Corte di Cassazione

CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
SENTENZA 6 maggio 2015, n. 9100

Ragioni della decisione

Prima di affrontare la questione di diritto sulla quale le sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi, è necessario soffermarsi sull’eccezione d’inammissibilità del ricorso, proposta dalla difesa della curatela controricorrente.

L’eccezione non appare fondata.

1.1. Va premesso che il motivo di ricorso del quale si discute, articolato in più profili, investe unicamente il tema dell’individuazione e liquidazione del danno operate nel giudizio di merito. Non è in discussione né l’accertamento dei comportamenti dell’amministratore della società, denunciati dal curatore in citazione come contrari alla legge ed all’atto costitutivo, né l’imputabilità al medesimo amministratore di tali comportamenti, bensì soltanto l’esistenza del danno che ne sarebbe derivato al patrimonio della società, poi fallita, e del nesso di causalità tra i suaccennati comportamenti e quel preteso danno, di cui si contesta il criterio di liquidazione adottato.

Il ricorso, in particolare, prospetta i seguenti profili di doglianza: a) violazione di norme di diritto sostanziale (artt. 1218, 2043, 2392, 2393, 2394 e 2792 c.c.), per avere la corte d’appello confermato la condanna dell’amministratore della società fallita al risarcimento di un danno del quale non sarebbe stata fornita la prova e che non avrebbe potuto esser liquidato in base a criteri presuntivi non contemplati dalla legge; b) vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, non essendo stato in alcun modo chiarito quale sia il nesso esistente tra la violazione delle suindicate regole di condotta da parte dell’amministratore della società ed il pregiudizio che ne sarebbe derivato per il patrimonio sociale; c) violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la corte territoriale dato risposta alle censure che, con riferimento ai profili sopra richiamati, l’appellante aveva mosso alla sentenza di primo grado.

1.2. La circostanza che l’unico motivo di ricorso sia articolato in più profili, ciascuno dei quali avrebbe ben potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non è certo, di per sé sola, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione. Per rendere ammissibile il ricorso è sufficiente che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati.

Nel caso in esame, contrariamente a quel che sostiene la curatela controricorrente, le censure sviluppate nel ricorso sono chiaramente percepibili, nei termini già prima riferiti, e la stessa articolazione delle difese esposte nel controricorso con riguardo a ciascuna doglianza del ricorrente vale ampiamente a dimostrarlo.

Non manca neppure la formulazione dei quesiti di diritto, richiesti dall’art. 366-bis c.p.c. (ormai abrogato, ma ancora applicabile ratione temporis nella presente fattispecie), riferibili a tutti i suaccennati profili di doglianza, uno dei quali esprime quel ‘momento di sintesi’ che – come affermato da Sez. un. 20603 del 2007 (e da numerosissime altre pronunce conformi) – deve corredare la denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata.

Venendo allora all’esame dei suaccennati profili di doglianza contenuti nel ricorso, conviene subito sgomberare il campo dalla censura riguardante la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., che sicuramente non sussiste.

La circostanza che il giudice d’appello non abbia dato risposta – o non abbia dato una risposta che la parte consideri adeguata – ad una o più delle argomentazioni addotte dall’impugnante a sostegno del gravame non implica, infatti, che quel giudice non si sia pronunciato sulla domanda propostagli, la quale non s’identifica con le singole argomentazioni che la sostengono. Potrà quindi aversi, in tal caso, un eventuale vizio di motivazione, ma certamente non la violazione del citato art. 112 (cfr. in argomento, tra le tante, Cass. n. 544 del 2006, n. 25714 del 2014 e n. 25761 del 2014).

L’esame dei due rimanenti profili di doglianza può essere condotto congiuntamente ed investe la questione per la quale è stato richiesto l’intervento delle sezioni unite al fine di superare le oscillazioni che l’ordinanza della prima sezione ha ravvisato nella giurisprudenza di legittimità.

3.1. La questione, come già accennato, riguarda l’individuazione del danno risarcibile ed il relativo criterio di liquidazione nelle azioni di responsabilità promosse dai competenti organi di una procedura concorsuale nei confronti di amministratori di società di capitali dichiarate insolventi, ai quali sia imputato di aver tenuto un comportamento contrario ai doveri loro imposti dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto sociale.

