Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 28 aprile 2015, n. 8572
Esposizione del fatto
Il 24 ottobre 1995 venne aperto a carico dell’avv. C.L. del foro di Busto Arsizio un procedimento disciplinare.
La professionista fu incolpata di avere indotto i coniugi Cl.Na. e Co.Ri. , all’epoca suoi clienti in difficoltà finanziaria, ad intestare un immobile di loro proprietà ad una società, la Serenella s.a.s., appositamente costituita da persone collegate alla stessa avv. C. , con l’intesa che l’immobile avrebbe dovuto poi essere restituito al figlio dei coniugi Cl. . La restituzione, però, era stata poi subordinata al pagamento di compensi professionali pretesi dall’avv. C. , la quale, dopo che l’immobile era stato venduto a terzi, aveva indotto la società Serenella a non versare ai coniugi Cl. o al loro figlio il prezzo ricavato dalla vendita, né comunque a rendere il conto dell’operato, ed aveva anzi assunto il patrocinio della suddetta società nella conseguente controversia che l’aveva opposta agli ex clienti della medesima avv. C. .
A carico dell’avv. C. fu iniziato anche un processo penale per i medesimi fatti, con l’imputazione di appropriazione indebita aggravata, e perciò il procedimento disciplinare in corso dinanzi al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Busto Arsizio venne sospeso in data 15 dicembre 2000. Conclusosi il processo penale con dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, a seguito di sentenza pronunciata da questa corte il 22 febbraio 2005 (depositata l’il aprile successivo), il procedimento disciplinare fu riassunto, con delibera del Consiglio dell’Ordine del 6 marzo 2008, e si concluse con deliberazione depositata il 3 luglio 2009 che inflisse all’incolpata la sanzione della sospensione per due mesi dall’esercizio della professione.
Il ricorso dell’avv. C. avverso tale decisione fu rigettato dal Consiglio nazionale forense con sentenza deliberata il 26 gennaio 2012, ma senza data leggibile di deposito, notificata alla parte solo l’11 marzo 2014.
Avverso tale sentenza l’avv. C. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 7 aprile 2014, deducendo nove motivi di censura e chiedendo la sospensione dell’esecutività del provvedimento impugnato.
Nessuna difesa è stata svolta dagli intimati.
Con ordinanza n. 12007 del 28 maggio 2014 questa corte, preso atto che in uno dei motivi di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 297, primo comma, c.p.c. per non essere stata dichiarata l’estinzione del procedimento disciplinare tardivamente riassunto dopo la sospensione per pregiudizialità penale, ha sospeso l’esecuzione dell’impugnata sentenza avendo rilevato un contrasto di giurisprudenza in ordine all’applicabilità della citata disposizione nel procedimento disciplinare.
La ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Deve preliminarmente osservarsi che il ricorso proposto nei confronti del Consiglio nazionale forense è inammissibile.
Già in più occasioni è stato infatti rilevato come nel giudizio di impugnazione delle decisioni del Consiglio nazionale forense dinanzi alla Corte di cassazione contraddittori necessari – in quanto unici portatori dell’interesse a proporre impugnazione ed a contrastare l’impugnazione proposta – sono soltanto il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il Consiglio dell’ordine che ha deciso in primo grado in sede amministrativa ed il Procuratore generale presso la stessa Corte di Cassazione, mentre tale qualità non può legittimamente riconoscersi al Consiglio nazionale forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia, essendo l’organo che ha emesso la decisione impugnata (cfr., ex multis, Sez. un. 1716 del 2013).
2. È invece ammissibile il ricorso rivolto nei confronti del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Busto Arsizio, da ritenersi tempestivamente proposto con atto notificato nell’aprile del 2014, in quanto la sentenza impugnata, benché decisa all’esito della seduta del Consiglio nazionale forense del 26 gennaio 2012 e mancante dell’indicazione precisa della di deposito, è stata pubblicata solo nell’anno 2014, come si evince dal fatto che essa è contrassegnata dal n. 13 del registro di deposito di quel medesimo anno.
3. Per ragioni di ordine logico conviene dare precedenza all’esame del quinto motivo del ricorso, nel quale si lamenta la violazione dell’art. 297, primo comma, c.p.c., la cui applicazione nel procedimento disciplinare svoltosi dinanzi al locale consiglio dell’ordine avrebbe dovuto condurre – a parere della ricorrente – alla declaratoria di estinzione di detto procedimento giacché riassunto oltre il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza penale in attesa della quale era stato in precedenza sospeso.
