Cassazione 12

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 11 novembre 2015, n. 45190

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente

Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere

Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere

Dott. LIGNOLA Ferdinando – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di:

(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa dal Gup del Tribunale di Padova in data 23/04/2014;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. MICHELI Paolo;

lette le conclusioni del Procuratore generale presso questa Corte, nella persona del Dott. SCARDACCIONE Eduardo, che ha richiesto dichiararsi l’inammissibilita’ dei ricorsi

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il Gup del Tribunale di Padova – in accoglimento di richieste presentate ai sensi dell’articolo 444 del codice di rito – applicava pene distinte nei confronti (anche) di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali imputati di vari reati, tra cui piu’ ipotesi di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (relative a numerose societa’ dichiarate fallite), truffa e falso. I predetti, avendo concordato l’applicazione di’ pene principali superiori a 2 anni di reclusione, erano altresi’ condannati alle sanzioni accessorie di legge.

Con il medesimo provvedimento, il giudicante pronunciava sentenza ex articolo 129 c.p.p., in ordine ad ulteriori addebiti contestati ai vari imputati, vuoi per insussistenza del fatto vuoi per mancanza della necessaria condizione di procedibilita’.

2. Propone ricorso il difensore del (OMISSIS), che lamenta violazione dell’articolo 62 c.p., n. 6 e articolo 133 c.p..

Nell’interesse del suddetto imputato si fa osservare che il P.M. procedente aveva subordinato il proprio consenso, sulla richiesta di applicazione di pena, al versamento di una somma di denaro ad opera del (OMISSIS), a titolo di risarcimento del danno: la somma, pari a 35.000,00 euro, era stata effettivamente versata e sottoposta a sequestro conservativo, ma nel computo della pena concordata non risultava comunque considerata la relativa circostanza attenuante. Ne deriverebbe la ravvisabilita’ di un chiaro errore di calcolo, rimediabile da parte del giudice di legittimita’ ai sensi dell’articolo 619, comma 2, del codice di rito.

3. Un ulteriore ricorso per cassazione, con unico atto curato nell’interesse dei suoi assistiti, viene presentato dal comune difensore dei fratelli (OMISSIS), Avv. (OMISSIS).

3.1 Con un primo motivo, la difesa lamenta “mancanza assoluta di motivazione in ordine alla verifica circa l’assenza delle cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 c.p.p.”. La verifica de qua, prescritta necessariamente nel giudizio che si definisce mediante applicazione di pena su richiesta, non sarebbe stata affatto compiuta, tanto che una valutazione ai sensi della norma richiamata risulta operata dal giudicante, in positivo, solo con riferimento ai reati oggetto di pronuncia liberatoria.

Fra l’altro, osserva il difensore dei ricorrenti che essi avevano certamente interesse alla rilevazione, da parte del Gup, di ipotesi di proscioglimento: cio’, in particolare, con riguardo alle contestazioni di truffa, essendo emerso che le presunte persone offese (ovvero i titolari di aziende in difficolta’ che, per risanare la situazione finanziaria, si erano rivolti agli imputati) erano sicuramente a conoscenza delle modalita’ con cui i (OMISSIS) sarebbero intervenuti nella gestione delle loro ditte. Tanto che, per taluni degli addebiti ex articolo 640 c.p., del tutto analoghi ad altri in ordine ai quali era stato perfezionato il patteggiamento, il giudicante aveva emesso sentenza di non luogo a procedere.

(OMISSIS), inoltre, avrebbe dovuto essere prosciolto dal reato cui all’articolo 494 c.p., in rapporto di sussidiarieta’ rispetto ad altri delitti contro la pubblica fede, stante la contestuale accusa di falso materiale in certificati.

3.2 Con il secondo motivo, nell’interesse dei (OMISSIS) si deduce la violazione dell’articolo 29 c.p., quanto alla irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Il giudice di merito avrebbe infatti comminato la pena de qua sulla base della pena principale complessiva, gia’ risultante dagli aumenti ex articolo 81 cpv. c.p., quando invece sarebbe stato necessario avere riguardo alla sola pena individuata per il reato piu’ grave, prima del computo effettuato mediante cumulo giuridico. Per entrambi gli imputati, la pena base, correlata al reato sub D), risulta pari ad anni 2 di reclusione, per effetto del riconoscimento di attenuanti generiche prevalenti rispetto alle circostanze di segno contrario contestate in rubrica.

