Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza 29 settembre 2015, n. 39357

Rilevato in fatto

1. Con ordinanza del 14 luglio 2014, ii Tribunale di Cagliari accoglieva parzialmente l’istanza di ridete rm inazione della pena formulata da G.Z. m relazione alle sentenze di applicazione della pena n. 26/2012 e n. 181/2013, emesse dal G U P, in conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità peri delitti previsti dalla«. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle droghe c. d. leggere, oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n, 32 del 2014. Rigettava invece (a richiesta di applicazione della disciplina del ram continuato, su cui era intervenuto accordo tra le parti, ritenendo che I notevole lasso di tempo intercorrente tra i fatti oggetto delle due sentenze escludeva l’unicità del progetto delittuoso.
2. Quanto alla determinazione della pena, il giudice dell’esecuzione, atteso che in entrambe le sentenze era stata riconosciuta [attenuante speciale del 5 comma del [art. 73 ci t. e che la pena base era stata fissata nella misura di tre anni di reclusione, riteneva che la pena detentiva irrogata (anni g e mesi 4 d reclusione in ciascuna decisione) era congrua m relazione alla gravità dei fatti e non poteva esser ridotta. Riduzione che invece applicava sulla pena pecuniaria irrogata nella sentenza n.26 del 2012.
3. Avverso tale pronuncia G.Z. a ha presentato un’istanza diretta al Tribunale di Roma-Cassazione sez. penale’ m cui chiede di essere autorizzato a fare ricorso in cassazione c ntml’ordinanza emessadal Tribunale di Cagliari. Chiede il ricalcolo della pena per effetto della sentenza della Corte Costituzionale e il riconoscimento della continuazione. In entrambi issi chiede uno sconto di pena.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto che sia dichiarata l’inammissibilità dei ricorso.