Si pone dunque la questione se la citata disposizione dell’art. 297 c.p.c. debba trovare applicazione nel procedimento disciplinare che si svolge dinanzi al consiglio dell’ordine, come la ricorrente sostiene, oppure risulti incompatibile con le caratteristiche di tale procedimento, come affermato dal Consiglio nazionale forense nell’impugnata sentenza.
3.1. Come già osservato nell’ordinanza n. 12007 del 28 maggio 2014, i precedenti giurisprudenziali di questa corte sul punto non sono univoci.
Sez. un. 13975 del 2004, rifacendosi anche a precedenti più remoti, ebbe ad affermare che nel procedimento disciplinare a carico di avvocati il termine semestrale per la riassunzione del procedimento sospeso a causa di pregiudizialità penale decorre dalla conoscenza effettiva, da parte del consiglio locale dell’ordine, della definizione del processo penale, al quale l’organo titolare dell’azione disciplinare è estraneo; e che questa conoscenza va fissata ad epoca non anteriore al deposito in cancelleria della relativa decisione, non bastando a tale effetto la pubblicazione in udienza mediante lettura del dispositivo ai sensi dell’art. 615, terzo comma, c.p.p. Infatti, pur essendo quello che si svolge dinanzi al consiglio dell’ordine un procedimento amministrativo, in esso “si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale, in mancanza delle quali, come nel caso che ne occupa, si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile, al contrario di quanto avviene con riguardo alle norme del codice di procedura penale la cui applicazione è limitata a quelle cui la legge professionale fa espresso rinvio, ovvero a quelle relative ad istituti (amnistia, indulto) che trovano la loro regolamentazione soltanto nel codice anzidetto (v. in particolare, con riguardo alla riassunzione a norma dell’art. 297 c.p.c., Cass. S.U. n. 3763/88)”. Nella medesima sentenza si aggiunse che “il carattere amministrativo del procedimento che si svolge dinanzi al Coa non impedisce di applicare ad esso le regole del processo civile, salvo che non siano richiamate quelle del codice di rito penale o non ne siano enunciate altre più specifiche”.
Questo orientamento non sembra agevolmente conciliabile con quanto successivamente affermato da Cass. 9281 del 2005, secondo cui la regola dettata dall’art. 297 c.p.c., in base alla quale “il processo sospeso deve essere riassunto, a pena di estinzione, nel termine perentorio di sei mesi”, è funzionale alla tutela di interessi meramente privati e non appare quindi applicabile al procedimento disciplinare, che persegue il pubblico interesse al corretto esercizio della professione; quella regola, infatti, sarebbe strettamente collegata al principio dispositivo proprio del procedimento civile, incompatibile con la natura eminentemente pubblicistica del procedimento disciplinare, che ha inizio d’ufficio o su richiesta del pubblico ministero.
È vero che la sentenza da ultimo citata riguardava il procedimento disciplinare a carico dei giornalisti e che, nell’occasione, la Cassazione ebbe cura di precisare che non poteva addursi in contrario “la diversa disciplina dettata in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati (per il quale trova, invece, applicazione il 1 comma del citato art. 297), attesa la specialità e disomogeneità delle singole discipline relative alle diverse professioni intellettuali”. Tuttavia non sembra che l’invocata disomogeneità delle rispettive discipline professionali basti davvero a giustificare l’opposto orientamento in ordine all’applicabilità della citata disposizione del codice di rito civile, giacché anche il procedimento disciplinare a carico degli avvocati appare connotato da caratteri pubblicistici analoghi a quelli evidenziati a proposito del procedimento relativo ai giornalisti.
Discende forse da tale considerazione (ancorché la motivazione non lo chiarisca in modo espresso) il principio più di recente enunciato da Sez. un. 16169 del 2011, secondo cui, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, per effetto della modifica dell’alt. 653 e.p.p., disposta dall’art. 1 della legge L. 27 marzo 2001 n. 97, qualora l’addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale e quindi s’imponga la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., tale sospensione si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce detto procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al consiglio dell’ordine degli avvocati sia soggetta a termine di decadenza (quest’ultima affermazione – ma si tratta, in questo caso, di un mero obiter dictum – è stata successivamente ripresa anche da Sez. un. 11309 del 2014).
3.2. Ciò premesso, giova sottolineare come il rilevato contrasto non verta sui presupposti che di volta in volta impongono, o eventualmente giustificano, la sospensione del procedimento disciplinare in presenza di un processo penale per i medesimi fatti (su cui vedi per tutte, da ultimo, Sez. un. 11309/2014, cit.), bensì unicamente sui termini della riassunzione del procedimento quando sia venuta meno la causa di sospensione.
E giova anche aggiungere che, essendosi svolto il procedimento dinanzi al locale consiglio dell’ordine in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina dell’ordinamento forense, introdotta dalla legge n. 247 del 2012, le considerazioni che seguono andranno sempre riferite alla normativa pregressa.
In tale contesto normativo la giurisprudenza di questa corte è da tempo ben ferma nel riconoscere natura amministrativa al procedimento disciplinare di competenza del locale consiglio dell’ordine, a differenza dell’eventuale successivo procedimento che si instauri dinanzi al Consiglio nazionale forense a seguito di ricorso contro il provvedimento emesso dal consiglio dell’ordine (si vedano, per tutte, Sez. un. 23000 del 2004 e 10875 del 2008); ma è del pari costante nell’affermare che in quel procedimento, ove facciano difetto più specifiche disposizioni ad esso relative, si rendono applicabili le disposizioni del codice di procedura civile, in via generale, e quelle del codice di rito penale quando si tratta di istituti che solo in quel codice sono disciplinati.
Da siffatti principi non v’è qui ragione per discostarsi, anche perché l’obiezione talora sollevata in dottrina, secondo cui l’affermata natura amministrativa del procedimento disciplinare dovrebbe indurre a ritenere applicabili non già le disposizioni del codice di procedura quanto piuttosto la disciplina dettata per il procedimento amministrativo dalla legge n. 241 del 1990, non sembra decisiva, ai fini del decidere la questione qui in esame, la quale nelle disposizioni della legge da ultimo menzionata non trova adeguata risposta e la cui soluzione deve perciò di necessità essere ricercata in principi processuali di carattere generale, quali quelli che nel codice di rito civile soprattutto si esprimono.
3.3. Stando così le cose, reputa il collegio che l’applicazione dei principi generali dettati in materia dal codice di procedura civile, non contraddetti nella specifica materia da disposizioni di diverso tenore, imponga di dare continuità a quel più risalente orientamento che, come s’è già ricordato, ravvisava la necessità di riassunzione del procedimento sospeso per pregiudizialità penale entro il termine semestrale indicato dal primo comma dell’art. 297 c.p.c..
Questa conclusione non sembra incompatibile con la natura eminentemente pubblicistica del procedimento disciplinare e con la circostanza che esso non sarebbe retto dal principio dispositivo proprio del procedimento civile. Neppure i procedimenti che siano volti a realizzare finalità pubblicistiche e nei quali predomini l’impulso d’ufficio, quali sono normalmente quelli sanzionatori, si sottraggono, sol per questo, all’esigenza del rispetto di termini entro i quali determinati atti del procedimento debbono eventualmente esser compiuti, ogni qual volta lo richieda la necessità di scandirne i tempi per la corretta attuazione dei principi di giustizia.
Una volta, allora, che si ritenga operante la sospensione del procedimento per pregiudizialità penale, in applicazione diretta o analogica del meccanismo stabilito dall’art. 295 c.p.c., un’esigenza di coerenza del sistema impone di rendere del pari operanti, sia pure eventualmente con gli adattamenti del caso, anche le regole dettate dal successivo art. 297 per la ripresa del medesimo procedimento dopo la cessazione della causa di sospensione; pena, altrimenti, l’inammissibile conseguenza di un procedimento che potrebbe restare sospeso a tempo indeterminato e – quel che appare ancora meno accettabile – potrebbe essere riassunto dal titolare del potere disciplinare in qualsiasi momento senza limiti di tempo.
Una diversa conclusione appare manifestamente inaccettabile, oltre che alla luce dei principi generali cui è ispirato il procedimento amministrativo, come disciplinato secondo precise scansioni temporali dalla citata legge n. 241 del 1990, anche in applicazione della regola di buon andamento ed imparzialità dell’agire amministrativo, stabilita dall’art. 97 Cost. Vi si oppone, inoltre, l’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui impone la ragionevole durata dei giudizi: perché, se è vero che tale disposizione si riferisce ai procedimenti giudiziali, è vero altresì che la relativa nozione, nell’interpretazione datale dalla Corte di Strasburgo, tendenzialmente abbraccia anche i procedimenti amministrativi che siano volti a comminare sanzioni equiparabili, nella loro portata afflittiva, a quelle di natura penale irrogate da un giudice (cfr. da ultimo, tra le altre, Corte Europea dei diritti dell’Uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens).
Pertanto, non potendosi ammettere, per le ragioni appena chiarite, che la riassunzione del procedimento disciplinare sospeso sia svincolata da qualsiasi termine, è giocoforza fare riferimento, per l’individuazione del termine di riassunzione e per le conseguenze del suo eventuale mancato rispetto, alle disposizioni stabilite dal codice di procedura civile, agli artt. 297 e 307, che contengono al riguardo delle regole di carattere generale, come già in altra occasione (sia pure ad un diverso proposito) questa corte ha avuto modo di rilevare (Cass. 17419 del 2004).
3.4. L’applicazione di tali disposizioni al procedimento disciplinare sospeso per pregiudizialità penale, una volta cessata la causa di sospensione, comporta dunque che il procedimento debba essere riassunto, con le medesime modalità con le quali può essere ab initio instaurato, entro il termine di sei mesi stabilito dal primo comma dell’art. 297 c.p.c..
Quanto all’individuazione del momento iniziale da cui detto termine dev’essere computato, occorre rammentare che la disposizione dianzi citata è stata dichiarata illegittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 1970 nella parte in cui dispone la decorrenza del termine utile per la richiesta di fissazione della nuova udienza dalla cessazione della causa di sospensione, anziché dalla conoscenza che ne abbiano le parti del processo sospeso, giacché l’esito del giudizio in attesa del quale la sospensione era stata disposta potrebbe non essere immediatamente noto a chi ha interesse a riassumere il processo sospeso ed, anche in seguito, potrebbe risultare conoscibile solo con l’impiego di una diligenza che non sarebbe normale richiedere.
Tale è appunto, di regola, la situazione in cui versa il consiglio dell’ordine, che è estraneo al processo penale in relazione al quale il procedimento disciplinare è stato sospeso. Donde la conseguenza che non può in alcun modo presumersi la conoscenza dell’avvenuta definitiva conclusione del suindicato processo penale, da parte di detto consiglio, non solo ovviamente all’atto della pronuncia del dispositivo in udienza, ma neppure a partire dal successivo deposito in cancelleria della motivazione della sentenza che a quel processo abbia posto termine (vedasi anche, in argomento, Sez. un. 11908 del 2014, che nella fattispecie sottoposta al suo esame ha ritenuto il termine potesse decorrere dalla data in cui il competente consiglio dell’ordine risultava avere acquisito copia della sentenza penale in attesa della quale il procedimento disciplinare era stato in precedenza sospeso).
Sarà quindi onere dell’incolpato che abbia eccepito la decadenza per tardività della riassunzione (come già affermato da Sez. un. 13975/04, cit.) allegare e provare circostanza di fatto dalle quali sia possibile desumere che il consiglio dell’ordine era venuto a conoscenza della conclusione del processo penale oltre sei mesi prima del momento in cui ha provveduto a riattivare il procedimento disciplinare sospeso per pregiudizialità.
4. Il Consiglio nazionale forense, nel caso qui in esame, non si è attenuto ai principi di diritto sopra prospettati, giacché – come già ricordato – ha escluso radicalmente che nel procedimento disciplinare possa trovare applicazione il termine di riassunzione di cui al citato art. 297 c.p.c.; né ha quindi svolto alcuna indagine in ordine al momento a partire dal quale vi sia prova che detto termine abbia preso a decorrere.
L’impugnata sentenza deve, perciò, essere cassata, con rinvio al medesimo Consiglio nazionale forense (in diversa composizione) che si atterrà ai seguenti principi di diritto:
“Il procedimento disciplinare pendente dinanzi al locale consiglio dell’ordine degli avvocati, che sia stato sospeso in attesa della definizione di un processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti, deve essere riassunto, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui il consiglio dell’ordine abbia avuto conoscenza della definitiva conclusione del predetto processo penale.
È onere dell’incolpato, il quale abbia eccepito la decadenza per tardiva riassunzione del procedimento disciplinare sospeso per pregiudizialità penale, allegare e provare gli elementi di fatto in base ai quali si possa stabilire in quale momento il consiglio dell’ordine dinanzi al quale il procedimento disciplinare pende ha avuto conoscenza della definitiva conclusione del processo penale”.
5. I rimanenti motivi di ricorso risultano assorbiti.
6. L’esistenza del rilevato contrasto giurisprudenziale induce a compensare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei riguardi del Consiglio nazionale forense; accoglie il quinto motivo del ricorso proposto nei riguardi del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Busto Arsizio, con assorbimento degli altri motivi; cassa l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa al Consiglio Nazionale forense, in diversa composizione, compensando le spese del giudizio di legittimità.
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