Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 3 ottobre 2017, n. 45533. Divieto di reformatio in pejus, previsto dall’art. 597 cod. proc. pen.

 

Non viola il divieto di reformatio in pejus, previsto dall’art. 597 cod. proc. pen., il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato, come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave, applica per il reato ritenuto più grave una pena pecuniaria che non era stata irrogata in primo grado, in quanto non prevista dalla legge per il reato individuato dal primo giudice come più grave ma ritenuto insussistente in appello; né tale violazione sussiste se la pena pecuniaria venga determinata in misura superiore a quella che era stata irrogata in primo grado, solo a titolo di aumento per la continuazione

 

Corte di Cassazione

sez. III Penale

sentenza 3 febbraio – 3 ottobre 2017, n. 45533
Presidente D’Antonio Relatore Mancino

Ritenuto i n fatto

La Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza del 12 febbraio 2015, ha parzialmente riformato la precedente sentenza con la quale, il precedente 22 settembre 2011, il Gup del Tribunale di Enna, in esito a rito abbreviato, aveva dichiarato G.L. responsabile dei reati di cui agli artt. 73, comma 1-bis, lettera a), del dPR n. 309 del 1990 e 337 cod. pen. e lo aveva, pertanto, condannato, riconosciuta la circostanza attenuante di cui al comma 5 dell’art. 73, unificati i reati contestati sotto il vincolo della continuazione e applicata la diminuente del rito, alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione ed Euro 3000,00 di multa.
In particolare il giudice del gravame, pur rigettate le ragioni di impugnazione presentate dal ricorrente, ha ritenuto di dovere riesaminare il trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente, in forza delle innovazioni legislative intervenute successivamente alla sentenza del Tribunale di Enna.
Ha, pertanto, riformato la sentenza impugnata, previa riqualificazione del fatto contestato come violazione dell’art. 73, comma 5, del dPR n. 309 del 1990, e ritenuto, pertanto più grave fra i reati avvinti dalla continuazione quello di resistenza di cui all’art. 337 cod. pen., ha rideterminato, la pena inflitta in complessivi mesi otto di reclusione.
Ha proposto ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza il G. , assistito dal proprio difensore di fiducia, affidando le proprie doglianze a quattro motivi di impugnazione.
Il primo di essi concerne la erronea qualificazione della condotta posta in essere dal ricorrente – consistente, secondo la sua ricostruzione, nell’avere tenuto chiusa la porta della propria abitazione nel mentre gli agenti operanti, appartenenti all’Arma del Carabinieri gli intimavano di aprirla; in tale condotta, la quale si sarebbe ridotta ad una mera resistenza passiva, ad avviso del ricorrente non erano ravvisabili gli estremi del reato in questione, mancando in quella il requisito della violenza.
Il secondo motivo di censura ha ad oggetto, sempre con riferimento alla integrazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale, la errata qualificazione dello stesso, potendo, al massimo, essere ravvisabile un’ipotesi di tentativo, posto che il prevenuto, una volta resosi conto che aveva di fronte dei Carabinieri, dapprima non riconosciuti in quanto in abiti civili, aveva desistito dalla iniziale e tenue resistenza passiva, aprendo loro la porta di casa.
Il terzo motivo di ricorso ha ad oggetto la mancata qualificazione del fatto come di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., con il conseguente proscioglimento del prevenuto per la mancanza della punibilità del fatto stesso.
Infine il quarto motivo di impugnazione concerne la determinazione della pena operata dalla Corte nissena; lamenta, infatti, il ricorrente che, mentre il Tribunale, che pure aveva irrogato una pena complessivamente più alta di quella determinata dalla Corte di appello, era partito, nel calcolare la pena ai sensi dell’art. 81, cpv, cod. pen., dalla pena base minima relativa al reato afferente alla detenzione di stupefacenti, applicando poi un aumento di pena, per effetto della ritenuta continuazione, pari solo ad un ulteriore mese di reclusione, la Corte territoriale – la quale ha ritenuto, stante la intervenuta modifica normativa, più grave la violazione dell’art. 337 cod. pen. – ha, invece, aumentato la pena, per effetto della continuazione non di un mese di reclusione ma di quattro mesi; in tal modo, secondo il ricorrente, sarebbe stato violato il principio del divieto della reformatio in pejus.

Considerato in diritto

Il ricorso, risultato infondato, non è, pertanto, meritevole di accoglimento.
Osserva, infatti, la Corte che, relativamente al primo motivo di ricorso, i giudici del merito hanno accertato che il G. non si era limitato a non fare entrare gli agenti operanti della propria abitazione, in tal modo esercitando una semplice disobbedienza o mera resistenza passiva all’operato di costoro che è condotta, secondo la interpretazione normativa operata da questa Corte della disposizione violata, non sufficiente ad integrare il reato in questione (Corte di cassazione, Sezione VI, 10 febbraio 2015, n. 6069; idem Sezione VI penale, 1 ottobre 2008, n. 37352).
Egli ha, invece, repentinamente rinchiuso la porta della sua abitazione, aperta per fare uscire gli acquirenti dello stupefacente, in faccia agli operanti, strappato dalle mani di uno dei giovani acquirenti dello stupefacente il pacchetto che lo conteneva e cercato di occultarlo dietro un mobile del suo appartamento.
In tali condotte, il cui accertamento costituisce circostanza di fatto non più revocabile in dubbio in questa sede di legittimità, è sicuramente ravvisabile la azione tipica del reato contestato.
Infatti, come segnalato in passato da questa Corte, ma non vi è ragione di discostarsi da tale indicazione cui, anzi, appare opportuno dare continuità, l’art. 337 cod. pen. (resistenza a un pubblico ufficiale) non esige, a differenza di quanto si verifica relativamente all’art. 336 dello stesso codice (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale), in relazione al quale, anzi, il requisito in questione costituisce l’indice per eseguire la diagnosi differenziale, che la violenza o la minaccia sia usata sulla persona del pubblico ufficiale, ma richiede soltanto che sia usata per opporsi allo stesso nel compimento di un atto o di un’attività del suo ufficio.
Ne consegue che, a concretare il delitto di resistenza, è sufficiente anche la mera violenza sulle cose, quando essa sia indirizzata a turbare, ostacolare o frustrare il compimento dell’atto di ufficio (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 12 dicembre 1999).
Nel caso in esame il G. , strappando dalle mani del’acquirente dello stupefacente la bustina che conteneva la sostanza cedutagli, ha evidentemente esercitato un forma di violenza sulla cosa, dovendosi per tale intendere la applicazione ab externo di una apprezzabile forza fisica su di un oggetto materiale con la finalità di intralciare l’attività che il pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio sta compiendo e sta per compiere in tale sua veste.
Certamente integrati sono, pertanto, gli estremi materiali del reato in discorso.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile posto che attraverso di esso si cerca di veicolare una qualificazione giuridica della condotta concretamente contestata al G. diversa da quella che i giudici del merito hanno, sulla base del fatto accertato, a tale condotta attribuito.
Non si può, infatti, assolutamente accedere alla tesi, propugnata dal ricorrente, secondo la quale, una forma di resistenza che sia cessata in tempi anche assai brevi vada qualificata come ipotesi di delitto tentato e non di delitto perfezionato.
E, infatti, evidente che la durata temporale della lesione del bene interesse tutelato, una volta realizzatasi, ancorché per un lasso di tempo di contenuto spessore, potrà incidere solamente sulla gravità del danno derivante ai fini del corretto esercizio del potere pubblico ostacolato, ma non certo ai fini del perfezionamento della intera condotta penalmente rilevante ovvero della verificazione dell’evento, elementi questi che, una volta apprezzabilmente intervenuti non necessitano, ai fini della integrazione del reato nella sua forma consumata e non solamente tentata, di un loro consolidamento temporale.
Quanto alla eccezione avente ad oggetto la mancata qualificazione del fatto fra quelli che, per la loro particolare esiguità, non giustificano la risposta punitiva dello Stato, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., osserva la Corte che la questione in tal modo dedotta è infondata.
Come, infatti, questa Corte ha più volte ribadito anche in epoche recentissime e con argomenti che appaiono tuttora convincenti, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di comportamento abituale per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza non occasionale (Corte di cassazione, Sezione V penale, 1 febbraio 2017, n. 4852; idem Sezione II penale, 2 gennaio 2017, n. 1).
Ciò vale tanto più ove di tratti, come nella specie, di continuazione esterna fra reati fra loro disomogenei, e quindi espressivi di una multiforme capacità criminale, e fra loro legati da un, ancorché non formalmente contestato ma chiaramente risultante dalla descrizione dei fatti risultante dal capo di imputazione elevato nei confronti del prevenuto, evidente nesso teleologico.
Passando al quarto motivo di ricorso, ne ritiene il Collegio di doverne affermare la infondatezza.
Per la migliore intelligenza della questione è bene ripercorrerne brevemente i punti salienti.
Il giudice di primo grado, pur ritenuto che il fatto addebitato al G. sub a) della rubrica rientrasse nel fuoco dei fatti di leve entità, ritenne, sulla base delle legislazione all’epoca vigente, che tale qualificazione costituisse ipotesi di reato circostanziale e, quindi, ritenuta la macroscopicamente maggiore afflittività del trattamento edittale base previsto, all’epoca, per la violazione dell’art. 73, comma 1-bis, del dPR n. 309 del 1990 rispetto a quello concernente la violazione dell’art. 337 cod. pen., ritenne il reato previsto e punito da quella norma il più grave fra i reati in continuazione e, pertanto, commisurò la pena base su quella prevista per tale reato, applicando l’aggravamento di pena ex art. 81, cpv, cod. pen., quanto alla pena detentiva, in misura di mesi 1 di reclusione.
In grado di appello, a seguito delle intervenute modifiche normative, originariamente attuate con il decreto legge n. 146 del 2013, convertito, con modificazioni, con legge n. 10 del 2014, e quindi proseguite con il decreto legge n. 36 del 2014, convertito con modificazioni, con legge n. 79 del 2014, la Corte nissena ha, coerentemente con la giurisprudenza di questa Corte, ritenuto che la ipotesi di cui al comma 5 dell’art. 73 del dPR n. 309 del 1990 non costituisse più un’ipotesi attenuata del reato base previsto dalla disposizione in questione, ma fosse da intendersi come fattispecie autonoma di reato (in tal senso, d’altra parte, per tutte: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 12 dicembre 2016, n. 52577).
Nel valutare, pertanto, quale, fra i reati dei quali era stata ritenuta la continuazione, fosse il più grave, la Corte di Caltanissetta ha preso in considerazione, comparandone fra loro i relativi trattamenti sanzionatori, quelli previsti dall’art. 337 cod. pen. e dall’art. 73, comma 5, del dlgs n. 309 del 1990, il cui contenuto è stato, proprio in relazione alla entità della sanzione da esso prevista, modificato da ultimo con il decreto legge n. 36 del 2014, convertito con modificazioni, con la legge n. 79 del 2014, giungendo alla conclusione che, in ragione della maggiore durata massima della sanzione edittale detentiva prevista ipotesi di violazione dell’art. 337 cod. pen., il più grave fra i reati contesti fosse quest’ultimo.
Determinata, pertanto, nella misura di mesi 8 di reclusione la pena per tale reato ed in mesi 4 di reclusione l’aumento per effetto della ritenuta continuazione con il reato di cui all’art. 73, comma 5, del dPR n. 309 del 1990, ha, conclusivamente, quantificato la pena in concreto, tenuto conto della diminuente per la scelta del rito, in mesi 8 di reclusione.
Ad avviso del ricorrente, elevando l’aumento di pena ex art. 81, cpv, cod. pen. in misura maggiore di quanto aveva fatto il giudice di primo grado, la Corte di appello avrebbe violato il principio del divieto della reformatio in pejus; di qui la ritenuta illegittimità sul punto della sentenza impugnata.
La tesi non è condivisibile.
Al riguardo rileva la Corte che in seno alla giurisprudenza di legittimità è possibile trovare due diversi – ma, per quanto di seguito si dirà, solo apparentemente tali – orientamenti.
Secondo un primo orientamento, ancora di recente ribadito, nel giudizio di appello, instaurato a seguito di impugnazione del solo imputato, viola il divieto di reformatio in pejus il giudice che, riqualificato in termini di minore gravità il fatto sul quale è commisurata la pena base – a seguito ad esempio del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche -, pur irrogando una sanzione complessivamente inferiore a quella inflitta in primo grado, applica per i reati satellite – già unificati per continuazione – un aumento di pena maggiore rispetto a quello praticato dal giudice della sentenza riformata, in quanto la struttura del reato continuato non cambia nonostante la mutata qualificazione della violazione più grave (così: Corte di cassazione, Sezione II penale, 4 agosto 2016, n. 34387; idem Sezione III penale, 24 aprile 2015, n. 17113; idem Sezione V penale, 3 ottobre 2014, n. 41188).
Espressione del medesimo sentire appare anche il principio secondo il quale, nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in pejus della sentenza impugnata dal solo imputato non riguarda unicamente l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (Corte di cassazione, Sezione II penale, 15 novembre 2016, n. 48259).
