principale il V. e appello incidentale i P. .
Con sentenza non definitiva depositata il 21-1-2006 la Corte di Appello di Genova rigettava l’appello incidentale; in accoglimento del secondo e terzo motivo di appello principale, dichiarava i P. tenuti a rifondere al V. gli oneri di consulenza tecnica d’ufficio, come liquidati dal Tribunale, e i costi di progettazione dell’intervento per cui è causa, nella misura di Euro 16.260,00, oltre interessi e rivalutazione; riservava al prosieguo la determinazione del lucro cessante, disponendo a tal fine, con separata ordinanza, un supplemento di indagini tecniche.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso P.M. e Ma. , sulla base di cinque motivi.
V.F. ha resistito con controricorso.
Successivamente, con sentenza definitiva in data 13-11-2012, la Corte di Appello di Genova, in accoglimento del primo motivo dell’appello principale proposto dal V. , condannava i convenuti, in solido, a pagare all’attore, a titolo di lucro cessante, la somma di Euro 91.765,89, oltre agli interessi legali dal 19-5-2003 al saldo.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso Pe.Ma. e M. , sulla base di due motivi.
V.F. ha resistito con controricorso.
A seguito dell’istanza di riunione proposta dai ricorrenti, la trattazione dei due ricorsi è stata fissata per la stessa udienza.
Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1) Preliminarmente, in accoglimento della richiesta formulata dai ricorrenti, va disposta la riunione dei due ricorsi, proposti rispettivamente contro la sentenza non definitiva e quella definitiva pronunciate nell’ambito dello stesso giudizio dalla Corte di Appello di Genova.
Nella specie, va fatta applicazione del principio enunciato dalla giurisprudenza, secondo cui i ricorsi per cassazione proposti contro sentenze le quali, integrandosi reciprocamente, definiscono un unico giudizio (come, nel caso in esame, la sentenza non definitiva e quella definitiva), vanno riuniti, trattandosi di un caso assimilabile a quello – previsto dall’art. 335 cpc – della proposizione di più impugnazioni contro una medesima sentenza (Cass. 1-4-2004 n. 6391; Cass. 10-7-2001 n. 9377; Cass. 10 maggio 1983, n. 3202).
2) Nell’esaminare il ricorso proposto avverso la sentenza non definitiva, per ragioni di ordine logico-giuridco va data priorità al quinto motivo.
Con tale motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115, 116 e 217 c.p.c., nonché l’omessa e contraddittoria motivazione, in relazione alla ritenuta autenticità della sottoscrizione di P.M. apposta al contratto preliminare. Secondo i ricorrenti, la prova dell’autenticità di tale sottoscrizione non poteva essere desunta dalla deposizione di un solo teste, negando ingresso alla già disposta consulenza tecnica d’ufficio, che costituisce l’elemento probatorio più qualificato per l’accertamento dell’autenticità di una sottoscrizione.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha ritenuto provata l’autenticità della sottoscrizione apposta al contratto preliminare da P.M. , sulla base della deposizione testimoniale resa dall’avv. Levati, il quale ha dichiarato di aver personalmente redatto la scrittura, raccogliendo le firme dei contraenti, che vennero apposte in sua presenza. Essa, conseguentemente, ha escluso la necessità di ricorrere ad indagini grafologiche.
La decisione impugnata si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti, essendo sorretta da una motivazione immune da vizi logici e corretta sul piano giuridico.
E invero, come è stato più volte affermato da questa Corte, nel procedimento di verificazione della scrittura privata, il giudice del merito, ancorché abbia disposto una consulenza grafica sull’autografia di una scrittura disconosciuta, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di ogni altro elemento di prova obiettivamente conferente, comprese le risultanze della prova testimoniale, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di accertamento della verità (Cass. 20-4-2007 n. 9523; Cass. 20-5-2004 n. 9631; Cass. 1-3-2002 n. 3009). La consulenza grafologica, infatti, non costituisce un mezzo imprescindibile per la verifica dell’autenticità della sottoscrizione, potendo il giudice, come si desume dalla formulazione dell’art. 217 cpc, evitare di fare ricorso ad essa, ove tale accertamento possa essere effettuato direttamente sulla base degli elementi acquisiti o mediante l’espletamento di altri mezzi istruttori (Cass. 28-4-2005 n. 8881; Cass. 29-1-2003 n. 1282; Cass. 11-6-1991 n. 6613).
3) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1353 ss., 1362, 1363, 1366, 1369 e 1371 c.c., nonché l’omessa e contraddittoria motivazione. Sostengono che la Corte di Appello ha dato una interpretazione del contratto preliminare contrastante con il senso letterale delle parole usate dalle parti, le quali, nel determinare il corrispettivo della vendita nella misura del 20% della planimetria ricavabile dal “vigente” piano di zona, hanno fatto espresso riferimento al piano di zona in vigore al momento della stipula dello stesso preliminare. Sostengono che il complesso delle clausole contrattuali conferma il riferimento delle parti allo strumento urbanistico in vigore all’epoca della conclusione del contratto, e che l’interpretazione del giudice di merito, il quale ha riferito il termine “vigente” ad un momento successivo indefinito, temporalmente non circoscritto, si pone in contrasto anche con il principio della buona fede di cui all’art. 1366 c.c. e con i canoni interpretativi di cui agli artt. 1369 e 1371 c.c.. Rilevano che, poiché alla data di stipulazione del contratto preliminare (31-3-1995) il piano di zona all’epoca vigente considerava il terreno in questione come “zona servizi”, destinata all’insediamento di chiese, scuole e asili, la condizione sospensiva apposta a tale contratto, che subordinava la relativa efficacia al rilascio della concessione a costruire, era impossibile o illecita, con conseguente nullità del contratto (art. 1354 c.c.). La Corte territoriale, invece, ponendosi in inconciliabile contrasto con il senso letterale e complessivo delle espressioni usate, che facevano espresso riferimento al piano di zona ed alla possibilità edificatoria in vigore, ha ritenuto che le parti si erano limitate a prevedere come possibile l’assentimento della concessione a costruire in base ad una variazione degli strumenti urbanistici.
Il motivo è infondato.
La condizione sospensiva apposta alla scrittura privata del 31-3-1995, integralmente trascritta dai ricorrenti, così recita: “La validità ed efficacia del presente atto è subordinata all’effettivo rilascio da parte del Comune di Spotorno di concessione ad edificare su detto terreno“.
La Corte di Appello ha disatteso il motivo di gravame incidentale volto a sostenere l’impossibilità o illiceità di tale condizione sospensiva, rilevando che, con la scrittura in esame, le parti si sono limitate a prevedere come possibile l’assentimento della concessione a costruire in base ad una variazione degli strumenti urbanistici all’epoca esistenti, ed in tal senso hanno subordinato sospensivamente l’efficacia del negozio al rilascio di tale concessione. Nel disattendere le censure mosse al riguardo dai P. , il giudice del gravame ha rilevato che dallo scarno tenore dell’atto in questione non si evince alcun cenno all’aggancio del verificarsi della condizione alla vigenza del piano di zona, né si ravvisa alcuna previsione di un termine entro il quale il mutamento del regime edilizio avrebbe potuto utilmente intervenire; sicché il mutamento del regime attuato con l’approvazione del nuovo piano regolatore del Comune di Spotorno, lungi dal costituire un evento determinativo dell’inefficacia del contratto, ha costituito l’evento che ha consentito la presentazione del progetto da parte del V. .
Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata riguardo alla validità della condizione sospensiva in esame, come sopra interpretata, appaiono rispondenti all’orientamento della giurisprudenza, secondo cui la vendita di un terreno, che venga stipulata per consentire all’acquirente una sua utilizzazione edificatoria, al momento non permessa dagli strumenti urbanistici, e venga quindi sottoposta alla condizione sospensiva della futura approvazione di una variante di detti strumenti che contempli quell’utilizzazione, non è affetta da nullità, né sotto il profilo dell’impossibilità dell’oggetto, né sotto il profilo dell’impossibilità della condizione, dovendosi ritenere consentito alle parti di dedurre come condizione sospensiva anche un mutamento di legislazione o di norme operanti “erga omnes”, salva restando l’inefficacia del contratto in conseguenza del mancato verificarsi di tale mutamento (Cass. 10-1-1986 n. 74).
L’interpretazione della clausola in questione fornita dalla Corte territoriale è esaustiva e logica, e risulta conforme ai canoni ermeneutici dettati dall’art. 1362 c.c. e segg., i quali impongono di ricostruire la volontà contrattuale innanzitutto mediante l’individuazione del senso letterale delle espressioni usate e della comune intenzione delle parti, quale emerge dalla lettura complessiva del programma negoziale, ed attribuiscono una portata meramente sussidiaria agli altri criteri interpretativi, tra i quali il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, la cui utilizzazione è consentita soltanto ove il giudice di merito dimostri, con argomentazioni convincenti, l’impossibilità, e non già la mera difficoltà, di pervenire, attraverso l’interpretazione letterale, alla conoscenza della comune intenzione dei contraenti (cfr. Cass. 19-7-2012 n. 12535; Cass. 23-4-2010 n. 9786; Cass. 20-8-2002 n. 12268; Cass. 18-4-2002, n. 56359). Nella specie, il giudice di appello si è adeguato a tali principi, avendo ricercato la comune intenzione delle parti sulla base del dato letterale della scrittura privata in oggetto e di una valutazione complessiva delle clausole contrattuali, per rimarcarne l’inidoneità a suffragare l’assunto degli appellanti incidentali, secondo cui le parti avrebbero inteso condizionare l’efficacia del preliminare al rilascio della concessione edilizia in base al piano di zona vigente al momento della stipula di tale contratto; strumento urbanistico che, in realtà, non consentiva alcuna possibilità edificatoria.
Non sussistono, pertanto, i vizi denunciati dai ricorrenti, dovendosi piuttosto rilevare che questi ultimi, nell’insistere nel sostenere che la condizione sospensiva apposta al contratto preliminare faceva riferimento alle possibilità edificatorie consentite dallo strumento urbanistico all’epoca in vigore, propone una diversa lettura dal testo della clausola controversa, sollecitando un’indagine che esorbita dai rigorosi limiti entro cui deve essere condotta, nel giudizio di legittimità, la verifica della correttezza dell’interpretazione data all’atto negoziale dal giudice di merito.
In tema di interpretazione del contratto, infatti, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l'”iter” logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche (tra le tante v. Cass. 13-12-2006 n. 26683; Cass. 23-8-2006 n. 18375; Cass. 27-1-2006 n. 1754); ipotesi che non ricorre nella fattispecie in esame.
4) Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 1453, 1454, 1455, 1375 c.c., nonché l’omessa e contraddittoria motivazione. Sostengono che la Corte di Appello ha erroneamente ritenuto “ambiguo” il comportamento dei P. , per il fatto che questi ultimi, pur proseguendo nella trattativa, inviavano ripetute diffide ad adempiere con tempi ridotti per la definizione, superate di volta in volta dalla fattuale prosecuzione delle trattative. Rilevano che le trattative svolte successivamente allo spirare del termine apposto in una diffida ad adempiere non comportano rinuncia agli effetti dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto conseguente all’infruttuoso decorrere del termine assegnato alla controparte; e che, allo stesso modo, la successiva diffida ad adempiere non può interpretarsi come rinuncia alla operatività della prima. Evidenziano, inoltre, che l’asserita incongruità del termine assegnato non comporta l’inefficacia della diffida ad adempiere, ma solo la facoltà per l’intimato di richiedere la fissazione di un termine maggiore. Deducono, pertanto, che nella specie il contratto preliminare si è risolto di diritto a seguito della mancata ottemperanza del V. alla diffida ad adempiere inviatagli in data 24-9-1997, non avendo l’attore contestato la congruità del termine assegnatogli. Sostengono, inoltre, che la Corte territoriale ha omesso ogni valutazione in ordine al comportamento inadempiente e contrario a buona fede tenuto dal V. , il quale, in particolare, con raccomandata del 10-3-1999 del proprio legale, nel rispondere alla diffida, assumeva, contrariamente al vero, che il progetto era stato presentato il 3-2-1999, e nel progetto depositato il 9-3-1999 indicava una superficie del lotto superiore a quella effettiva e a quella massima realizzabile secondo gli strumenti urbanistici all’epoca vigenti, precludendo ogni possibilità di approvazione del progetto stesso e di rilascio della concessione edilizia.