Considerato in diritto

1. II ricorso sostanzialmente esprime la volontà di impugnare di fronte alla Corte di Cassazione l’ordinanza emessa dal Tribunale di Cagliari e può essere esaminato. Esso è infondato sul punto relativo mancato riconoscimento della continuazione e va sul punt respinto. L’ordinanza impugnata ha esplicitato le ragioni per chi ha ritenuto di non poter riconoscere la continuazione tra i reati e come l’omogeneità delle imputazioni non fosse sufficiente a superare il dam cronologico (di circa un anno tra le due violazioni). La nozione di continuazione delineata nell’art. 81, secondo comma, cod. pen., richiede che i fatti mano riferibili ad un `medesimo` (dunque originario) disegno criminoso Siffatta unicità di disegno, equamente necessario per il riconoscimento della continuazione in fase di cognizione e in fase esecutiva, non può identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque con una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose. Occorre invece che si abbia una iniziale programmazione e deliberazione di compiere una pluralità di reati, che possono essere anche non dettagliatamente ab origine progettati e organizzati, purché risultino almeno in linea generale previsti in funzione di “adattamento” alle eventualità del caso, come mezzo al conseguimento di un unico fine, parimenti prefissato e sufficientemente specifico. Deve dunque escludersi che una tale programmazione possa essere desunta sulla sola base dell’analogia dei singoli reati o del contesto in cui sono maturati, ovvero ancora della spinta a delinquere, tanto più se genericamente economica, non potendo confondersi il fine specifico, ovverosia il movente-scopo che individua una programmazione e deliberazione unitaria, con la tendenza stabilmente operante in un soggetto a risolvere i propri problemi esistenziali commettendo reati. In questo senso, la notevole distanza di tempo ben può essere, anche se non è inevitabile che lo sia, indizio negativo. Le difficoltà di programmazione e deliberazione a lunga scadenza e le crescenti probabilità di mutamenti che, con il passare del tempo, richiedono una nuova risoluzione antidoverosa, comportano (come rileva la Dottrina) che le possibilità di ravvisare la sussistenza della continuazione normalmente «si riducono fino ad annullarsi in proporzione inversa all’aumento del distacco temporale tra i singoli episodi criminosi». E da tanto deriva che il dato cronologico costituisce un indice probatorio che, pur non essendo decisivo, può in concreto rappresentare un limite logico alla possibilità di ravvisare la continuazione.
2. La motivazione adottata dal giudice dell’esecuzione è conforme allo statuto normativo della continuazione riconoscibile in sede esecutiva, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, e non trascura gli indici evidenziati dal ricorrente dando, tuttavia, di essi un’interpretazione legittimamente divergente, siccome motivata in modo non manifestamente illogico né contraddittorio, rispetto a quella sostenuta dal ricorrente.
3. il ricorso è fondato sul punto della richiesta di rideterminazione della pena. Sul tema del ricorso – oggetto di contrastanti orientamenti giurisprudenziali – sono di recente intervenute le Sezioni Unite di questa Corte che con le coeve sentenze 26 febbraio 2015, ricorrenti J., S. e M., hanno risolto i dubbi circa la possibilità di applicazione della disciplina più favorevole in sede esecutiva, quale conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale richiamata.
4.. In particolare, si rileva che la sentenza M., per quanto noto con l’informazione provvisoria n. 6 del 2015, ha affermato il principio di diritto secondo cui, la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dall’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle droghe c.d. leggere, con pronuncia divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 deve essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione, con la precisazione che la pena deve essere rideterminata attraverso la “rinegoziazione” dell’accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell’esecuzione, che viene interessato attraverso l’incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero. È stato quindi accolto il principio per cui pena illegale non è solo quella superiore alla sanzione edittale massima reintrodotta per effetto della pronuncia di incostituzionalità, ma anche quella applicata in base alla sanzione prevista dalla norma incostituzionale. Osserva in proposito la sentenza n. 22471/2015, S., esprimendo un principio applicabile anche in sede esecutiva, “la valutazione discrezionale del giudice nella individuazione della pena in concreto da applicare non può prescindere dagli “indicatori astratti” (il minimo e il massimo edittale) che il legislatore gli ha fornito. È nell’ambito di quello spazio sanzionatorio che il giudicante deve compiere la sua valutazione. Con la conseguenza che se detto spazio muta (si restringe o si dilata), mutano inevitabilmente i parametri entro i quali la valutazione in concreto deve essere effettuata. Per altro, in terna di sostanze stupefacenti, tale spazio sanzionatorio, con il ripristino della distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, conseguente alla sentenza del Giudice delle leggi rr. 32 del 2014, è stato sensibilmente ridisegnato, consentendo, di nuovo, il ricorso ad una forbice edittale (tanto per limitarsi alla sola pena detentiva) – da due a sei anni di reclusione – di gran lunga meno ampia (e meno severa) rispetto a quella posta a base delle statuizioni contestate, vale a dire da sei a venti anni di reclusione (tanto che, come si è anticipato, il massimo della prima corrisponde al minimo della seconda), così da comporre un quadro di riferimento non paragonabile a quello tenuto presente al momento delle pronunzie dei giudici del merito e da realizzare, pertanto; un sostanziale ridimensionamento dello stesso disvalore penale dei fatto.
Ed è sostanzialmente per tale ragione che, ad esempio, nella sentenza n. 26340/2014 (Di Maggio), si osserva in particolare che la ripristinata distinzione della risposta repressiva (aie tiene conto della diversa natura delle sostanze stupefacenti), implicando una così marcata differenza del trattamento sanzionatorio, comporta la necessità di rideLerrninare la pena in concreto (a suo tempo) ritenuta congrua ed applicata. Invero, una volta mutato il parametro di riferimento, il giudice dei merito deve inderogabilmente riesercitare il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 1.32 e 133 cod. pen “.
5. La rideterminazione della pena deve essere disposta nei contraddittorio delle parti, secondo il modulo procedimentale previsto dall’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del codice di rito. Non osta alla “rinegoziazione” della pena la circostanza che in conseguenza dell’istanza proposta dal condannato il giudice per le indagini preliminari abbia già sentito le parti in camera di consiglio non evidenziandosi in che termini fu espresso il “nuovo” patto e se esso fu indissolubilmente “legato” anche al riconoscimento dei vincolo della continuazione.
Ora; alla luce del d ctum delle Sezioni unite, è evidente che il caso portato all’attenzione dei giudice dell’esecuzione va diversamente considerato da tutte le parti rispetto a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato. La rideterminazione della pena deve essere disposta nel contraddittorio delle parti, secondo il modulo procedimentale previsto dall’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del codice di rito. Va solo aggiunto che, ove le parti non raggiungano un accordo ed il giudice dell’esecuzione non ritenga ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, spetterà a lui determrare la pena legale, in base ai parametri posti dagli articoli 132 e 133 codice penale, non diversamente da quanto già previsto per la determinazione della pena nel caso di riconoscimento della continuazione in sede esecutiva.

P.Q.M.

Annulla i’ ordinanza impugnata Iirnitatamente alla rideterminazione della Pena e rinvia per nuovo esarne al Tribunale di Cagliari. Rigetta nel resto il ricorso.

 

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