Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 22 gennaio 2018, n. 2401. In tema di rifiuti, lo svolgimento di attività di gestione in forma semplificata

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2.3.1. Con l’ulteriore doglianza di cui al motivo in esame, la difesa del ricorrente ricorda come il (OMISSIS), a seguito del sopralluogo presso la cava, venne disposto il sequestro da parte del pubblico ministero, poi seguito dalla ordinanza di dissequestro il 21/12/2011; nel provvedimento il magistrato aveva disposto che gli incaricati della provincia di Milano individuassero con precisione le aree di stoccaggio all’interno della cava ove questi potesse regolarmente proseguire la propria attivita’ professionale, adempimento cui la provincia non aveva mai dato attuazione, anzi sollevando una serie di osservazioni, successivamente riversate in un provvedimento di conformazione del 30/1/2012, attraverso cui si intimava al ricorrente di operare tutta una serie di adeguamenti in un margine temporale assai esiguo, 20 giorni per alcuni e 60 per altri; in relazione a tali adempimenti il teste a difesa, ing. (OMISSIS), avrebbe confermato che il primo termine sarebbe stato rispettato, mentre quanto al secondo, sarebbe stata richiesta una proroga senza tuttavia ottenere alcun riscontro da parte dell’amministrazione provinciale; nonostante quanto sopra, e quindi in presenza di una evidente negligenza dell’amministrazione, nel corso del sopralluogo successivo, gli incaricati della provincia avrebbero riscontrato le stesse identiche anomalie che avrebbero invece dovuto essere adeguate nel termine dei 60 giorni di cui era stata richiesta la proroga, con la conseguenza che il successivo 18 luglio 2012 era stata emessa una nuova disposizione dirigenziale impositiva di ulteriori divieti e di azioni nel rispetto di scadenze temporali ristrette; la sentenza di appello, laddove sostiene che il (OMISSIS) non avrebbe sollecitato la provincia ad indicare l’area ove proseguire l’attivita’, risulterebbe contrastante con quanto affermato dal teste (OMISSIS), peraltro erroneamente richiamando la norma dell’articolo 216, comma 4, del testo unico ambientale laddove afferma che il ricorrente avrebbe proseguito la sua attivita’ successivamente ai divieti imposti con la disposizione del 18/7/2012, atteso che la predetta norma si riferisce ad una ipotesi differente.
2.3.2. Quanto ancora all’ulteriore profilo di doglianza contenuto nel motivo in esame, e vertente sulla corretta qualificazione di rifiuto non pericoloso del materiale rinvenuto, si censura quanto affermato dai giudici di appello che avrebbero completamente aderito alla prima sentenza, evitando di rispondere alle censure in diritto sollevate dalla difesa e fondate su fatti sorretti da testimonianze e documenti, trincerandosi dietro un’opera di delegittimazione dell’appello pur di non affrontare in maniera tecnica le censure proposte; a tal proposito, ricorda la difesa di aver addotto non solo il contributo di due esperti in materia, ma anche la documentazione specifica attestante la corretta qualificazione dei materiali oggetto del procedimento, ossia i test di cessione e le curve granulometriche eseguite su incarico dello stesso ricorrente; a fronte di tale determinazione difensiva volta a dimostrare come non ci si trovasse affatto in presenza di rifiuti ma di m.p.s., il primo giudice, seguito da quelli d’appello, avrebbe dato credito a quanto affermato dai testi dell’accusa (OMISSIS) ed (OMISSIS), qualificando detto materiale come rifiuto, senza che i predetti testi avessero fornito indicazioni sulla tipologia di accertamenti effettuati per qualificare i materiali come rifiuti e senza che nessuno dei giudici motivasse onde smentire gli elementi probatori favorevoli all’imputato; l’unica norma da considerare per stabilire se il materiale proveniente dalle demolizioni e’ rifiuto o m.p.s. e’ l’articolo 184-ter del testo unico ambientale, sicche’ non tenendone conto, i giudici avrebbero commesso anche la predetta violazione di legge; sarebbe stata poi omessa la doverosa distinzione tra i test da eseguire sui rifiuti in ingresso ed i test da eseguire sulle m.p.s., dimenticando invece che il test di cessione sui rifiuti non spetta all’acquirente, ma ai produttori di rifiuti, cui incombe l’onere di redigere e presentare i piani di scavo, mentre spetta a chi recupera il rifiuto, ossia al ricorrente, procedere alle analisi del prodotto recuperato al fine di dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti dalla norma dianzi evocata; e cio’ e’ quanto sarebbe stato fatto dal ricorrente, il quale ha allegato alla memoria difensiva tutti i test di cessione e le prove granulometriche fatte eseguire sul materiale stoccato dopo la lavorazione da societa’ o dipartimenti universitari commissionari, senza dubbio eseguiti per conto del committente (OMISSIS) e non certamente da “alcuni produttori di rifiuti”, come genericamente indicato nella sentenza d’appello; ne discenderebbe dunque come il (OMISSIS) non abbia violato la norma di cui all’articolo 256, comma 1, lettera a), del testo unico ambientale; del resto, l’individuazione erronea dei soggetti effettivamente gravati dall’onere di esecuzione dei test qualitativi delle materie da loro trattate avrebbe inevitabilmente inglobato anche quella relativa alla titolarita’ dell’obbligo di presentazione dei piani di scavo, erroneamente attribuendo al ricorrente la rilevata incompletezza dei medesimi, laddove si consideri che non spetta al cessionario delle macerie da demolizione predisporre e presentare i piani di scavo, bensi’ al cedente costruttore che effettua materialmente lo scavo; ne discende, pertanto, che l’aver imputato al ricorrente la trasmissione di alcune copie di piani di scavo incompleti nonche’ di non aver ottemperato all’onere probatorio sul rispetto dei requisiti stabiliti per le terre e rocce da scavo ai fini dell’esclusione dal campo di applicazione della disciplina in materia di rifiuti sarebbe scorretto ed illogico, atteso che la predetta qualificazione quale terre e rocce da scavo in luogo di rifiuti, deve essere accertata unicamente attraverso l’esecuzione di quel test di cessione e delle curve granulometriche, regolarmente eseguiti dal ricorrente, i quali certificavano come i materiali rinvenuti fossero da definirsi terre e rocce da scavo; da qui la logica conseguenza di come non fosse imputabile al ricorrente il reato di discarica non autorizzata di rifiuti speciali, atteso che la parte di sentenza volta identificare i cumuli di materiale come rifiuti risulterebbe viziata sotto il profilo motivazionale, palesando l’erronea applicazione della legge penale e rendendo dunque illegittima la disposta confisca.

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