Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 29 settembre 2017, n. 22832. La responsabilita’ del Ministero della salute in riferimento al risarcimento per i danni subiti a seguito di emotrasfusioni

 

Il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine, tra l’altro, alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati e risponde ex art. 2043 c.c. per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi.

Gli obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo gli derivano da una pluralità di fonti normative, ma ancor prima dall’obbligo di buona fede o correttezza, generale principio di solidarietà sociale -che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale- in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi.

Ove sia accertata “l’omissione di tali attività” (di vigilanza e controllo), ove sia accertata altresì “con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto” e ove sia accertata – infine – “l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati” può ritenersi, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione “sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento.

Il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero è quello di ritenere sussistente la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 (data di conoscenza dell’epatite B) anche per gli altri due virus (HIV e HCV epatite C), tenuto conto che essi non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge; pertanto, “di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell’impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione.

Corte di Cassazione

sez. III Civile

ordinanza 7 giugno – 29 settembre 2017, n. 22832
Presidente Travaglino – Relatore Ambrosi

Fatti di causa

Con sentenza del 3 maggio 2014 la Corte d’Appello di Napoli, ha accolto l’impugnazione proposta da S.G. avverso la pronunzia n. 6136 del 2008 resa dal Tribunale della stessa città con la quale era stata rigettata la domanda dal predetto proposta nei confronti del Ministero della salute avente ad oggetto il risarcimento dei danni conseguiti alle emotrasfusioni cui il predetto si era sottoposto nell’anno 1982, e ha condannato il Ministero della salute al pagamento in suo favore della somma complessiva di Euro 162.014,40, oltre rivalutazione, interessi e spese del giudizio.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il Ministero della Salute propone ricorso per cassazione affidato ad un unico articolato motivo. Resiste con controricorso S.G. .
Va rilevato che il Collegio ha disposto la redazione della presente sentenza in forma semplificata mediante “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione” in osservanza dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. nel testo vigente, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche dettate dalla L. n. 18 giugno 2009, n. 69.

