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Al contrario, le censure proposte concernono la ritenuta erroneita’ e/o parzialita’ della valutazione probatoria formulata dal giudice di merito, e prospettano una lettura alternativa del compendio probatorio, sollecitando una non consentita rivalutazione del merito.
Oltre a sollecitare una inammissibile rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimita’, va evidenziato che la sentenza impugnata ha affermato la natura distrattiva delle operazioni commerciali con la societa’ panamense (OMISSIS) Inc. e con la societa’ ucraina (OMISSIS) Ltd. non gia’ sulla base del mancato rinvenimento dei contratti (come sostenuto dal ricorrente), bensi’ sulla base del trasferimento di somme di denaro o di macchinari in assenza di corrispettivo (nel primo caso, in assenza della fornitura del materiale apparentemente acquistato, e, nel secondo caso, in assenza del pagamento dei macchinari appena acquistati dalla societa’ fallita per un importo di circa 350 milioni di lire) e di predisposizione di idonee garanzie; peraltro, la reale natura delle operazioni era stata constatata gia’ dal collegio sindacale, e, successivamente, dal curatore fallimentare, che avevano rilevato come i trasferimenti di risorse erano stati disposti dall’amministratore della (OMISSIS) in favore di societa’ estere nelle quali il medesimo aveva cointeressenze, in tal senso evidenziando la dimensione di “scatola vuota” della societa’ fallita.
Ne’, del resto, le motivazioni poste a fondamento dell’assoluzione da due condotte distrattive erano automaticamente estensibili, alla stregua dell’assunto del ricorrente, alle operazioni distrattive accertate, in quanto il proscioglimento e’ stato fondato sul rilievo che, in quei casi, le forniture erano state effettivamente eseguite dalla fallita, ma mancava la prova che l’inadempimento delle due societa’ estere ( (OMISSIS) e (OMISSIS)) fosse stato previsto e preordinato.
Anche la deduzione concernente l’asserita “riparazione” delle condotte depauperatorie risulta non soltanto del tutto generica, in quanto priva di confronto argomentativo con la sentenza impugnata, che ha affermato l’assenza del benche’ minimo riscontro probatorio di condotte reintegrative del patrimonio sociale, ma altresi’ manifestamente infondata, in quanto l’acquisto del credito di Euro 338.264.000,00 vantato dalla societa’ fallita nei confronti della Tiszanagyer e’ avvenuto non gia’ per l’intero valore, bensi’ per un prezzo irrisorio, notevolmente inferiore al valore reale (poco piu’ di un terzo), peraltro neppure corrisposto, perche’ compensato con altro debito della fallita (anch’esso non provato). Inoltre, la pretesa reintegrazione sarebbe comunque insuscettibile di integrare gli estremi della c.d. “bancarotta riparata”, che prevede la reintegrazione totale del patrimonio sociale distratto, concernendo, nel caso di specie, soltanto una parte delle risorse drenate dalla societa’ fallita (ovvero, quelle in favore della societa’ ucraina (OMISSIS) Ltd.).
1.2. Il secondo motivo e’ manifestamente infondato.
Il principio di diritto richiamato dal ricorrente, secondo cui nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da’ luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualita’ di evento dello stesso e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresi’, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo (Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493), e’ stato affermato in un orientamento rimasto del tutto isolato nella giurisprudenza di questa Corte, che, anche in seguito, ha sovente ribadito che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e’ reato di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto, non e’ necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, ne’ che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 3229 del 14/12/2012, dep. 2013, Rossetto, Rv, 253932; Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407), e che non e’ necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il dissesto dell’impresa, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, detti fatti assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’insolvenza non si era ancora manifestata (Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741); invero, la condotta sanzionata dal reato di bancarotta non e’ quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento della societa’, bensi’ quella di avere depauperato l’impresa, consistente nella destinazione delle risorse ad impieghi estranei alla dinamica imprenditoriale, con la conseguenza che non e’ necessario che la rappresentazione e la volonta’ dell’agente investano il fallimento o i dissesto aziendale, essendo sufficiente che si riferiscano alla sua diminuzione patrimoniale (Sez. 5, n. 38325 del 03/10/2013, dep. 2014, Ferro, Rv. 260378).
In tal senso, del resto, si sono di recente espresse anche le Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non e’ necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attivita’ (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804, che, i’n motivazione, ha precisato che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si e’ realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza).
Tanto premesso, la doglianza, oltre ad essere manifestamente infondata, e’ altresi’ inammissibile per difetto di specificita’, limitandosi ad una critica generica, peraltro fondata sull’isolato orientamento giurisprudenziale richiamato, concernente la pretesa erroneita’ dell’affermazione della sussistenza del dolo e del nesso di causalita’, affermata sulla base di circostanze generiche (l’avere provveduto ad aumenti del capitale sociale) e prive di specifica attitudine dimostrativa, e senza alcun confronto argomentativo con la sentenza impugnata, che ha, al contrario, accertato, sulla base della relazione del curatore, che la societa’ era gia’ in stato di decozione agli inizi del 1998 (dunque, prima della cessazione della carica di amministratore da parte del (OMISSIS)), e che le condotte dell’imputato avevano inciso profondamente sulla vitalita’ economica e finanziaria della societa’ fallita.
1.3. Il terzo motivo e’ manifestamente infondato, in quanto, nonostante l’assoluzione pronunciata dalla Corte territoriale in relazione a due delle quattro condotte distrattive contestate, la pena inflitta con la sentenza di primo grado – anni tre di reclusione – non era suscettibile di riduzione, in quanto determinata nel minimo edittale (analogamente Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009: “In tema di impugnazioni, non viola il divieto di “reformatio in peius” la sentenza del giudice d’Appello che, nel pronunciare sentenza parzialmente assolutoria per uno dei reati in continuazione, non provvede a ridurre la pena complessiva per aver il primo giudice determinato la pena base in misura inferiore al minimo edittale, cio’ in quanto l’obbligo imposto dall’articolo 597 c.p.p., comma 4, presuppone che la pena da ridurre sia stata determinata in maniera legale, ovvero in misura eguale o superiore al minimo edittale”).
2. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l’articolo 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilita’, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilita’ dichiarata ex articolo 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilita’ pronunciata ex articolo 591 c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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