3.3 Il terzo motivo, concernente il solo (OMISSIS), attiene alla violazione dell’articolo 32 c.p., (dal momento che la pena complessiva applicata all’imputato e’ pari ad anni 5 di reclusione): le ragioni di doglianza riproducono quelle evidenziate al punto precedente, anche in ordine alla interdizione legale.

3.4 Con il quarto motivo, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 216, u.c., L.F. e articolo 37 c.p., relativamente alla durata della pena accessoria dell’inabilitazione dall’esercizio di imprese commerciali e dell’incapacita’ di esercitare uffici direttivi presso imprese in genere. Secondo la difesa, una lettura costituzionalmente orientata del citato articolo 216, u.c., dovrebbe portare alla conclusione che la pena accessoria ivi contemplata non possa avere durata superiore rispetto a quella della pena principale (come disposto, in via generale, dall’articolo 37 c.p.); sul punto, viene nuovamente sollecitata la proposizione di una questione di legittimita’ costituzionale, visto che il precedente intervento del giudice delle leggi – sentenza n. 134 del 2012 – aveva portato ad una declaratoria di inammissibilita’ per ragioni formali, ferma restando la fondatezza degli argomenti sollevati.

3.5 Con il quinto motivo, per (OMISSIS) si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla confisca disposta ex articolo 240 c.p., su beni personali del predetto.

Tali beni, indicati in particolare in polizze vita accese dal (OMISSIS) per un valore di 91.738,65 euro, erano stati sottoposti a sequestro non perche’ prodotto o profitto dei reati contestati, bensi’ ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 19 e 53, nella forma del sequestro preventivo per equivalente: percio’, essendo ancora pendente il processo a carico delle societa’ coinvolte (tutte quelle di cui l’imputato risultava essere stato socio), l’eventuale confisca – comunque non motivata dal Gup – avrebbe dovuto essere disposta, all’esito del giudizio, dal competente Tribunale.

3.6 Con atto depositato il 21/04/2015, lo stesso Avv. (OMISSIS) ha fatto pervenire motivi aggiunti e memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale presso questa Corte.

Il difensore dei (OMISSIS) sollecita l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata al fine di consentire al giudice di merito la verifica della ravvisabilita’ della causa di esclusione della punibilita’ prevista dall’articolo 131-bis c.p., introdotto con legge entrata in vigore dopo la scadenza dei termini per la presentazione del ricorso oggi in esame. Nello scritto difensivo si segnala che sedici dei reati ascritti agli imputati consentirebbero, per limiti edittali ed assenza di aggravanti contestate, l’applicabilita’ del nuovo istituto, di chiara natura sostanziale; peraltro, nel caso di specie il Gup non risulta avere operato alcuna valutazione sui fatti storici in rubrica, neppure al fine di escludere eventuali ipotesi di proscioglimento, con la conseguenza che il giudice di legittimita’ non dispone di strumenti per ritenere gia’ compiuta una disamina di merito tale da escludere che i fatti de quibus possano intendersi di particolare tenuita’.

L’Avv. (OMISSIS) contesta quindi le argomentazioni esposte dal P.g. a fondamento delle proprie conclusioni, ribadendo le doglianze illustrate con i motivi di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Debbono considerarsi fondate le censure mosse nell’interesse di (OMISSIS) e (OMISSIS) in ordine alle pene accessorie di cui agli articoli 28 e 32 c.p.: l’accoglimento dei relativi motivi di ricorso, peraltro, non puo’ che spiegare effetto anche nei riguardi del (OMISSIS), ai sensi dell’articolo 587 c.p.p..