Nel caso di specie si tratta, appunto, di un’azione esperita dal curatore del fallimento nei confronti dell’ex amministratore unico di una società a responsabilità limitata, poi dichiarata fallita. Si farà perciò sempre d’ora in avanti soltanto riferimento a questo tipo di fattispecie, ma è Intuitivo che le considerazioni che seguiranno sono estensibili anche ad azioni di responsabilità proposte nei confronti degli organi di vigilanza e dei direttori generali delle società dichiarate insolventi, se a costoro il curatore rimproveri di aver mancato ai propri doveri cagionando danno al patrimonio sociale ed ai creditori.

Sempre in via preliminare, è appena il caso di precisare che, nell’assumere l’iniziativa giudiziale di cui trattasi, a norma del secondo comma dell’art. 146 l. fall., il curatore del fallimento della società ha esercitato cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità che sarebbe stata esperibile dalla medesima società, se ancora in bonis, nei confronti del proprio amministratore ai sensi dell’art. 2393 c.c., sia l’azione che, ai sensi del successivo art. 2394, sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza del patrimonio della società debitrice (con l’avvertenza che, trattandosi di vicenda anteriore alla riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, le suindicate norme del codice civile, dettate per la società azionaria, risultano integralmente applicabili anche alla società a responsabilità limitata in virtù del richiamo operato dal secondo comma del successivo art. 2487).

3.2. L’ordinanza di rimessione focalizza l’attenzione sulla ‘utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità, quale quella in questione, del dato costituito dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare’, ed aggiunge che, qualora si reputi utilizzabile questo criterio, ‘occorre stabilire quali siano le condizioni ed i limiti entro i quali tale dato sia utilizzabile, in connessione con le ragioni che lo giustificano’.

Come ben evidenziato anche nella citata ordinanza, vi sono già state in passato molte pronunce di questa corte in argomento, delle quali è necessario dare qui brevemente conto.

La possibilità che il danno risarcibile venga identificato nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare è stata affermata, in epoca risalente, da Cass. n. 1281 del 1977, in un caso nel quale all’amministratore era stato addebitato di aver violato il divieto di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, consistita nella perdita di oltre un terzo del capitale sociale e nella riduzione di questo al di sotto del minimo legale (divieto che, com’è noto, era espressamente previsto dal primo comma dell’art. 2449 c.c., nella versione antecedente la già ricordata riforma del diritto societario del 2003).

A brevissima distanza di tempo l’utilizzo del suindicato criterio differenziale è stato avvallato anche da Cass. n. 2671 del 1977, ma in un caso in cui si era ritenuto che il dissesto dell’impresa fosse dipeso proprio dall’illecito comportamento degli organi sociali. Anni dopo Cass. n. 6493 dei 1985 è tornata ad approvare l’utilizzo dei predetto criterio, in una fattispecie nella quale l’addebito mosso agli amministratori consisteva nel non aver tenuto la contabilità sociale o nell’averla tenuta in modo sommario e non intellegibile.

Nel decennio successivo le critiche che gran parte della dottrina era andata formulando all’adozione di quel criterio, sottolineandone l’inadeguatezza a dar conto del rapporto di causalità che deve sussistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il danno risarcibile, ha indotto anche la giurisprudenza ad interrogarsi più approfondita mente in proposito. Perciò Cass. n. 9252 del 1997 ha affermato che il danno che gli amministratori ed i sindaci sono tenuti a risarcire, quando abbiano, rispettivamente, violato o non vigilato sul dovere di non intraprendere nuove operazioni in presenza di una causa di scioglimento della società, non s’identifica automaticamente nella differenza tra passivo ed attivo accertati in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza, in mancanza di prova di un maggior pregiudizio, solo se da detta violazione sia dipeso il dissesto economico ed il conseguente fallimento della società. E Cass. n. 10488 del 1998 è prevenuta alla conclusione che, in azioni di tal genere, il danno non dev’essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate.

Quest’ultimo orientamento è stato poi confermato anche da Cass. n. 1375 del 2000, la quale ha precisato come, in simili casi, il danno può essere identificato nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare, ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società.

Nel nuovo secolo la giurisprudenza sembrava essersi stabilizzata nel senso da ultimo indicato, come attestano Cass. n. 2538 del 2005 e n. 3032 del 2005, che hanno insistito nell’affermare che il danno in questione non può essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.