Ragioni della decisione

  1. Con un unico composito motivo (“Violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3. Difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c. n.5. Erroneità della sentenza che ha dato per scontata la sussistenza del nesso di causalità tra patologia epatica del sig. S. e le trasfusioni subite. Difetto del nesso di causalità ed in ogni caso, difetto di qualunque comportamento colpevole imputabile al Ministero”) il Ministero ricorrente lamenta, sotto un primo profilo, l’erroneità della sentenza impugnata con la quale la Corte di merito ha ritenuto la sussistenza del nesso di causalità tra le trasfusioni subite da S. e la patologia epatica dallo stesso sofferta. In particolare, osserva che “dei quattro classici criteri utilizzati dalla scienza medico-legale per la dimostrazione del nesso di casualità, se i primi tre (compatibilità del luogo, del tempo ed efficacia dell’agente causale) sono certamente presenti nel caso in esame, risulta tuttavia carente il quarto e cioè la convincente dimostrazione della mancanza di altre cause efficienti che bene sarebbero potute insorgere nel lungo periodo tra il fatto indicato come fonte di contagio e la diagnosi certa della patologia”.
    Sotto altro profilo, denuncia l’erroneità della sentenza impugnata per non aver ritenuto i giudici di appello condivisibili le considerazioni cui era pervenuto il giudice di prime cure in ordine all’esclusione della responsabilità colposa dell’amministrazione; in sostanza, insiste nel sostenere che non possa ritenersi colposa l’omissione relativa all’identificazione di un agente infettante all’epoca sconosciuto quale quello della epatite C, allora cd. “non A non B”.
  2. Il motivo non è fondato rispetto ad entrambi i profili lamentati per le ragioni di seguito indicate.
    È principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine, tra l’altro, alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati e risponde ex art. 2043 c.c. per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584. Da ultimo v. Cass., 29/8/2011, n. 17685).
    È stato affermato, inoltre, che gli obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo gli derivano da una pluralità di fonti normative, ma ancor prima dall’obbligo di buona fede o correttezza, generale principio di solidarietà sociale -che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale- in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 23/1/2014, n. 1355; Cass. 12/12/2014 n. 26152; Cass. 16/10/2015, n. 20933).
    Le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto, pertanto, che ove sia accertata “l’omissione di tali attività” (di vigilanza e controllo), ove sia accertata altresì “con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto” e ove sia accertata – infine – “l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati” può ritenersi, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione “sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento” (Cass. S.U. 11/01/2008, n. 581).
    Fermo il richiamato principio, espresso in tema di nesso causale da comportamento omissivo, le Sezioni unite hanno pure chiarito che il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero è quello di ritenere sussistente la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 (data di conoscenza dell’epatite B) anche per gli altri due virus (HIV e HCV epatite C), tenuto conto che essi non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge; pertanto, “di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell’impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione” (così test. Cass. S.U. 11/01/2008, n. 581).
    È inoltre stato chiarito che, già a partire dalla data di conoscenza del rischio del contagio dell’epatite B, comunque risalente ad epoca precedente al 1978 (anno in cui questo virus fu definitivamente identificato in sede scientifica), sussiste la responsabilità del Ministero della salute, che era tenuto a vigilare sulla sicurezza del sangue e ad adottare le misure necessarie per evitare i rischi per la salute umana, anche per il contagio degli altri due virus (cfr. Cass., 29/8/2011, n. 17685 con cui è stata cassata la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità del Ministero della salute per i danni provocati dal contagio dell’epatite C in occasione di trasfusioni di sangue infetto eseguite nell’anno 1973).
    Pertanto, l’obbligo di controllo gravante sul Ministero non può non ritenersi operante anche anteriormente alle sopra riportate date di conoscenza dei singoli virus in quanto volto a garantire che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione delle transaminasi, in adempimento di obblighi specifici posti dalle fonti normative speciali in materia (Sez. 6 – L, 04/02/2016 n. 2232 Rv. 638719 – 01).
    La corte di merito nell’impugnata sentenza ha fatto piena e corretta applicazione dei principi soprarichiamati in tema di nesso causale. In particolare là dove ha affermato che “non può allora non ritenersi il Ministero della salute tenuto, anche anteriormente alle date di individuazione dei singoli virus (…) a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente dai virus de quibus e che i donatori non presentassero alterazione alle transaminasi, in adempimento di obblighi specifici posti dalle fonti normative speciali già all’epoca in vigore”. Inoltre ove, in relazione alla fattispecie concreta esaminata, ha rilevato che “il contagio è derivato dall’emostrasfusione del 1982 ed il Ministero non ha dimostrato di aver assolto ai doveri di vigilanza che la legge gli imponeva, né presso la struttura ospedaliera sono stati reperiti dal CTU nominato in primo grado i registri del 1982 sull’erogazione del sangue ai pazienti (tra cui l’appellante).”. Ha ritenuto, quindi, coerentemente, che unico responsabile del contagio fosse il Ministero “poiché nessuna responsabilità è emersa a carico della facoltà di chirurgia della Università Federico II, risultando pacifica la provenienza delle sacche di sangue dal Ministero anche in assenza di documentazione attualmente reperibile e non essendo contestata all’Università alcuna ulteriore negligenza.”.
    Del tutto insussistente, infine, è la doglianza relativa ad un asserito difetto di motivazione che, del resto, è stata soltanto enunciata del ministero ricorrente nell’intestazione del motivo, ma non illustrata nel corpo del ricorso.
  3. In definitiva, il ricorso deve essere respinto.
  4. Il ricorrente va condannato a rivalere la controparte delle spese sopportate nel giudizio di cassazione.
    Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, trattandosi di controversia promossa da ente statale, esso risulta esente dall’obbligo di versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale (cfr. Sez. 3, 14/03/2014 n. 5955 Rv. 630550 – 01).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Ministero al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.600,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.

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