cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 29 settembre 2015, n. 19331

Fatto e diritto

Il Tribunale di Tempio Pausania, in parziale accoglimento della domanda proposta da N.V. nei confronti di Meridiana s.p.a. e Meridiana Fly s.p.a., dichiarava la nullità dei termini apposti ai contratti stipulati dalla ricorrente con Meridiana a far data da quello del 1 novembre 2000 accertava che tra le parti si era instaurato un unico rapporto di lavoro, ordinava l’iscrizione della ricorrente nel libro paga e matricola con l’anzianità di servizio e le progressioni contributive maturate e condannava la società datrice al pagamento di sette mensilità della retribuzione globale di fatto in godimento ex art. 32 comma 5 della l. n. 183 del 2010.
Avverso tale decisione proponeva appello la N. dolendosi dell’omessa pronuncia sulla domanda di ricostruzione dell’anzianità di servizio maturata a far data dal 2000 e la condanna al pagamento delle conseguenti differenze retributive maturate da determinarsi in separato giudizio.
Chiedeva inoltre la condanna al versamento dei contributi ed al pagamento delle retribuzioni per i periodi non lavorati tra un contratto e l’altro ed in subordine al pagamento di un’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010 in misura superiore rispetto a quella già riconosciuta. La Corte di appello di Cagliari, sezione di Sassari, rigettava il gravame.
Per la cassazione della sentenza ha proposto tempestivo ricorso N.V. cui resistono con controricorso Meridiana Fly s.p.a. e Alisarda s.p.a., già Meridiana s.p.a..
Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 comma 5 della legge n. 183 del 2010, dell’art. 1 comma 13 della legge n. 92 del 2012, dell’art. 5 della legge n. 230 del 1962 e 6 del d. lgs. N. 368 del 2001; della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18.3.1999 allegato alla direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP, violazione dell’art. 3 e 117 della Costituzione in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c..
Rileva la ricorrente che la decisione della Corte territoriale è in palese contrasto con il principio di parità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. Evidenzia che l’onnicomprensività dell’indennità di cui all’art. 32 della legge n. 183/2010, come pure interpretata dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, non può che riferirsi ai soli periodi non lavorati che vanno dalla scadenza del termine alla sentenza che ricostituisce il rapporto e non anche a quelli lavorati.
4. Il motivo è fondato.
L’art. 32 della legge n. 183 del 2010 ha modificato il regime della tutela del lavoratore assunto con un contratto a termine illegittimo.
Il precedente assetto era così organizzato: nel caso in cui si accertasse l’illegittimità del termine, il giudice doveva ordinare la riammissione in servizio del lavoratore, con conseguente diritto a percepire le retribuzioni anche qualora il datore di lavoro non consentisse la ripresa del lavoro. Questa prima fondamentale conseguenza è rimasta immutata. Anche dopo la legge n. 183 del 2010 e la legge di interpretazione autentica, la sentenza che accerta l’illegittimità del termine converte il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato e dispone la riammissione del lavoratore in servizio. Da quel momento il lavoratore avrà diritto a percepire le retribuzioni tanto se il datore di lavoro adempie, quanto se non adempie (in questo secondo caso a titolo di risarcimento del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di assunzione: cfr. Cass. 11 aprile 2013, n. 8851; ma v. anche Corte cost. 30 luglio 2014, n. 226). Con riferimento, invece, al periodo che precede la sentenza, il quadro è parzialmente cambiato.
Nel regime previgente mancava una norma che regolasse specificamente questo profilo e la regolamentazione venne delineata in base ai principi generali del diritto civile e del lavoro. Fondamentale fu la sentenza delle Sezioni unite 5 marzo 1991, n. 2334, che risolse il contrasto tra due orientamenti: quello che riteneva che al lavoratore spettassero tutte le retribuzioni pregresse e quello che invece riteneva che il lavoratore avesse diritto alle retribuzioni pregresse solo se e a decorrere dal momento in cui avesse messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative.
È bene ricordare che la diversità dei due orientamenti concerneva il diritto alla retribuzione per gli intervalli non lavorati tra un contratto a termine e l’altro, in caso di sequenza di contratti a termine, mentre nessuna delle sentenze in conflitto negava che spettasse la retribuzione per i periodi di lavoro effettuati nella sequenza di contratti a termine.
Le Sezioni unite ritennero che il problema concernente i periodi “non lavorati”, non trovasse soluzione in una norma specifica, come invece avveniva nella materia affine ma non identica dei licenziamenti illegittimi con l’art. 18 St. lav., e dovesse quindi essere risolto in base ai principi generali dell’ordinamento. Affermarono che il principio regolatore della materia, data la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, fosse quello della corrispettività tra lavoro e retribuzione e che non potesse esservi retribuzione in assenza della prestazione lavorativa. Per questa ragione ritennero non fondato l’orientamento che riconosceva tutte le retribuzioni pregresse per i periodi non lavorati, ed invece fondato quello che le riconosceva, ma solo a condizione ed a far tempo da un eventuale atto di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore. Queste conclusioni hanno guidato la giurisprudenza dei decenni successivi.