Sostanzialmente nella stessa linea si sono collocate le successive pronunce di Cass. n. 16211 del 2007, n. 17033 del 2008 e n. 16050 del 2009; la quale ultima, dopo aver ribadito che il criterio della differenza tra passivo ed attivo fallimentare è in astratto inadeguato, ha nuovamente puntualizzato che quel criterio, tuttavia, può in concreto essere apprezzato, con una valutazione in fatto demandata esclusivamente al giudice di merito e congruamente motivata, ove esso costituisca parametro di riferimento per la liquidazione equitativa del danno nel caso in cui sia impossibile ricostruire i dati contabili ed individuare sulla loro scorta le conseguenze dannose riconducibili agli amministratori.

In questo quadro giurisprudenziale, che negli ultimi decenni sembrava dunque essersi delineato in maniera sufficientemente coerente, un elemento distonico – a giudizio dell’ordinanza di rimessione – è stato introdotto da due sentenze intervenute nel corso dell’anno 2011, le quali, pur muovendo anch’esse dalla premessa secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso – si è aggiunto – la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011).

3.3. La sommaria ricapitolazione degli sviluppi della giurisprudenza di questa corte negli ultimi decenni, riguardo al tema in esame, induce subito ad osservare che la questione non può essere affrontata in termini generici, quasi che gli illeciti eventualmente ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno, si traducano sempre in un’unica e ben determinata tipologia di comportamenti, rispetto alla quale si possa affermare o negare l’utilizzabilità del criterio d’individuazione e liquidazione del danno consistente nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.

I doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società sono assai variegati. In parte risultano puntualmente specificati e s’identificano in ben determinati comportamenti: quali, ad esempio, la tenuta delle scritture contabili, la predisposizione dei bilanci e i prescritti adempimenti fiscali e previdenziali, il divieto di concorrenza, e via elencando. Ma, per il resto, si tratta di doveri il cui preciso contenuto non è sempre facile da specificare a priori, in quanto essi derivano dall’essere l’amministratore preposto all’impresa societaria e dal suo conseguente obbligo di compiere con la necessaria diligenza tutto ciò che occorre per la corretta gestione di essa. Ne discende che anche le conseguenze dannose – per la società e per i suoi creditori – che possano eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore.

In tanto, allora, ha senso parlare dell’individuazione del danno, del nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, in quanto si sia prima ben chiarito quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato.

Questa premessa – forse ovvia, ma indispensabile – pone le basi per rispondere al quesito rivolto alle sezioni unite, che concerne sì una questione di onere della prova del danno e del nesso di causalità, ma prima ancora richiede sia messo bene a fuoco il profilo dell’allegazione, che della prova costituisce l’antecedente logico.

Giova allora partire dal fondamentale insegnamento di Sez. un. n. 13533 del 2001, a mente del quale il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento. Ne viene confermata, per il profilo che qui interessa, la necessità che l’inadempimento del convenuto, pur non dovendo esser provato dall’attore, sia nondimeno da costui allegato.

Questo principio è stato successivamente confermato da Sez. un. n. 15781 del 2005 non solo in presenza di un’obbligazione di risultato ma anche qualora venga dedotto l’inadempimento di un’obbligazione di mezzi, onde non sembra si possa seriamente dubitare della sua applicabilità all’azione sociale di responsabilità di cui qui si sta parlando; a proposito della quale – tenuto conto di quanto prima osservato in ordine alla varietà dei doveri gravanti sull’amministratore – si rivela particolarmente calzante quanto (sia pure in relazione ad altra tipologia contrattuale) affermato da Sez. un. n. 577 del 2008: cioè che ‘l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento dei danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno’, sicché ‘l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno’. Naturalmente sull’attore grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò ai tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità.

È appena il caso di aggiungere che i suaccennati principi sono stati elaborati e si sono ormai ben consolidati in particolare con riguardo alla figura della responsabilità contrattuale. La loro applicazione non desta quindi problemi quando si discuta dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti degli amministratori di società, giacché ne è pacifica la natura contrattuale. Per i profili che qui interessano, tuttavia, le considerazioni che si andranno a fare, e che da quei principi si dipanano, possono agevolmente applicarsi anche all’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali (la quale, come già s’è detto, in caso di fallimento della società è di regola esercitata dal curatore cumulativamente all’altra), sia che si voglia assegnare anche ad essa natura contrattuale sia che, come per lo più si è propensi a ritenere, la si voglia invece qualificare come aquiliana. Con riferimento ai temi di cui si sta parlando, infatti, la differenza tra le due tipologie di responsabilità si coglie soprattutto in ciò: che solo il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non è tenuto a provare l’imputabilità dell’inadempimento ai debitore, sul quale grava l’onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). Ma – come s’è visto – compete pur sempre al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno ed il nesso di causalità. Ed a maggior ragione tali oneri gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo egli in aggiunta farsi carico (non solo di allegare, ma altresì) di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere.

Ci si deve allora anzitutto chiedere se e quale tra gli inadempimenti (“qualificati’) in cui può incorrere l’amministratore di società, e che l’attore deve aver allegato quale ragione della sua domanda risarcitoria, sia astrattamente efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell’ambito della procedura concorsuale. È evidente che lo potrebbero essere, in ipotesi, soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni).

Qualora, viceversa, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di ogni base logica: non fosse altro perché l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser considerato per sé solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantirne i risultati positivi. Né potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – in quanto tale e nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacché questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa.

Se dunque, per le ragioni appena esposte, non pare predicabile che, in difetto di specifiche ragioni che lo giustifichino, il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in fallimento venga automaticamente posto a carico dell’amministratore come conseguenza della violazione da parte sua del generale obbligo di diligenza nella gestione dell’impresa sociale, tanto meno una simile conclusione sarebbe giustificabile quando l’inadempimento addebitato al medesimo amministratore si riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono comportamenti potenzialmente idonei a determinare, a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati.

3.4. Proprio questa è la situazione che si riscontra nella fattispecie in esame, in cui, come già s’è detto, gli inadempimenti ascritti all’amministratore della società fallita si riferiscono unicamente alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi ed, infine, all’omessa tenuta della contabilità sociale. Né dalla motivazione dell’impugnata sentenza, né dal ricorso, né dal controricorso emerge che altri inadempimenti siano stati allegati dal curatore.

È del tutto ovvio che la distrazione di alcuni beni mobili di proprietà sociale sia suscettibile di riflettersi negativamente sul patrimonio della società, ma è altrettanto evidente che la relativa perdita è commisurata al valore di quei beni, o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare; ma nulla autorizza a pensare che tale perdita s’identifichi con la differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare; né la sentenza impugnata si spinge ad affermarlo.

Neppure la mancata redazione di due bilanci e di dichiarazioni fiscali possono ambire, sul piano logico, a porsi come causa potenziale dell’intero deficit patrimoniale emerso nell’ambito della procedura concorsuale, potendosi soltanto presumere che le omissioni fiscali abbiano provocato un aggravamento del passivo per l’onere degli interessi e delle sanzioni conseguenti.

In realtà ciò che ha indotto la corte territoriale ad addossare all’amministratore, a titolo di risarcimento dei danno, l’intero deficit patrimoniale della società fallita è il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa. Ed è questo, a ben vedere, anche il punto nevralgico del contrasto giurisprudenza che l’ordinanza di rimessione ha inteso porre in luce.

Che la tenuta delle scritture contabili sia uno dei doveri gravanti sugli amministratori di società è fuori discussione, ed è quindi ugualmente indiscutibile che il mancato rinvenimento di tali scritture da parte del curatore del fallimento giustifichi l’allegazione dell’inadempimento di quel dovere da parte dell’amministratore convenuto nell’azione di responsabilità.

Ma, in coerenza con i principi generali sopra richiamati, occorre domandarsi se e quale pregiudizio sia potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione, in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del patrimonio sociale.

La circostanza che il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta) non consenta al curatore del fallimento di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto all’insolvenza dell’impresa può esser forse addotta, essa stessa, come una causa di danno, almeno nella misura in cui ciò comporti un maggiore onere nell’espletamento dei compiti del curatore ed, eventualmente, un aggravio dei costi della procedura destinato ad incidere negativamente sull’attivo disponibile. Né può in assoluto escludersi l’eventualità di altri effetti dannosi ricollegabili alla mancanza di dette scritture; ma neppure in questo caso appare logicamente plausibile il farne discendere la conseguenza dell’insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente. La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità.

Può dunque condividersi l’affermazione di Cass. 5876/11 e 7606/11, citt., secondo cui l’omessa tenuta della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, ed è vero che tale violazione risulta di per sé (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale. Non può tuttavia farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.

3.5. Una simile conseguenza non può esser fatta discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l’onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell’amministratore convenuto, giacché è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere quell’onere.

Tale argomentazione, come l’ordinanza di rimessione non manca di rilevare, in qualche misura si riallaccia al principio – di origine prevalentemente giurisprudenziale – della cosiddetta prossimità o vicinanza (o anche disponibilità o riferibilità) della prova, adombrato già da Sez. un. 13533/01, cit., e che si trova affermato in molteplici sentenze di questa corte (prevalentemente, ma non soltanto, in materia di responsabilità medica); principio secondo il quale l’onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d’azione di una sola delle parti in causa dev’essere assolto da quella medesima parte, rischiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio dell’altra.

Questi enunciati giurisprudenziali non hanno mancato di sollevare obiezioni di parte della dottrina ed occorrerebbe forse meglio chiarire se quel che, di volta in volta, giustifica l’inversione dell’onere della prova, come disegnato dall’art. 2697 c.c., sia la disponibilità in capo all’altra parte della materialità della prova stessa (per lo più documentale) o piuttosto la paternità storica dei fatti da provare. Ma non è necessario approfondire qui tali aspetti (ancorché appaia evidente che sarebbe difficile parlare di disponibilità del materiale probatorio da parte dell’amministratore di una società fallita, per ciò stesso ormai spossessato dell’azienda e dei relativi documenti), giacché comunque il principio della prossimità o disponibilità della prova non sembra invocabile nella fattispecie in esame.

La sua applicazione, infatti, postula pur sempre che, come già prima ampiamente sottolineato, l’attore abbia allegato un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui pretende il risarcimento. Solo a tale condizione si potrà ipotizzare il suo esonero dalla dimostrazione dei nesso di causalità che (soprattutto in senso giuridico) deve esistere tra l’inadempimento ed il danno, se la prova dipenda da fatti o circostanze di cui egli non è in grado di disporre e che sono invece nella disponibilità del convenuto. Ma la mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale – anche questo già lo si è detto – non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare. Ed allora il fatto che l’amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall’inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi.

Né varrebbe obiettare che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore la stessa individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all’amministratore, potenzialmente idonei – quelli sì – a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. A parte il rilievo che è davvero assai improbabile (ed andrebbe comunque adeguatamente ed argomentata mente dedotto dall’attore) che la mancanza delle scritture sociali basti ad impedire al curatore di ricostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, e quindi almeno di ipotizzare ed allegare in causa l’esistenza di eventuali comportamenti illegittimi addebitabili agli organi sociali che siano potenzialmente in grado di avere un’incidenza negativa sul patrimonio della società, appare evidente che l’eventuale impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe comunque la proposizione alla cieca di un’azione di responsabilità, e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell’amministratore impossibili persino da individuare.

Postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società sol perché non ha correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione palesemente sanzionatoria (che, in ipotesi di condotta dolosa, rischierebbe almeno in parte di sovrapporsi alle sanzioni penali già contemplate dagli artt. 216, primo comma, n. 2, e 223 l. fall.). Ciò potrebbe oggi forse non apparire più così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento (si pensi, ad esempio, all’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. in materia di responsabilità processuale aggravata), ma non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dal secondo comma dell’art. 25 Cost., nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Naturalmente, resta fermo che, se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa. Né può escludersi che, proprio avvalendosi di tale facoltà di liquidazione equitativa, il giudice tenga conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società, quale registrato nell’ambito della procedura concorsuale. Ma, come condivisibilmente già osservato da Cass. 2538/05 e 3032/05, citt., per evitare che ciò si traduca nell’applicazione di un criterio affatto arbitrario, sarà pur sempre necessario indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducigli alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, appare evidente che l’impugnata sentenza, avendo individuato il danno da risarcire nella differenza tra il passivo e l’attivo patrimoniale accertati in sede fallimentare sul mero presupposto della mancata tenuta delle scritture contabili da parte dell’amministratore della società fallita, deve essere cassata, con rinvio della causa alla corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:

‘Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.

Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto’.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La corte, decidendo a sezioni unite, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

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