Il motivo è privo di fondamento.
La Corte di Appello, nel disattendere le censure mosse dagli appellanti incidentali riguardo alla pronuncia di risoluzione contrattuale per inadempimento del P. , ha rilevato che il contegno di questi ultimi fu sin dall’inizio improntato ad una certa ambiguità:. Essa ha evidenziato, infatti, che i predetti da un lato proseguivano la trattativa, cercando di sollecitarla ma comunque adeguandosi ai tempi che il V. – a tanto costretto dalle complessità burocratiche necessarie – indicava, e dall’altro intimavano al promittente acquirente diffide ad adempiere, con previsione di tempi ridotti per la definizione dell’iter burocratico del progetto; diffide che, a suo giudizio, dovevano ritenersi di volta in volta superate dalla fattuale prosecuzione della trattativa.
Così statuendo, il giudice del gravame ha sostanzialmente ritenuto che i P. , nel proseguire le trattative adeguandosi ai tempi indicati dal V. , hanno manifestato la volontà di non volersi degli effetti connessi alle diffide ad adempiere precedentemente rivolte al promittente acquirente, contenenti la fissazione di termini ridotti.
La valutazione espressa al riguardo si sottrae al sindacato di questa Corte, essendo sorretta da una motivazione immune da vizi logici e conformandosi ai principi di diritto enunciati in materia dalla giurisprudenza.
Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, infatti, in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, il contraente non inadempiente, così come può rinunciare ad eccepire l’inadempimento che potrebbe dar causa alla pronuncia di risoluzione, può, del pari, rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto della clausola risolutiva espressa o dello spirare del termine essenziale o della diffida ad adempiere, e può anche rinunciare ad avvalersi della risoluzione già dichiarata giudizialmente, ripristinando contestualmente l’obbligazione contrattuale ed accettandone l’adempimento (v. Cass. 10-3-2011 n. 5734; Cass. 24-11-2010 n. 23824; Cass. 8-11-2007 n. 23315; Cass. 1-8-2007 n. 16993; Cass. 28-6-2004 n. 11967). Si è precisato, al riguardo, che la rinuncia agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento che si sia già verificata per una delle cause previste dalla legge (art. 1454, 1455, 1457 c.c.) ovvero anche per effetto di pronuncia giudiziale (art. 1453 c.c.), costituisce tipica espressione dell’autonomia privata, che come riconosce al creditore il diritto potestativo di non eccepire preventivamente l’inadempimento che potrebbe dare causa alla risoluzione del contratto, così non gli nega, anche in “executivis”, quello di non avvalersi della risoluzione già verificatasi o già dichiarata, e di ripristinare contestualmente l’obbligazione rimasta inadempiuta. (Cass. 4-5-1991 n. 4908).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, d’altro canto, la sentenza impugnata, nell’addebitare la risoluzione del contratto ai convenuti, ha proceduto ad una valutazione comparativa dei rispettivi comportamenti delle parti, escludendo che a carico del V. fosse ravvisabile un colpevole ritardo nel portare a compimento l’iter burocratico del progetto. La Corte territoriale, invece, ha dato atto della contrarietà a buona fede della condotta dei P. , i quali, dopo aver mantenuto nel corso delle trattative un contegno ambiguo, quando l’iter della pratica era prossimo a positiva definizione, senza nulla comunicare al V. , hanno alienato il bene a terzi, così impedendo definitivamente l’attuazione del contratto preliminare.