Secondo un diverso orientamento, invece, non viola il divieto di reformatio in pejus, previsto dall’art. 597 cod. proc. pen., il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato, come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave, applica per il reato ritenuto più grave una pena pecuniaria che non era stata irrogata in primo grado, in quanto non prevista dalla legge per il reato individuato dal primo giudice come più grave ma ritenuto insussistente in appello; né tale violazione sussiste se la pena pecuniaria venga determinata in misura superiore a quella che era stata irrogata in primo grado, solo a titolo di aumento per la continuazione (Corte di cassazione, Sezione II penale 6 novembre 2015, n. 44657; idem Sezione VI penale, 9 aprile 2014, n. 15890).
Ritiene sul punto il Collegio, nella convinzione di dover seguire questo secondo orientamento, che, una volta scardinata la struttura del reato continuato e quindi modificati radicalmente i termini di dosimetria sanzionatoria di esso stante la intervenuta inversione dei ruoli, nell’ambito dei reati affasciati dal vincolo della continuazione, fra il reato ritenuto più grave ed (il o) i reati satelliti, non ha più senso ritenere che il giudice del gravame possa essere vincolato, onde non violare il principio del divieto della reformatio in pejus, al rispetto dei singoli limiti di pena irrogati dal giudice di prime cure, essendo, invece, il giudice dell’appello, vincolato solo dalla entità complessiva della pena irrogata in concreto in sede di giudizio di primo grado, entità che, neppure in caso di stravolgimento della struttura del reato continuato, potrà essere modificata, a pena della violazione del citato art. 597 cod. proc. pen., in senso deteriore per il prevenuto.
Un diverso argomentare potrebbe, infatti, condurre a risultati del tutto aberranti, come ad esempio si verificherebbe nella ipotesi in cui in grado di appello si fosse ritenuto, come nel caso in questione, più grave un reato punito con la sola pena detentiva, laddove in primo grado era stato, invece, ritenuto essere reato più grave un illecito sanzionato cumulativamente con pena detentiva e pecuniaria.
Infatti, ove si volesse rispettare alla lettera la intangibilità degli aumenti di pena irrogati in primo grado per il reato satellite, si dovrebbe continuare ad applicare anche una pena pecuniaria, in primo grado evidentemente calcolata in quanto facente parte del trattamento sanzionatorio edittale relativo al reato allora ritenuto più grave, ora non più prevista per il reato ritenuto più grave dal giudice di appello.
Prospettiva evidentemente impraticabile per il derivante contrasto col principio di legalità della pena.
Ritiene, peraltro, il Collegio che il ritenuto contrasto giurisprudenziale sia frutto della non corretta comprensione delle due diverse fattispecie in relazione alle quali la Corte è stata posta nella necessità di pronunziarsi.
Invero, nei primi casi fra quelli ora riportati, la Corte si era trovata di fronte non tanto ad una modificazione strutturale dello schema del reato continuato quale era stata divisato dal giudice di primo grado – cioè ad modificazione cui avrebbe dovuto corrispondere, come nelle ipotesi esaminate illustrando il secondo orientamento giurisprudenziale, la inversione dei ruoli fra reato più grave e reato satellite fra quelli avvinti dalla continuazione -. ma semplicemente, ferma restando la posizione strutturale in cui si sono atteggiati i vari illeciti commessi, ad una valutazione, compiuta in sede di giudizio di gravame, di minore gravità ex se del reato ritenuto più grave, ad esempio in forza del riconoscimento delle circostanza attenuanti generiche originariamente negate in primo grado, senza che però per effetto di tale diversa valutazione ne sia rimasto travolto originario rapporto fra ordito e trama dei diversi illeciti coinvolti nel reato continuato.
In tale caso, stante la medesimezza dei ruoli svolti nell’impalcato di questo dai vari reati affasciati dal vincolo, è evidente che un aggravamento della pena previsto per il reato – originariamente considerato satellite e tale rimasto anche dopo la diversa valutazione operata dal giudice del gravame non potrebbe che essere considerato un espediente per sterilizzare o comunque contenere la diminuzione di pena da calcolarsi per il reato più grave in forza, per restare nell’esempio, delle ritenute attenuanti generiche.
Ma una siffatta esigenza non ricorre, per le ragioni già riportate dianzi nel caso in cui, modificata radicalmente la morfologia del reato continuato, l’unico limite da rispettare per il giudice dell’appello, ove l’impugnazione sia stata presentato dal solo imputato, è, oltre a quelli specificamente previsti dall’art. 81 cod. pen., dato dal divieto di irrogare una pena complessiva superiore a quella precedentemente determinata in primo grado.
Posto che, nel caso di specie ciò non è avvenuto, essendo stata, anzi, commisurata la pena dalla Corte di Caltanissetta in misura sensibilmente inferiore a quella irrogata dal Tribunale di Enna, il motivo di ricorso è infondato.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato in toto e il ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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