Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 18 novembre 2015, n. 23540

Svolgimento del processo

Con decisione del 13.03.2013, al Dott. D.A.F.U.A. , iscritto nel registro dei praticanti del C.O.A. di Velletri, è stata comminata dal suddetto Consiglio la sanzione della radiazione per avere egli trattenuto la somma di Euro 75.000,00 consegnatagli da un cliente per la partecipazione ad un incanto, senza fornire rendiconto e senza restituire la suddetta somma neppure a seguito di condanna in sede civile.
Con decisione in data 27.03/24.11.2014 il C.N.F. ha confermato la sanzione, respingendo il ricorso del D.A. , segnatamente evidenziando, per quanto qui rileva: a) l’irrilevanza delle violazioni formali denunciate dal ricorrente in ordine alla redazione del verbale della seduta tenutasi il 20.02.2013, avuto riguardo, da un lato, alla natura amministrativa e non giurisdizionale del procedimento e, dall’altro, all’efficacia di pubblica fede dell’atto in questione; b) l’implicito rilievo, nella decisione del C.O.A. dell’ininfluenza dei mezzi istruttori dedotti dal ricorrente e, comunque, la propria condivisione del procedimento logico che aveva condotto detto Consiglio all’affermazione della piena responsabilità disciplinare dell’iscritto; c) l’infondatezza della censura in ordine alla mancata coincidenza temporale tra il fatto addebitato e l’iscrizione nel registro dei praticanti, atteso che la condotta disciplinarmente rilevante, consistita nella mancata restituzione della somma – condotta pacifica in ordine alla quale il ricorrente non aveva addotto alcuna giustificazione – si era protratta ben oltre l’iscrizione del D.A. nel Registro dei praticanti e considerato, altresì, che il mancato adempimento dell’ordine di pagamento della somma portato dalla sentenza civile, integrava certamente un illecito disciplinare per gli inevitabili riflessi negativi derivanti alla reputazione professionale dell’iscritto e la conseguente compromissione dell’immagine stessa della classe forense.
Avverso detta decisione il Dott. D.A. propone ricorso per cassazione, svolgendo tre motivi.
Il C.O.A. di Velletri non ha svolto alcuna attività in questa sede.

Motivi della decisione

1. Dal momento che il ricorso risulta notificato, oltre che al C.O.A. di Velletri e al P.G. presso questa Corte, anche al C.N.F., va ribadito che nel giudizio di impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense dinanzi alla Corte di cassazione, contraddittori necessari – in quanto unici portatori dell’interesse a proporre impugnazione e a contrastare l’impugnazione proposta – sono unicamente il soggetto destinatario del provvedimento impugnato, il Consiglio dell’Ordine locale che ha deciso in primo grado in sede amministrativa ed il P.M. presso la Corte di cassazione, mentre tale qualità non può legittimamente riconoscersi al Consiglio Nazionale Forense, per la sua posizione di terzietà rispetto alla controversia, essendo l’organo che ha emesso la decisione impugnata (cfr. ex plurimis: Cass. S.U. 24 gennaio 2013 n. 1716, Cass. S.U. 16 luglio 2008 n. 19513, Cass. S.U. 5 luglio 2006 n. 15289).
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione di legge: art.49, 50 e 51 del R.D. n. 37 del 1934; artt. 57 e 58 R.D. n. 37 del 1934, artt. 40 e 42 e segg. R.D.L. n. 1578 del 1933; art. 495 cod. proc. pen., art. 183 cod. proc. civ. e di ogni ulteriore norma anche di procedura che regola il diritto di difesa, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost. eccesso di potere. Al riguardo il ricorrente deduce che, innanzi al C.N.F., aveva lamentato che il verbale della seduta tenutasi innanzi al Consiglio dell’Ordine territoriale in data 20.02.2013, acquisito su regolare richiesta di esso istante, non recava l’orario di inizio, non era sottoscritto, né conteneva alcuna indicazione della riserva o del rinvio della decisione o della lettura del dispositivo; rileva, altresì, di avere denunciato che dal medesimo verbale non risultava l’osservanza della procedura di cui agli art. 49 e seg. R.D. del 1934 n. 37, non essendovi stata la preliminare verifica della costituzione dell’incolpato (della cui assenza si da atto solo dopo la deposizione del denunciante), essendosi passato all’esame del denunciante senza che il relatore esponesse i fatti e senza che si desse contezza dell’esame delle memorie depositate dall’incolpato, né delle richieste istruttorie dallo stesso formulate e dei documenti prodotti; lamenta, quindi, che a fronte di tali censure il C.N.F. abbia affermato la natura amministrativa del procedimento disciplinare, osservando, in contrario senso, che l’art. 51 del R.D. n. 37 del 1934 prevede che sia osservato, per quanto applicabile, il disposto dell’art. 473 cod. proc. pen., con ciò escludendo la libertà di forme e il totale svincolo dalla procedura; lamenta che tra l’udienza del 20.02.2013 e la decisione del 13.03.2013 ci sia “un vuoto”, senza che neppure nella stessa decisione venga detto alcunché sui mezzi istruttori proposti, negandosi all’incolpato il diritto di difesa e di prova.