Le Sezioni unite si espressero anche sui “periodi lavorati” e precisarono che l’unificazione del rapporto di lavoro “comporta, a prescindere dalle eventuali spettanze, nei limiti anzidetti, per gli intervalli non lavorati, un ricalcolo delle spettanze per i periodi lavorati una volta considerati inseriti nell’unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente applicazione degli istituti propri di questo quali, ad esempio, gli aumenti di anzianità, la misura del periodo di comporto, la misura del periodo di preavviso, e determina comunque sicuri vantaggi per il lavoratore…. quali l’acquisizione della corrispondente anzianità, quanto meno per sommatoria dei periodi lavorati”.
Il quadro regolativo è cambiato con la legge n. 183 del 2010, ma come si vedrà, il cambiamento riguarda solo i periodi non lavorali. L’art. 32, quinto comma, così si esprime: “nei casi di conversione del contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
L’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, ha sancito che detta norma “si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostruzione del rapporto di lavoro”. Dalla norma si desume che l’indennità è volta al “risarcimento” del lavoratore. Quindi concerne un danno subito dal lavoratore e cioè il danno derivante dalla perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un danno da mancato lavoro. La norma di interpretazione autentica afferma che l’indennità “ristora un pregiudizio” ribadendo, ancor più esplicitamente, che è correlata ad un danno, un pregiudizio, derivante dalla perdita del lavoro e che essa onnicomprensiva perché ristora per intero le “conseguenze” retributive e contributive di quel danno da mancato lavoro.
Quindi tutti i danni sul piano retributivo e contributivo che sono conseguenza, cioè sono legati da un nesso di causalità con la perdita del lavoro. Se l’indennità serve a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato lavoro è evidente che il legislatore considera solo i periodi di non lavoro ai fini di tale risarcimento. Ed infatti esclude dal computo il periodo sino alla scadenza del termine, che è periodo di lavoro, in cui il lavoratore è stato retribuito e quindi non ha subito, né può subire conseguenze negative sul piano retributivo o contributivo. In tale periodo la retribuzione è dovuta e detto periodo si computa ai fini degli effetti riflessi e dell’anzianità di servizio. L’anzianità di servizio maturata in questo periodo lavorato, vale a tutti gli effetti. Rileva persino per la quantificazione della indennità volta a risarcire il danno derivante dalla perdita del lavoro, perché è uno dei criteri indicati dall’art. 8 della legge 604 del 1966, richiamati dall’art. 32, quinto comma, della legge n. 183 del 2010. Il problema oggetto della presente controversia deriva dal fatto che il datore di lavoro ha stipulato con il lavoratore non un unico contratto a termine, ma una serie di contratti a termine. Il legislatore non ha espressamente considerato questo caso, ma l’interpretazione logico sistematica della norma impone di ritenere che, se è estraneo al risarcimento il periodo del primo contratto a termine, lo saranno anche i periodi lavorati in successivi contratti a tempo determinato. Sarebbe assurdo affermare che per questi periodi la retribuzione non spetti e sia assorbita nella indennità, ma è parimenti contrario alla logica della norma ritenere che questi periodi di lavoro è come se non fossero stati effettuati e non rilevino ai fini dell’anzianità di servizio e delle sue implicazioni economiche. Questi periodi non possono non avere lo stesso trattamento giuridico del periodo di lavoro per il primo contratto a termine in quanto, al pari del primo, sono estranei al danno determinato dal non lavoro, quindi estranei alla indennità prevista dal legislatore per risarcire le conseguenze retributive e contributive di quel pregiudizio. Il risarcimento riguarderà solo i periodi di “non lavoro”. Solo per questi periodi vi è un danno da risarcire e un pregiudizio da ristorare.
Pertanto l’indennità prevista dall’art. 32, risarcisce il danno subito per il mancato lavoro e lo risarcisce in tutte le sue conseguenze retributive e contributive, in tal senso è onnicomprensiva. Mentre non riguarda il periodo (in caso di un unico contratto a termine) o i periodi di lavoro (in caso di più contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire ed il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa effettuata. Questa ricostruzione è in continuità con quanto affermato nelle prime sentenze sull’art. 32, come interpretato dalla legge n. 92 del 2012.
In particolare, Cass. n. 15265 del 12 settembre 2012, nell’enucleare il principio di diritto paria di “indennità forfetizzata ed onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo considerato intermedio”. Forfetizzazione dei danni determinatisi “nel” periodo intermedio, significa che l’indennizzo non incide sui diritti maturati in quel periodo nella parte del rapporto che non ha determinato danni: non tocca le retribuzioni per i periodi lavorati e gli effetti riflessi di tali retribuzioni, né tocca l’anzianità lavorativa maturata in tale o in tali periodi.
La medesima pronuncia afferma: “legittimamente la sentenza impugnata ha considerato nell’anzianità lavorativa e retributiva tutti i periodi effettivamente lavorati, da sommarsi a quelli successivi alla formale assunzione a tempo indeterminato, in ragione del principio ripetutamente affermato da questa Corte (Cass., sez. un., 5 marzo 1991, n. 2334 e succ.)”. L’affermazione è netta ed è esplicito il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite che, come si è visto, affermò che nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di più contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione del termine, gli “intervalli non lavorati” fra l’uno e l’altro rapporto, in difetto di un obbligo del lavoratore di continuare ad effettuare la propria prestazione o di tenersi disponibile ad effettuarla, non implicano il diritto alla retribuzione… e nemmeno sono computabili come periodi di servizio”, mentre i “periodi lavorati” danno diritto alla retribuzione e sono rilevanti ai fini della maturazione degli scatti di anzianità. Quest’ultimo profilo dell’assetto dato dalle Sezioni unite del ’91 alla materia – sottolinea la sentenza del 2012 – va oggi pienamente riaffermato non essendo stato scalfito minimamente dallo ius superveniens costituito dalla legge n. 183 del 2010.
Le più recenti Cass. 16 giugno 2014, n. 13630 e Cass. 17 giugno 2014, n. 13732 hanno fissato il seguente principio di diritto: “L’art. 32, quinto comma, legge n. 183 del 2010 commisura l’indennità, dovuta nei casi di conversione, all’ultima retribuzione globale di fatto, così riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal proprio posto di lavoro nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito. L’espressione “onnicomprensiva”, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato”.
In questo principio di diritto è detto chiaramente che l’indennizzo onnicomprensivo copre soltanto il danno derivante all’allontanamento dal lavoro e quindi il danno subito per il “non lavoro” nel periodo o nei periodi “non lavorati”. Il che ancora una volta conferma che i diritti per i periodi in cui si è prestato lavoro non vanno ricompresi nell’indennità risarcitoria perché non sono stati danneggiati, sono fuori dal perimetro del danno e quindi del risarcimento. Quanto alle conseguenze giuridiche di tale assetto sull’anzianità, la Corte in queste ultime sentenze aggiunge, e non potrebbe essere più chiara, che: “L’espressione “onnicomprensiva”, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo determinato”.
In conclusione, nonostante i problemi lessicali derivanti dal fatto che probabilmente il legislatore ha configurato l’indennità avendo presente
11 caso, statisticamente più frequente, della stipulazione di un unico contratto a termine, deve affermarsi che l’indennità prevista dall’art. 32 legge n. 183 del 2010 ristora in generale il danno subito dal lavoratore per l’allontanamento dal lavoro, tanto se questo sia stato unico, quanto se sia stato ripetuto. Per tali periodi di non lavoro, mentre prima il lavoratore aveva diritto ad essere comunque retribuito a decorrere dalla messa a disposizione delle energie lavorative pur non avendo lavorato, oggi è prevista solo l’indennità da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità.
Al contrario, per il periodo di lavoro (o i periodi di lavoro, in caso di sequenza di contratti) il lavoratore ha diritto ad essere retribuito ed ha diritto a che tale periodo o tali periodi siano computati ai fini della anzianità di servizio e, quindi, della maturazione degli scatti di anzianità.
Questa interpretazione del quinto comma dell’art. 32 l. n. 183 del 2010 è la più coerente sul piano logico sistematico. Si coordina con i tratti del sistema delineato dalle Sezioni unite che, come si è visto e come hanno sottolineato le decisioni del 2012, sotto questo profilo rimangono fermi, ed è in continuità con i primi interventi di questa Corte successivi alla modifica legislativa.
È coerente con i principi espressi dall’art. 5 della legge n. 230 del 1962 e dall’art. 6 del decreto legislativo n. 368 del 2001, nonché con i principi costituzionali e del diritto dell’Unione Europea: in particolare con il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, anche e specificamente in ordine all’anzianità di servizio, affermato con la Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.”(cfr. Cass. n. 262 del 2015 ed altre successive). Ove si intenda dare continuità ai principi esposti, allora, il primo motivo di ricorso manifestamente fondato dovrà essere accolto con ordinanza ex art. 375 cod. proc. civ., n. 5, assorbito il secondo motivo proposto in via subordinata, e la sentenza cassata in relazione al motivo accolto dovrà essere rinviata alla Corte di appello di Cagliari che deciderà la causa attenendosi al seguente principio di diritto: “Nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di più contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione del termine, l’indennità risarcitoria, dovuta ai sensi dell’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprendendo tutti i danni – retributivi e contributivi – causati dalla perdita del lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine, con riferimento agli intervalli non lavorati fra l’uno e l’altro rapporto a termine; al contrario, i periodi lavorati, non solo nel primo, ma anche nei successivi contratti del periodo intermedio, una volta inseriti nell’unico rapporto a tempo indeterminato, fanno parte della anzianità lavorativa e retributiva e devono essere considerati ai fini della quantificazione degli aumenti periodici di anzianità”.
La Corte del rinvio provvederà altresì sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002 da atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’arti3 comma 1 bis del citato d.p.r..

 

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