cassazione 7

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 29 settembre 2015, n. 19211

Svolgimento del processo

Con sentenza del 25/10/2011 la Corte d’Appello di Firenze, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società Assicurazioni Generali s.p.a. e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Livorno n. 416/2001, ha dichiarato la concorrente responsabilità del sig. P.R. (nella misura del 15%) e del sig. B.R. (nella misura del 85%) nella causazione del sinistro stradale avvenuto a (OMISSIS) , allorquando alla guida delle rispettive autovetture quest’ultimo non ottemperava all’obbligo di dare la precedenza al primo, che peraltro non aveva rispettato il limite di velocità e non aveva impegnato l’incrocio con prudenza.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il P. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la società Assicurazioni Generali s.p.a..
L’altro intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con entrambi i motivi il ricorrente denunzia “insufficiente e/o incongrua” motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, 1 co. n. 5, c.p.c..
Si duole che la corte di merito abbia immotivatamente disatteso le conclusioni del CTU nominato in sede di gravame, non considerando correttamente l’incapacità lavorativa specifica.
Lamenta che il giudice del gravame ha fatto “riferimento alle tabelle in uso a quel tempo nei Tribunali, senza indicare quali tabelle e di quali tribunali si tratti”, omettendo di fare applicazione delle Tabelle di Milano, la cui adozione avrebbe condotto “ad un risultato di molto superiore in punto di quantum pari a circa Euro 120.000”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte fondati, e vanno accolti nei termini e limiti di seguito indicati.
Come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare, del danno non patrimoniale (diversamente da quello patrimoniale) il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit.; Cass., 31/5/2003, n. 8828. E già Cass., 5/4/1963, n. 872. Cfr. altresì Cass., 10/6/1987, n. 5063; Cass., 1/4/1980, n. 2112; Cass., 11/7/1977, n. 3106).
Valutazione equitativa che è diretta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico) (cfr., da ultimo, Cass., 8/7/2014, n. 15478. E già Cass., 19/6/1962, n. 1536) e alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà (v. Cass., 24/5/2010, n. 12613. E già Cass., 6/10/1972, n. 2904) di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’art. 2697 c.c.: v. Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass., 10/12/2009, n. 25820; e, da ultimo, Cass., 4/11/2014, n. 23425), la valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.
Come avvertito anche in dottrina, l’esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d’altro canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003, n. 8828).
Il danno non patrimoniale non può comunque essere liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass., 11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo.
Per essere congruo, il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz’altro “integrale” v. peraltro Cass., 17/4/2013, n. 9231).
Alla stessa stregua di quanto si verifica relativamente al danno patrimoniale [il quale com’è noto si scandisce in danno emergente e lucro cessante, e ciascuna di queste “categorie” o “sottocategorie” è a sua volta compendiata da una pluralità di voci o aspetti o sintagmi, quali ad esempio, avuto riguardo al danno emergente, il mancato conseguimento del bene dovuto o la perdita di beni integranti il proprio patrimonio, il c.d. fermo tecnico, le spese (di querela per l’avvocato difensore, per il C.T., funerarie, ecc.); ovvero, con riferimento al lucro cessante, la perdita della clientela, la irrealizzazione di rapporti contrattuali con terzi, il discredito professionale, la perdita di prestazioni alimentari o lavorative, la perdita della capacità lavorativa specifica, aspetti (o voci) che ovviamente non ricorrono tutti sempre e comunque in ogni ipotesi di illecito o di inadempimento, e il cui ristoro dipende dalla verifica della loro sussistenza, con conseguente differente entità del quantum da liquidarsi al danneggiato/creditore nel singolo caso concreto: v., da ultimo, Cass., 14/7/2015, n.14645], attesa la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale è necessario che essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v., da ultimo, Cass., 12/6/2015, n. 12211).
Al di là di affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. precluderebbe la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v. Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), viene poi generalmente (anche in tali decisioni) a darsi comunque rilievo alla circostanza che nel liquidare l’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale il giudice abbia invero tenuto conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo luogo alla c.d. personalizzazione della liquidazione (cfr., da ultimo, Cass., 23/9/2013, n. 21716).
Emerge evidente come rimanga a tale stregua invero sostanzialmente osservato il principio dell’integralità del ristoro, sotto il suindicato profilo della necessaria considerazione di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto, non essendovi in realtà differenza tra la determinazione dell’ammontare a tale titolo complessivamente dovuto mediante la somma dei vari “addendi”, e l’imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361).
Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro verso sottolineato che il principio della integralità del ristoro subito da quest’ultimo non si pone invero in termini antitetici bensì trova correlazione con il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone anche di evitarsi duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n. 19517), che si configurano ( solo ) allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
Duplicazioni risarcitorie si hanno pertanto solo allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non già il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361 v. anche, da ultimo, Cass., 13/8/2015, n. 16788).
Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844. In tal senso deve intendersi invero anche quanto affermato anche da Cass., Sez. Un., 16/2/2009, n. 3677: “Il c.d. danno esistenziale… costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato”).
È invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Le Sezioni Unite del 2008 avvertono che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta “portata tendenzialmente onnicomprensiva”.
In tal senso è da intendersi la statuizione secondo cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in danno biologico o in danno esistenziale.
Non condivisibile è invece l’assunto secondo cui, allorquando vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali, il danno biologico assorbe sempre e comunque il c.d. danno esistenziale (in tal senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass., 30/11/2009, n. 25236).
È infatti necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, in cui di detto aspetto (o voce) del danno non patrimoniale si coglie il significato pregnante [per un’ipotesi di ritenuta esaustività della liquidazione operata dal giudice di merito del danno non patrimoniale (subito da gestante non posta in condizione, per errore diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza), utilizzando come parametro di riferimento quello di calcolo del danno biologico, espressamente al riguardo indicando in motivazione che “la fattispecie costituiva un caso paradigmatico di lesione di un diritto della persona, di rilievo costituzionale, che indipendentemente da un danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, impone comunque al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore, di quella che avrebbe altrimenti condotto”, v. Cass., 4 gennaio 2010, n. 13].
In presenza di una liquidazione del danno biologico che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.
Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2O10, n. 9040, ove si è ravvisato essere indubbio che il giudice del merito, nel liquidare il “danno morale” dei genitori per la morte del figlio all’esito di sinistro stradale, avesse nel caso tenuto in considerazione anche la “perdita del rapporto parentale”, sottolineando non assumere al riguardo “rilievo il nomen iuris adottato dal giudice e dalle parti” bensì “i tipi di pregiudizio che vengono complessivamente risarciti nella liquidazione del danno non patrimoniale da fatto configurabile come reato”; Cass., 16/9/2008, n. 23275).
Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il c.d. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero prescindersi [corretta appare l’affermazione, nel caso peraltro riferita al “comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato”, secondo cui i danni ex art. 2059 c.c. debbono essere liquidati “in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”, che si rinviene in Cass., 17 settembre 2010, n. 19816].
Come già più sopra osservato, il ristoro del danno non patrimoniale è imprescindibilmente rimesso alla relativa valutazione equitativa.
Con particolare riferimento alla liquidazione del danno alla salute, si è in giurisprudenza costantemente affermata la necessità per il giudice di fare luogo ad una valutazione che, movendo da una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto, risponda altresì a criteri di elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in particolare Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
A tale stregua è allora esclusa la possibilità di applicarsi in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto, giacché non essendo in tal caso consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni ma assicurata invero una uguaglianza meramente formale, e non già sostanziale (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361).
Del pari inidonea è una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, e quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361).
Se una siffatta valutazione vale a teoricamente assicurare un’adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto. può infatti dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non possa ritenersi una mera circostanza di fatto ma integra una vera e propria “violazione della regola di equità”).
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere dunque idonei a consentire la c.d. personalizzazione del danno (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 13/5/2011, n. 10528; Cass., 28/11/2008, n. 28423; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/7/2006, n. 15760).
In tema di liquidazione del danno, e di quello non patrimoniale in particolare, l’equità si è da questa Corte intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408).
I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, a tale stregua pertanto del pari aliena da duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844).
Ne consegue che la liquidazione di un ammontare che si prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
Com’è noto, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da sinistro stradale valida soluzione si è ravvisata essere invero quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla, clausola generale posta all’art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852).
