Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 4 gennaio 2018, n. 111. Nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” a una associazione di tipo mafioso

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L’osservazione richiamata esclude gia’, in linea generale, che dalla sola individuazione di appartenenza all’associazione mafiosa, pur se riferibile a compagini storiche, possa automaticamente discendere l’attualita’ della pericolosita’, a prescindere da ogni analisi rapportata ai tempi dell’intervento di prevenzione, poiche’, anche dalle pronunce apparentemente piu’ vicine alla chiave interpretativa seguita da quella in disamina, emerge che l’affermazione posta a fondamento di tale ricostruzione, desunta dall’esame sociologico e storico del fenomeno mafioso, deve coniugarsi con un doppio ordine di verifiche sulla natura giuridica dell’accertamento di appartenenza, e dei fatti, riguardanti l’apporto riconosciuto al gruppo dal singolo.
L’essenzialita’ di un’analisi specifica in argomento risulta segnalata in materia anche in risalenti pronunce della Corte Costituzionale (n. 23 del 1964), con cui tale Autorita’ ebbe a dichiarare infondate le numerosi questioni all’epoca sollevate dai giudici di merito sul testo della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, e chiari’ che le misure di prevenzione non potevano essere adottate sulla base di semplici sospetti, richiedendosi per la loro applicazione, una oggettiva valutazione dei fatti, dalle quale risulti una condotta abituale ed il tenore di vita della persona.
Tale profondita’ di analisi non puo’ che valutarsi ancora piu’ attuale sulla base del successivo sviluppo normativo ed ermeneutico nella materia.
E nell’oggettiva valutazione della pericolosita’ non puo’ che rientrare l’analisi della sua attualita’, dato strettamente connesso al concetto stesso di prevenzione, che assume la sua valenza essenziale anche in relazione alla possibilita’ di applicare le misure reali, in riferimento alle quali deve previamente individuarsi il periodo nel quale la pericolosita’ e’ collocabile al fine di verificare l’imputazione del tempo di acquisizione dei beni sottoponibili ad apprensione a tale periodo, per giustificare la loro diretta connessione con le manifestazioni di pericolosita’ richiamate.
5. Come si accennava, in relazione al primo presupposto di fatto del quale si richiede una verifica, plurime pronunce rilevano che nel caso sottoposto al loro esame fosse intervenuto in precedenza un accertamento definitivo di responsabilita’ per reato associativo, condizione che, sul piano logico giuridico, costituisce una base piu’ solida al fine di formulare un giudizio sulla pericolosita’, proprio per la gia’ accertata presenza di un vincolo tendenzialmente stabile che si proietta fisiologicamente verso il futuro.
E’ bene sottolineare al riguardo che tale chiave interpretativa non nega la possibilita’ di valorizzare, al fine dell’accertamento di pericolosita’, specifiche circostanze di fatto che emergano da pronunce liberatorie, condizione che risulta fisiologicamente connessa alla mancanza di correlazione tra le misure di prevenzione e la consumazione di reati, posto che proprio la finalita’ preventiva consente l’intervento in presenza di fatti espressivi di una elevata pericolosita’, sui quali e’ dato intervenire previamente per evitare la commissione di reati, ma risulta solo correttamente porre in evidenza che l’onere argomentativo in tali condizioni non puo’ che uscirne rafforzato.
Cio’ impone una valutazione di persistenza delle condizioni di fatto constatate in precedenza, alla data di applicazione della misura.
6. Si deve inoltre ricordare che, per univoca interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, nell’ampio concetto di appartenenza, richiamato nell’articolo 4 Decreto Legislativo in esame, quale condizione legittimante l’applicazione della misura, si ritengono rilevanti anche condotte non connotate dal vincolo stabile, ma astrattamente inquadrabili nella figura del concorso esterno di cui agli articoli 110 e 416-bis cod. pen., per definizione caratterizzata da una collaborazione occasionale, espressa in unico o diluito contesto temporale, che si realizza con riferimento a circoscritte esigenze del gruppo, in correlazione con la loro insorgenza, ed e’ quindi ontologicamente priva della connotazione tipica della condotta partecipativa, costituita dallo stabile inserimento nell’organizzazione criminale con caratteristica di spiccata e persistente pericolosita’, derivante dalla connotazione strutturale, mentre risulta estranea a tale concetto la mera collateralita’ che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine (per una specifica disamina sul punto Sez. 1, n. 54119 del 14/06/2017, Sottile).
Una tale chiave interpretativa risulta avvalorata dalle modifiche normative intervenute nel corso della pendenza del giudizio contenute nella L. 17 ottobre 2017, n. 161, che, nell’innovare l’articolo 4 del d.lgs. in esame, ha espressamente inserito quale specifica ipotesi di pericolosita’, suscettibile di giustificare l’applicazione della misura, gli elementi indiziari sull’attivita’ di fiancheggiamento del gruppo illecito prevista nell’articolo 418 c.p.. Dall’innovazione non puo’ che desumersi conferma dell’impossibilita’ di qualificare come appartenenza la condotta che, nella consapevolezza dell’illecito, si muova in una indefinita area di contiguita’ o vicinanza al gruppo, che non sia riconducibile ad un’azione, ancorche’ isolata, che si caratterizzi per essere funzionale agli scopi associativi.

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