Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione tributaria

sentenza 24 febbraio 2016, n. 3580

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere

Dott. VELLA Paola – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14571-2009 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO LOCALE DI GIOIA DEL COLLE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 43/2008 della COMM.TRIB.REG. della PUGLIA, depositata il 13/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/02/2015 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato (OMISSIS) delega Avvocato (OMISSIS) che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato (OMISSIS) che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per l’accoglimento del 5 motivo, inammissibilita’ in subordine rigetto per il resto dei motivi del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. A seguito di indagini svolte dalla polizia giudiziaria nel confronti di (OMISSIS), relative al reato di truffa aggravata ai danni dell’INPS (articolo 640 c.p., comma 2), in merito a fittizie assunzioni d braccianti agricoli presso imprese agricole compiacenti o ignare, con conseguenti comunicazioni all’INPS di giornate fittiziamente lavorate volte ad ottenere il trattamento economico ordinario e straordinario di disoccupazione, la Guardia di Finanza procedeva ad una verifica parziale dei suoi redditi, limitata alla quantificazione dei redditi derivanti da attivita’ illecite.

A conclusione di questa verifica la G. di F. quantificava i redditi derivanti da attivita’ illecita per ciascun anno di imposta e redigeva in data 12.10.04, apposito processo verbale di constatazione che veniva notificato a (OMISSIS) e trasmesso all’Agenzia delle entrate.

L’Agenzia delle entrate, sulla base del p.v.c. provvedeva ad emettere avvisi di accertamento ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 41 bis, per redditi di impresa non dichiarati derivanti da presunte attivita’ illecite con conseguente liquidazione di IRPEF, addizionale IRPEF ed IRAP e, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 54, con liquidazione di IVA, oltre le connesse sanzioni per omessa dichiarazione.

2. L’avviso di accertamento per l’anno di imposta 2000, impugnato dal contribuente, veniva annullato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bari con la sentenza n. 475/15/06.

L’avviso di accertamento per l’anno 2001, anch’esso impugnato, veniva confermato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bari con la sentenza n. 153/13/07.

Avverso la prima decisione proponeva appello l’Ufficio ed avverso la seconda il contribuente.

La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, dopo aver riunito i procedimenti, con la sentenza n. 43.02.08, depositata il 13.06.08 e non notificata, accoglieva l’appello dell’Ufficio e respingeva quello del contribuente.

3. Il giudice di secondo grado non ravvisava alcuna violazione del principio del contraddittorio nella circostanza che il contribuente non era stato presente alla redazione del pvc, atteso che l’attivita’ di cooperazione tra la G. di F. e l’Ufficio in fase di acquisizione degli elementi utili non era retta dal principio del contraddittorio.

Ugualmente riteneva infondata l’eccezione sollevata circa la mancata allegazione dell’autorizzazione dell’A.G.O. al p.v.c, sulla considerazione che il pvc era stato regolarmente notificato e conosciuto dalla parte.

Affermava quindi che, vagliati i fatti e gli elementi probatori raccolti dalla polizia giudiziaria e considerata l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, legittimamente il reddito in capo al (OMISSIS) era stato determinato in base ai dati ed alle notizie raccolte, in applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 2, lettera d).

Con riferimento alla natura dei redditi provenienti da attivita’ illecita riteneva irrilevante la questione posta in merito alla loro classificazione, atteso che per quelli non classificabili vigeva comunque la disciplina di cui al Decreto Legge n. 223 del 2006, articolo 36, comma 34 bis, che consentiva di ricondurli tra i “redditi diversi”.

4. Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi ed illustrato da memoria ex articolo 378 c.p.c.. L’Agenzia delle entrate non ha svolto difese scritte, ma ha partecipato alla discussione orale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 52, comma 6, articolo 63, comma 1 e articolo 75, comma 1, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33, comma 1, articolo 32, comma 1, n. 2), ultimo inciso, articolo 70, comma 1 – la violazione della Legge n. 212 del 2000, articolo 12 e degli articoli 24 e 97 Cost. – violazione degli articoli 134, 135, 136 e 137 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), formulando il seguente quesito “E’ vero che, in ogni fase della verifica fiscale da parte della G. di F., e’ obbligatorio salvaguardare il principio del contraddittorio mediante la presenza del contribuente alla formazione del pvc, tipico atto istruttorio, con la conseguenza che il pvc, redatto unilateralmente dalla G. di F. e non sottoposto alla sottoscrizione da parte del contribuente, inficia radicalmente, per la mancata formazione del rapporto in contraddittorio, tutta la fase ispettiva e quella successiva dell’accertamento, fondata sullo stesso?”.

1.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 56, comma 5, e articolo 6, 3, comma 1, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33, comma 3, e articolo 42, commi 2 e 3 – la violazione dell’articolo 24 Cost. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), formulando il seguente quesito “E’ vero che l’autorizzazione dell’A.G.O. ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33, comma 3, e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 63, comma 1, deve essere allegata al pvc per consentire al contribuente di verificare la legittimita’ in ordine alla compiuta o meno distinzione tra i dati emersi dalla attivita’ della G. di F., genericamente definibili di polizia giudiziaria, ed altri dati acquisiti su delega dell’Autorita’ Giudiziaria, in modo anche da verificare su quali precisi dati e notizie si basa la verifica cosi’ scaturita?”.

1.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’articolo 118 disp. att. c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e la violazione del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 36, comma 2, e dell’articolo 24 Cost. e articolo 111 Cost., comma 6, formulando il seguente quesito “E’ vero che, in base alla funzione devolutiva dell’appello (revisio prioris istantiae), il giudice di secondo grado non solo ha l’obbligo di verificare l’adempimento della prescrizione di cui agli articoli 342 e 434 c.p.c., ma ha anche l’obbligo di prendere conoscenza dei fatti controversi e di riconoscere a questi, per i capi impugnati, l’appropriata qualificazione giuridica, anche per ragioni diverse da quelle prospettate nei motivi dedotti dalla parte, al fine dell’assolvimento del suo obbligo motivazionale per il chiesto riesame, l’estensione del quale deve essere ricavata dall’ampiezza della riforma demandata dall’appellante, senza limitarsi a copiare la motivazione della sentenza di primo grado?”.

1.4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 918 del 1986, articolo 1 e della Legge n. 537 del 1993, articolo 14, comma 4 – la violazione del Decreto Legge n. 223 del 2006, articolo 36, comma 34 bis, conv. in Legge n. 248 del 2006 – la violazione dell’articolo 53 Cost. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), formulando il seguente quesito “E’ vero che la tassazione dei proventi illeciti, Legge n. 537 del 1993, ex articolo 14, comma 4, e’ subordinata alla preliminare condizione dell’accertamento del presupposto impositivo, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 1, ossia all’accertamento della percezione e del possesso di redditi, in danaro o in natura, rientranti nelle categorie di cui al cit. DPR n. 917 del 1986, articolo 6?”.

1.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 112 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) formulando il seguente quesito “E’ vero che la Commissione Tributaria Regionale di Bari, nella sentenza qui gravata, ha omesso di pronunciarsi sulla domanda giudiziale di illegittimita’ delle applicate sanzioni e, violando, cosi’, l’articolo 112 c.p.c., secondo cui il giudice deve pronunciare su tutta la domanda, in applicazione del principio del doppio grado di giurisdizione?”.

In proposito il ricorrente ricorda di avere sostenuto la illegittimita’ delle sanzioni, applicate solo per l’anno di imposta 2000, in quanto, in relazione a redditi derivanti da presunte attivita’ illecite, non si configurava un “obbligo dichiarativo” in ragione della applicazione del principio generale del nemo tenetur se detegere, in quanto la dichiarazione fiscale avrebbe comportato l’autodenuncia del contribuente per fatti illeciti.

2.1. I motivi dal primo al quarto sono inammissibili per violazione dell’articolo 366 bis cod. proc. civ., applicabile catione temporis (la sentenza gravata e’ stata depositata in data 13.06.08).

2.2. Per quanto riguarda i motivi primo, secondo e quarto, ciascun quesito di diritto si risolve, con conseguente inammissibilita’, in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilita’ alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo. (Cass. SS.UU. sent n. 6420/2008). Inoltre in ciascun quesito di diritto non e’ enucleato neanche il momento di conflitto, rispetto alle norme invocate, del concreto accertamento operato dai giudici di merito e si rinviene solo una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo, senza chiarire, in relazione alla concreta controversia, l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata (cfr. Cass. sent. n. 80/2011).

2.3. Per quanto riguarda il terzo motivo il quesito non riporta, neanche in sintesi, i motivi e le questioni non trattate dalla CTR.

3.1. Il quinto motivo risulta invece fondato giacche’ la CTR non si e’ pronunciata sulla questione della legittima o meno irrogazione delle sanzioni.

3.2. Cio’ premesso circa la fondatezza dei motivo, la Corte, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’articolo 111 Cost., comma 2, nonche’ di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale articolo 384 c.p.c. ispirata a tali principi, avendo verificato tale omessa pronuncia su un motivo di appello, ritiene di poter omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito, giacche’ la questione di diritto posta non richiede ulteriori accertamenti di fatto e risulta infondata – per i motivi di seguito esplicati -, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello – che aveva dichiarato legittimo l’operato dell’Ufficio, cosi’ respingendo l’originario ricorso – e determina l’inutilita’ di un ritorno della causa in fase di merito (cfr. in tema, Cass. sent. n.2313/2010, n.8651/2006, ord. n.21257/2014).

3.3. Nel merito, la doglianza proposta circa l’applicazione delle sanzioni e’ infondata.

3.4. Innanzi tutto va considerato il quadro normativo di riferimento costituito dalla Legge n. 537 del 1993, articolo 14, comma 4, che prevede “Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, dei testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attivita’ qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non gia’ sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”, con disposizione interpretativa e, dunque, retroattiva (Cass. sent. n. 4451/1995) che ha esplicitato il principio della neutralita’ dell’imposizione, o se si vuole della irrilevanza della illiceita’ dei fatti genetici del reddito.

3.5. Cio’ premesso, per quanto concerne il profilo di violazione dei principi in ordine ad un inammissibile obbligo di autodenuncia penale, il motivo e’ infondato in relazione all’obbligo, di fonte costituzionale desumibile dall’articolo 53 Cost., di dichiarare tutti i redditi prodotti (effettivi), espressione di capacita’ contributiva.

La circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia possa violare il principio “nemo tenetur se detegere”, peraltro privo di rilievo costituzionale, e’ sicuramente recessiva rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex articolo 53 predetto. Di poi la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilita’ dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione (cfr. in termini Cass. sent. n. 20032/2011).

4.1. In conclusione, il ricorso, inammissibili i motivi dal primo al quarto, va accolto sul quinto motivo; la causa, non essendo necessarie ulteriori valutazioni, puo’ essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso originariamente proposto.

4.2. Le spese del giudizio di legittimita’ vanno poste a carico del ricorrente nella misura stabilita in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di cassazione,

– accoglie il ricorso sul quinto motivo, inammissibili i motivi dal primo al quarto, e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario del contribuente;

– condanna il ricorrente alla refusione delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida nel compenso di euro 1.700,00, oltre spese prenotate a debito.

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