La costante giurisprudenza di questa Corte e’ infatti orientata nel senso che “in caso di condanna per reato continuato, la pena principale alla quale si deve fare riferimento per stabilire la durata della conseguente pena accessoria e’ quella inflitta per la violazione piu’ grave, come determinata per effetto del giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti ed aggravanti, e non gia’ quella complessivamente individuata tenendo conto dell’aumento per la continuazione” (Cass., Sez. 6 , n. 17616 del 27/03/2008, Pizza, Rv 240067; v. anche, da ultimo, Cass., Sez. I, n. 14375 del 05/03/2013, Aquila). Ne deriva che, essendo stata la pena base – per tutti gli imputati in epigrafe – indicata in anni 2 di reclusione, all’esito del riconoscimento delle circostanze ex articolo 62-bis c.p., in regime di prevalenza, le anzidette pene accessorie non avrebbero dovuto essere disposte.

2. Le ulteriori ragioni di doglianza, invece, non possono trovare accoglimento.

2.1 Nel computo del trattamento sanzionatorio da applicare al (OMISSIS), in effetti, non risulta contemplata l’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 6, ma cio’ deriva da una consapevole e concordata scelta, sottesa al negozio intervenuto fra le parti, non certo ad una negligente dimenticanza; del risarcimento del danno, di cui non e’ dato conoscere l’eventuale portata integrale, risulta peraltro essersi tenuto conto ai fini della concessione delle attenuanti generiche e del giudizio di bilanciamento. Ne’ puo’ dirsi consentito al giudice dell’impugnazione porre mano all’accordo de quo, inserendovi previsioni che vi erano rimaste estranee e che, pertanto, non possono intendersi avere determinato un mero errore di calcolo.

2.2 La difesa dei fratelli (OMISSIS), con il primo motivo, mira sostanzialmente a sollecitare questa Corte ad una rivalutazione dei presupposti per la ravvisabilita’ di cause di proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 c.p.p.: tuttavia, avuto riguardo alla speciale natura dell’accertamento in sede di sentenze ex articolo 444 c.p.p., il richiamo operato dal giudice di merito alle risultanze processuali appare pienamente adeguato ai parametri richiesti per tale genere di decisioni, secondo la costante giurisprudenza di legittimita’ (v., tra le altre, Cass., Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, nonche’ Cass., Sez. 5 , n. 4117 del 20/09/1999, Valarenzo Lorel Johnny). Vero e’ che un espresso riferimento al menzionato articolo 129 si legge soltanto nel momento in cui il giudicante ha inteso ravvisare gli estremi per l’applicabilita’ della norma quanto alle ipotesi di reato escluse dalla richiesta di patteggiamento, ma – da un lato – appare evidente come il riscontro positivo effettuato in quei casi debba implicitamente leggersi come esito di una verifica negativa per le contestazioni residue, ed in secondo luogo non va trascurato il particolare che nella motivazione della sentenza impugnata (sia pure in ordine alla illustrazione delle ragioni fondanti la concessione agli imputati delle attenuanti generiche) si da atto della “ammissione degli addebiti”.

2.3 Quanto alla durata della pena accessoria di cui dell’articolo 216, u.c., L.F., la giurisprudenza di legittimita’ – all’esito dell’intervento della Corte Costituzionale, di cui alla sentenza n. 134 del 2012 – e’ oramai uniforme nello statuire che “in tema di bancarotta fraudolenta, la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacita’ di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni” (v., da ultimo, Cass., Sez. 5 , n. 628 del 18/10/2013, Di Cesare, Rv 257947). Nella motivazione della pronuncia appena ricordata si evidenzia che gia’ il dato testuale avrebbe dovuto imporre la conclusione indicata, atteso che l’articolo 216, comma 4, L.F., prevede che la condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta “importa per la durata di 10 anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacita’ per la stessa durata di esercitare uffici direttivi preso qualsiasi impresa”, mentre nei casi di bancarotta semplice (ai sensi dell’articolo 217, comma 3) “la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacita’ di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a 2 anni”. Percio’, “nella ipotesi piu’ grave … si e’ voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e “disordine” per il (considerevole) lasso di tempo di due lustri; nella ipotesi meno grave … l’inabilitazione e l’incapacita’ hanno un “tetto” molto meno elevato e la loro effettiva durata e’ rimessa all’apprezzamento del giudice. “Per la durata di 10 anni”, invero, e’ espressione significativamente ben diversa da “fino a 2 anni”: nel primo caso, la proibizione dura (appunto) interrottamente per una decade, nel secondo non puo’ superare il biennio (ma puo’, quindi, anche coprire un piu’ ridotto arco temporale).