Tale sistema costituisce peraltro solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili (per l’adozione, quanto al danno morale da reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al c.d. danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318).
Fondamentale è che, qualunque sia il sistema di quantificazione prescelto, esso si prospetti idoneo a consentire di pervenire ad una valutazione informata ad equità, e che il giudice dia adeguatamente conto in motivazione del processo logico al riguardo seguito, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato (v., da ultimo, Cass., 30/5/2014, n. 12265; Cass., 19/2/2013, n. 4047; Cass., 6/5/2009, n. 10401), al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità.
Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha fatto ad esse espressamente riferimento.
In tema di responsabilità civile da circolazione stradale, il d.lgs. n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la liquidazione delle invalidità c.d. micropermanenti.
Già anteriormente era stato previsto (con D.M. 3 luglio 2003, e a far data dall’11 settembre 2003) un regime speciale per il danno biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).
In assenza di tabelle normativamente determinate, come ad esempio per le c.d. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per l’affermazione che tali tabelle costituiscono il c.d. “notorio locale” v. in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell’avvalersene, il giudice proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3, 2 co., Cost., questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Essendo l’equità il contrario dell’arbitrio, la liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità ( solamente ) laddove risulti non congruamente motivata, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408 ).
Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità per il giudice di motivare in ordine all’applicazione delle tabelle in uso presso il proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di uniformare, quantomeno nell’ambito territoriale, i criteri di liquidazione del danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso adeguatamente motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso altri uffici (v. Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).
Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si escludeva altresì che l’attività di quantificazione del danno fosse di per sé soggetta a controllo in sede di legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010, n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la liquidazione del danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura e all’entità del danno dal medesimo giudice accertate (v. Cass., 16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004, n. 4186; Cass., 2/3/1998, n. 2272; Cass., 21/5/1996, n. 4671).
La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.
La mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c. (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, e, conformemente, Cass., 22/12/2011, n. 28290).
Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Sotto altro profilo, si è posto in rilievo che ove le Tabelle applicate per la liquidazione del danno non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino nelle more tra l’introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice (anche d’Appello) ha l’obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione (v. Cass., 6/3/2014, n. 5254).
Orbene, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso i suindicati principi.
In particolare laddove, ritenendo che “il primo giudice ha liquidato in misura eccessiva, con riguardo al c.d. danno biologico connesso alla invalidità permanente, accertata dal consulente medico-legale nella misura del 18/20%”, e nel sottolineare che “tale danno da invalidità permanente è stato determinato dal Tribunale, considerando l’attività professionale dell’attore (odontoiatra), in lire 109 milioni, da riferire implicitamente all’epoca dell’incidente, ossia a dieci anni prima della sentenza”, ha affermato che le “tabelle in uso a quel tempo nei tribunali, anche tenendo conto dell’attività professionale del danneggiato, portano ad un risultato notevolmente inferiore. Pertanto, volendo prendere come punto di riferimento temporale della liquidazione quello della sentenza di primo grado (aprile 2001), il danno da invalidità permanente va congruamente ridotto da 109 a 90 milioni di lire, pur sempre tenendo conto del grado di personalizzazione connesso alla qualità della professione esercitata”.
A tale stregua, la corte di merito ha liquidato il danno alla salute con l’impiego di Tabelle diverse da quelle di Milano senza adeguatamente motivare al riguardo (v. Cass., 29/6/2011, n. 14402, e, conformemente, Cass., 18/11/2014, n. 24473), e senza renderne invero nemmeno nota la provenienza, a tale stregua rendendo pertanto non controllabili i criteri di relativa elaborazione (cfr. Cass., 6/3/2014, n. 5253).
Ai fini della liquidazione, anziché utilizzare, trattandosi di debito di valore, i parametri vigenti al momento della propria decisione [v. Cass., 23/1/2014, n.1361; Cass., 17/4/2013, n.9231; Cass. 11/5/2012, n. 7272] ha fatto altresì erroneamente “riferimento temporale” alla data della “sentenza di primo grado (aprile 2001)”.
Dell’impugnata sentenza, assorbita ogni ulteriore e diversa questione, va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione

 

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