1.2. Il motivo non merita accoglimento.
Prima di ogni altra considerazione si osserva che il motivo non attinge la parte della decisione, laddove il C.N.F. stigmatizza la pretestuosità della doglianza relativa all’erronea indicazione della data di comparizione (individuata nel 20 febbraio 2012, già decorso, anziché nel 20 febbraio 2013), evidenziando che la citazione aveva raggiunto il suo scopo, per avere l’odierno ricorrente depositato memoria e riferendo, altresì, che il Consiglio dell’Ordine territoriale aveva preso in esame le deduzioni svolte per iscritto dall’incolpato (cfr. a tal riguardo la parte espositiva della decisione impugnata).
Ciò posto, la denuncia della violazione del diritto di difesa e di molteplici norme del procedimento disciplinare enunciate in rubrica si rivela generica e assertiva, non essendovi motivo di dubitare che il D.A. sia stato messo in grado di svolgere le proprie difese innanzi al Consiglio dell’Ordine, titolare della potestà disciplinare e dovendo, piuttosto, ascriversi ad una scelta personale dello stesso incolpato l’omessa comparizione all’adunanza del 20 febbraio 2013.
1.3. Per il resto il ricorrente tenta di far apparire come vizi dell’adunanza quelle che invece possono esser solo considerate forme e modalità sommarie con le quali il contenuto di essa è stato verbalizzato e che risultano, comunque, congeniali alla natura del procedimento disciplinare. Invero la decisione impugnata è conforme in parte qua al principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite di questa Corte, per cui le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli locali dell’Ordine degli avvocati, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, sicché la disciplina procedimentale non è mutuabile, nelle sue forme, dal codice di procedura penale (cfr. ex multis Cass. Sez. un. 5 ottobre 2007 n. 20843; 22 dicembre 2011 n. 28339; 5 ottobre 2007 n. 20843).
1.4. Il ricorrente, nel contestare la decisione sul punto, fa leva sul rinvio contenuto nell’art. 51 del R.D. n. 34 del 1947 alla norma di cui all’art. 473 cod. proc. civ. nel tentativo di inferirne l’applicabilità delle norme che regolano l’istruttoria nel giudizio penale o almeno di quelle che disciplinano l’acquisizione del thema probandum nel processo civile. Senonché – precisato che il richiamo normativo si riferisce al previgente codice di rito, riguardando, come risultava dalla rubrica della norma richiamata, la deliberazione della sentenza e non la sua pubblicazione (disciplinata dal precedente art. 472) – si osserva che i dati testuali emergenti dal “vecchio” codice, convalidati dal raffronto con la disciplina dell’attuale codice di procedura penale (che, analogamente, distingue le modalità della deliberazione, sub art. 527 dalla pubblicazione della sentenza, sub art. 545) confermano l’interpretazione, già adottata da queste Sezioni unite, secondo cui il rinvio contenuto nella norma di cui all’art. 51 R.D. n. 34 del 1947 (al pari di quello previsto dal successivo art. 63 per il procedimento innanzi al C.N.F.) è limitato alle norme sulla deliberazione collegiale e non può essere esteso alla pubblicazione della “decisione” disciplinare del Consiglio dell’Ordine territoriale, la quale è regolata direttamente dall’ultima parte del medesimo art. 51 mediante la forma alternativa del deposito dell’originale negli uffici di segreteria.
È, dunque, inconferente quanto asserito dal ricorrente in ordine alla mancata indicazione a verbale della lettura del dispositivo in udienza, dovendo qui ribadirsi che il rinvio contenuto nell’art. 51 del R.D. n. 37 del 1934 (al pari di quello contenuto nel successivo art. 63, concernente il procedimento davanti al Consiglio Nazionale Forense) all’art. 473 del previgente codice di rito, non implica che il dispositivo del provvedimento disciplinare debba essere letto in pubblica udienza dopo la sua deliberazione, atteso che le adunanze del Consiglio dell’Ordine territoriale non sono pubbliche e le relative decisioni sono pubblicate mediante deposito negli uffici di cancelleria e successivamente notificate all’interessato, anche ai fini della decorrenza del termine di impugnazione (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, 10 dicembre 2013, n. 27492).
In definitiva il primo motivo va rigettato.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza, violazione dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. e mancata assunzione di una prova decisiva e violazione dell’art. 606 lett. d) cod. proc. pen., eccesso di potere. A tal riguardo parte ricorrente lamenta la mancata ammissione da parte del CO.A. delle richieste istruttorie, che ritrascrive in ricorso e censura l’inidoneità della risposta data sul punto dal C.N.F., dal momento che questi si sarebbe limitato a supporre che il C.O.A. non aveva ammesso quelle prove, ritenendole ininfluenti.