La ratio e’ evidentemente special – preventiva e la scelta del legislatore non appare al di fuori degli schemi della logica”. Conclusione che, sempre secondo l’excursus delineato nella sentenza Di Cesare, deve intendersi implicitamente avallata dal giudice delle leggi, che “con sentenza del 31 maggio 2012, n. 134, ha dichiarato l’inammissibilita’ della questione di legittimita’ costituzionale ritenendo che la sentenza additiva (richiesta al fine di rendere applicabile l’articolo 37 c.p.) non costituisse una soluzione costituzionalmente obbligata, rimanendo pertanto legata a scelte affidate alla discrezionalita’ del legislatore”.

Motivazione, quest’ultima, che non puo’ intendersi meramente formale e che varrebbe ancora oggi, a fronte di una eventuale ed acritica riproposizione della medesima questione.

2.4 In ordine alla confisca di beni personali di (OMISSIS), l’assunto da cui muove la difesa e’ che nella dizione di “titoli” (contenuta nel dispositivo della pronuncia oggetto di ricorso) rientrino le polizze vita sopra ricordate, che tuttavia vennero sequestrate in relazione alla ipotizzata responsabilita’ degli enti societari. Assunto che, non a caso, viene espresso in termini di incertezza (v. pagg. 8-9 dell’atto di impugnazione: “il Gup ha probabilmente inteso ricomprendere anche le polizze vita..”), allegando copia del relativo decreto di sequestro e richiamandone il fol. 16.

Tuttavia, il decreto in questione appare emesso dal giudice Dott.ssa (OMISSIS) in data 25/06/2011, ed a tale provvedimento la sentenza impugnata fa un espresso richiamo a pag. 8, precisando che i beni appresi in quella circostanza erano oggetto di “sequestro preventivo per equivalente in vista della futura confisca del profitto di reato”, e che “poiche’ gli enti sono stati rinviati a giudizio davanti al Tribunale in composizione collegiale, si ritiene che sia detto organo giudiziario competente a decidere sulla permanenza o meno del predetto sequestro”. Ergo, i beni indicati a pag. 16 del decreto di sequestro allegato all’odierno ricorso non possono considerarsi confiscati.

2.5 Quanto infine alla possibilita’ di rilevare nel caso di specie una ipotesi di particolare tenuita’ del fatto, ai sensi dell’articolo 131 bis c.p., risulta gia’ affermato il principio secondo cui “la esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131 bis c.p., ha natura sostanziale ed e’ applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimita’, nei quali la Suprema Corte puo’ rilevare di ufficio ex articolo 609 c.p.p., comma 2, la sussistenza delle condizioni di applicabilita’ del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito” (Cass., Sez. 3 , n. 15449 dell’08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308: in quella fattispecie, non di meno, i presupposti per l’applicazione della norma de qua risultano essere stati esclusi, emergendo dalla sentenza impugnata elementi indicativi della gravita dei fatti addebitati all’imputato, incompatibili con un giudizio di particolare tenuita’ degli stessi).

Il numero delle ipotesi criminose addebitate agli imputati, che riflettono peraltro un modus operandi consolidato gia’ alla lettura delle contestazioni di reato, porta nella fattispecie concreta ad escludere che emergano dagli atti elementi utili alla possibile applicabilita’ dell’istituto di nuova introduzione; e’ anzi agevole constatare come le condotte criminose poste in essere dai fratelli (OMISSIS) avessero, nel senso indicato dalla norma, carattere di abitualita’. Non va trascurato, peraltro, che secondo un recente indirizzo interpretativo “la esclusione della punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto di cui all’articolo 131 bis c.p., non puo’ essere dichiarata in presenza di piu’ reati legati dal vincolo della continuazione, e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio” (Cass., Sez. 3 , n. 29897 del 28/05/2015, Gau, Rv 264034).

3. Si impongono pertanto le determinazioni di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’, per l’effetto estensivo, nei confronti altresi’ di (OMISSIS), senza rinvio, limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e legale come a ciascuno rispettivamente applicate, pene che elimina.

Rigetta nel resto i ricorsi.

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