Il convincimento espresso sul punto dal giudice di appello costituisce espressione di valutazioni di merito che, in quanto supportate da argomentazioni scevre da vizi logici, sfuggono al sindacato di legittimità. I vizi di motivazione denunciabili in cassazione, infatti, non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perché spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova ((tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-3-2007 n. 5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234; Cass. 16-2-2006 n. 3436; Cass. 20-10- 2005 n. 20322).
5) Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 1453 c.c., nonché dell’omessa e contraddittoria motivazione, in relazione alla ritenuta ammissibilità del mutamento della domanda attrice intervenuta in corso di causa. Deducono che nel caso in esame la modifica della domanda non era consentita, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la domanda di risoluzione del contratto preliminare è stata fondata su fatti diversi rispetto a quelli posti a base della domanda di adempimento.
Il motivo deve essere disatteso.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disposizione posta dal secondo comma dell’art. 1453 c.c., secondo cui nei contratti con prestazioni corrispettive la risoluzione può essere domandata anche quando inizialmente sia stato chiesto l’adempimento, fissa un principio di contenuto processuale, in virtù del quale la parte che ha invocato la condanna dell’altra parte ad adempiere può sostituire a tale pretesa quella di risoluzione – non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello -, in deroga agli artt. 183, 184, 345 cpc, sempre che non alleghi distinti fatti costitutivi, e, quindi, inadempimenti diversi da quelli posti a base della pretesa originaria (Cass. 6-4-2009 n. 8234; Cass. 10-4-1999 n. 3502; Cass. 5-5-1998 n. 4521).
Nel caso in esame, la Corte di Appello non si è discostata dagli enunciati principi, nel ritenere ammissibile la domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promittente venditore, proposta nel corso del giudizio di primo grado dall’attore, in sostituzione di quella di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, azionata con l’atto introduttivo del giudizio. E infatti, come è stato accertato nella sentenza impugnata, l’attore ha posto a base della domanda di risoluzione gli stessi fatti (rifiuto della controparte ad eseguire la propria prestazione, allorquando il promittente acquirente si era attivato per ottenere l’esecuzione del contratto) dedotti a fondamento della originaria domanda.
6) Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 cpc, nonché l’omessa e contraddittoria motivazione, in ordine all’affermazione del giudice di appello, secondo cui, in relazione allo stato avanzato dell’iter burocratico finalizzato al rilascio della concessione edilizia, si poteva presumere che la stessa sarebbe stata concessa. Sostengono che, anche in considerazione della sopravvenuta modifica della normativa urbanistica, sul terreno de qua doveva ritenersi impossibile ogni edificazione concreta. Aggiunge che, allorché l’adempimento si ricollega al rilascio di concessioni o autorizzazioni amministrative, la relativa prova non può essere offerta mediante il ricorso a presunzioni, ma può essere integrata solo dalla conclusione dell’iter procedimentale e dalla emanazione del provvedimento richiesto.
Anche tale motivo è privo di pregio.
Si rammenta, al riguardo, che, in materia di presunzioni, è riservata all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito la sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, ovverosia come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell”’id quod plerumque accidit”, mentre l’unico sindacato riservato in proposito al giudice di legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione (tra le tante v. Cass. 4-5-2005 n. 9225; Cass. 8-11-2002 n. 15706; Cass. 2-10-2000 n. 13001).
Nella specie, non può considerarsi incongruente il ragionamento seguito dalla Corte di Appello, la quale, in considerazione delle possibilità edificatorie consentite dal nuovo Piano Regolatore del Comune di Spotorno, dello stato avanzato della pratica e del parere favorevole all’approvazione già espresso dalla Commissione Edilizia, ha ritenuto presumibile che la concessione sarebbe stata rilasciata.
La valutazione espressa dal giudice del gravame, pertanto, essendo sorretta da una motivazione non illogica, non è censurabile in questa sede.
Non giova ai ricorrenti, in contrario, l’assunto secondo cui, in relazione al rilascio di concessioni o autorizzazioni amministrative, non sarebbe possibile il ricorso alla prova per presunzioni.
Le argomentazioni svolte dal giudice del gravame, infatti, vanno lette in collegamento con l’accertamento contenuto nella sentenza di primo grado, richiamato a pag 16 della decisione impugnata, secondo cui i convenuti, dopo aver appreso del rilascio del parere favorevole da parte della Commissione Edilizia, p, esprimevano al Comune la volontà di non dare corso alla pratica, così di fatto impedendone il perfezionamento.
Orbene, come è stato affermato da questa Corte, colui che si è obbligato o ha alienato un bene sotto la condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 cod. civ.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio delle autorizzazioni; con la conseguenza che deve rispondere delle conseguenze dell’inadempimento di questa sua obbligazione contrattuale nei confronti dell’altra parte, alla quale è possibile chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni conseguenti, da accertare secondo il criterio della regolarità causale, che consente di riconoscere il danno nel caso in cui, avuto riguardo alla situazione di fatto esistente nel momento in cui si è verificato l’inadempimento, debba ritenersi che la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo possibile il legittimo rilascio delle autorizzazioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile (Cass. 2-6-1992 n. 6676).
Allorché, pertanto, come nel caso in esame, il fatto dedotto in condizione sia un provvedimento amministrativo ed il procedimento per la sua adozione non abbia potuto concludersi per il fatto di chi aveva un interesse contrario alla realizzazione della condizione, la prova non può avere ad oggetto la certezza che il provvedimento positivo vi sarebbe stato, ma solo lo stabilire se, nella situazione data, una legittima conclusione positiva del procedimento fosse possibile (Cass. 15-6-2011 n. 13099). Ed è evidente che tale giudizio deve essere condotto verificando se sussistessero circostanze tali da fare ragionevolmente presumere che il procedimento amministrativo avrebbe avuto esito favorevole.
7) Passando all’esame del ricorso proposto avverso la sentenza definitiva, si osserva che con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 278 cpc. e dell’art. 26 della Legge Regionale della Liguria n. 9/1993, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo. Deducono che la Corte di Appello, in base al principio iura noviti curia, avrebbe dovuto applicare l’art. 26 della legge regionale 9U993 e, per l’effetto, dato atto dell’assoluta inedificabilità del terreno in oggetto, dichiarare inesistente ogni lucro cessante in favore del V. .
Il motivo non merita accoglimento.
I ricorrenti propongono argomenti e questioni inerenti all’asserita inedificabilità dei terreni oggetto di causa – peraltro sviluppati, come si legge nella sentenza gravata, dagli appellanti solo nella comparsa conclusionale e nelle note di replica -, che il giudice del gravame, con motivazione corretta sul piano logico e giuridico, ha ritenuto di non poter prendere in considerazione, essendo su di esse già intervenuta la decisione con la sentenza non definitiva n. 54/2006.
Con tale ultima sentenza, infatti, la Corte di Appello ha rigettato tutti i motivi di gravame incidentale proposti dai P. , ha accolto il secondo e il terzo motivo di appello principale del V. e si è riservata la decisione sul primo motivo di tale appello, concernente la quantificazione del lucro cessante. In relazione a tale voce di danno, il giudice di secondo grado ha ritenuto corretto il criterio di calcolo seguito dal Tribunale, basato sulla differenza tra il ricavo ragionevolmente ricavabile dall’operazione immobiliare e il costo della medesima per la quota spettante al promissario acquirente, detratta la quota del 20% a carico del promissario venditore p.m. ; ma ha ritenuto necessario disporre un supplemento di indagini tecniche, onde chiarire le differenti indicazioni, nel calcolo dei costi e dei ricavi, dell’estensione delle superfici destinate ad abitazione e di quelle destinate a utilizzazioni diverse (artigianali).
Poiché, dunque, con la sentenza definitiva la Corte di Appello era chiamata a pronunciarsi esclusivamente sul primo motivo di appello principale, concernente la determinazione del danno da lucro cessante spettante al V. , è evidente che in tale sede non poteva essere riposta in discussione l’effettiva suscettibilità edificatoria del terreno in questione, già positivamente accertata con la sentenza non definitiva, alla stregua delle previsioni del nuovo Piano Regolatore del Comune di Spotorno. Ogni eventuale contestazione riguardo alle concrete possibilità edificatorie del suolo promesso in vendita, pertanto, avrebbe dovuto essere fatta valere dai P. non già nell’ulteriore corso del giudizio di appello, bensì mediante la proposizione di ricorso per cassazione avverso la sentenza non definitiva.
7) Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l’omessa motivazione in ordine alla mancata valutazione, da parte del C.T.U., del costo di rifacimento della strada comunale che corre tra il fondo e il corso d’acqua; questione che i P. assumono di aver sollevato nel corso del giudizio di appello, dapprima nel verbale di udienza e da ultimo in sede di redazione della comparsa conclusionale.
Anche tale motivo deve essere disatteso.
Deve premettersi che le conclusioni assunte dal consulente tecnico d’ufficio sono impugnabili con ricorso per cassazione solamente qualora le censure ad esse relative siano state tempestivamente prospettate avanti al giudice di merito, alla stregua di quanto si evinca dalla sentenza impugnata ovvero dall’atto del procedimento di merito – che il ricorrente deve specificamente indicare – ove le stesse risultino essere state formulate, e vengano espressamente indicate nel motivo di ricorso, in modo che al giudice di legittimità risultino consentiti il controllo, ex actis, della relativa veridicità, nonché la valutazione della decisività della questione (Cass. 8-6-2011 n. 12532; Cass. 31-3-2006 n. 7696; Cass. 12-2-2004 n. 2707; Cass. 15-2-2002 n. 2207; Cass. 29-9-1998 n. 9711).
Nella specie, dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che nel corso del giudizio di merito i P. abbiano tempestivamente lamentato l’omessa valutazione, da parte del C.T.U., dei costi inerenti al rifacimento della strada comunale.
I ricorrenti hanno dedotto di aver sollevato specifiche contestazioni al riguardo nel verbale di udienza; ma, venendo meno all’onere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, non hanno indicato, in concreto, in quale udienza abbiano posto tale questione. Essi, al contrario, nel manifestare le loro ragioni di dissenso alle conclusioni del C.T.U., hanno richiamato i rilievi svolti al riguardo nella comparsa conclusionale di appello.
È evidente, peraltro, che i ricorrenti non possono dolersi della mancata considerazione delle critiche rivolte all’operato dal consulente tecnico d’ufficio in tale scritto difensivo. Va ricordato, infatti, che le osservazioni critiche alla consulenza tecnica d’ufficio non possono essere formulate in comparsa conclusionale – e pertanto, se ivi contenute, non possono essere esaminate dal giudice -, perché in tal modo esse rimarrebbero sottratte al contraddicono e al dibattito processuale (Cass. 22-3-2013 n. 7335; Cass. 6-9-2006 n. 19128; Cass. 1-7-2002 n, 9517; Cass. 26-11-1998 n. 11999).
8) Per le ragioni esposte entrambi i ricorsi devono essere rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dal resistente nel presente grado di giudizio in relazione a ciascuno dei ricorsi riuniti, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida per ciascun ricorso in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

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