2.1. Il motivo è, per una parte, inammissibile e, per altra, comunque, infondato.
2.1.1. L’inammissibilità consegue all’erronea indicazione della tipologia di vizio in relazione alle ipotesi di cui all’art. 606 lett. e) e d) cod. proc. pen.. Invero, ai sensi dell’art. 56 RD n. 1578 del 1933, le decisioni del Consiglio nazionale forense sono ricorribili innanzi alle Sezioni unite della Corte di cassazione per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, cui per effetto della previsione dell’ult. comma dell’art. 360 cod. proc. civ., devono aggiungersi tutte le ipotesi previste dal primo comma del medesimo art. 360.
La censura è inammissibile anche se riguardata con riferimento al nuovo testo dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (qui astrattamente applicabile in ragione della data della decisione impugnata), giacché il motivo prefigura situazioni che esulano dallo specifico vizio risultante dalla riformulazione della norma, quale disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ai ricorsi avverso le sentenze pubblicate, come quella all’esame, successivamente al 11.09.2012) ed esorbita dall’ambito del controllo di legittimità sulla motivazione, ricondotto dalla novella al “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Unite 07 aprile 2014, n. 8053).
2.1.2. L’infondatezza consegue alla considerazione che – contrariamente a quanto profilato in ricorso – il C.N.F. non si è limitato a supporre le ragioni della mancata ammissione delle richieste istruttorie, ma ha manifestato la propria motivata condivisione alle argomentazioni e conclusioni cui era pervenuto il C.O.A., evidenziando l’esaustività della documentazione acquisita in ordine alla ricostruzione della vicenda e alla piena responsabilità del D.A. (cfr. ultima parte pag. 5 della decisione impugnata).
Anche il motivo all’esame va, dunque, rigettato.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 38 e segg. e 44 del R.D.L. n. 1578 del 1933, nonché degli artt. 7 e 5 del Codice deontologico forense, eccesso di potere e difetto di giurisdizione. Al riguardo parte ricorrente deduce che il fatto contestato si era verificato prima della sua iscrizione nel registro dei praticanti, con conseguente inesistenza del potere disciplinare e inapplicabilità della sanzione. Precisa che il mandato gli venne conferito in data 1 marzo 2008, mentre il giuramento e la propria iscrizione nell’albo dei praticanti avvenne nel maggio 2008; invoca, dunque, l’applicabilità del principio espresso da queste Sezioni Un. nella sentenza n. 25369 del 2014.
3.1. Anche il presente motivo va rigettato.
In punto di fatto si osserva che è assolutamente irrilevante la data in cui venne conferito il mandato per l’acquisto di un immobile all’incanto, su cui fa leva il ricorrente per sottrarre la propria condotta al sindacato del Consiglio dell’Ordine professionale; così come neppure sarebbe utile il riferimento alla data in cui il D.A. avrebbe dovuto partecipare all’incanto, atteso che il fatto addebitato al ricorrente è più articolato, essendo stato contestato, ai sensi dell’art. 7 del Codice deontologico forense (dovere di fedeltà) non solo e non tanto la mancata partecipazione all’incanto, ma anche e soprattutto la condotta concretatasi nel trattenimento della somma di Euro 75.000,00 senza fornire rendiconto alcuno e senza provvedere alla restituzione della medesima somma anche a seguito di provvedimento di condanna in sede civile, contestandosi anche la violazione dell’art. 5 C.D.F. (doveri di probità, dignità e decoro).
Tanto premesso, si osserva che il richiamo al principio espresso da queste Sezioni unite con la sentenza n. 25369 del 2014 che – discostandosi da altro precedente di questa stessa Corte (n. 2223 del 2010) – ha escluso la rilevanza disciplinare delle condotte antecedenti l’iscrizione all’albo, a prescindere dalla loro rilevanza penale e dalla capacità di determinare strepitus fori nel periodo d’iscrizione, non è pertinente, rivelandosi la deduzione generica ed eccentrica rispetto alla ratio decidendi che si basa sul (diverso) presupposto, in fatto, che la condotta disciplinarmente rilevante si è protratta nel tempo ben oltre l’iscrizione e che il mancato adempimento all’ordine di restituzione portato dalla sentenza (sicuramente successivo alla data dell’iscrizione) integra un illecito disciplinare per gli inevitabili riflessi negativi (v. pag 5 della decisione impugnata).
La decisione è coerente, in parte qua, con il principio secondo cui l’appropriazione indebita si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso (cfr. Cass. 11 luglio 2002, n. 26440), dando contezza in termini congrui – e, comunque, immuni da specifiche censure – delle ragioni per cui sussistevano le esigenze di tutela del prestigio dell’Ordine forense in presenza di comportamenti posti in essere successivamente all’iscrizione, contrari ai doveri di probità, di buona condotta e di deontologia professionale che gli iscritti sono tenuti a rispettare nell’esercizio della professione.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di legittimità, non avendo parte intimata svolto attività difensiva.
La circostanza che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del d.p.r. n.115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *