Ricognizione: dichiarazione astrazione processuale causa

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|27 gennaio 2025| n. 1879.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

Massima: La ricognizione di debito è un atto giuridico dichiarativo che produce l’effetto giuridico dell’astrazione processuale della causa solo quando non esiste contrasto sull’interpretazione di questa. Non può considerarsi tale un documento che si limita a descrivere fatti senza riconoscere un obbligo di restituzione, anche implicito.

Ordinanza|27 gennaio 2025| n. 1879. Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

Integrale

Tag/parola chiave: Ex conviventi – Dichiarazione scritta di aver ricevuto somme dall’altro – Riconoscimento di debito – Configurabilità – Esclusione – Descrizione di una situazione di fatto – Configurabilità

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliera

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere-Rel.

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricOr.En. 3419-2022 proposto da:

Mi.Lo., elettivamente domiciliata in Roma, via Ca.1A., presso lo studio dell’Avvocato Gi.MA., rappresentata e difesa dall’Avvocato Pi.PE.;

ricorrente

contro

Or.En., elettivamente domiciliata in Roma, via degli Sc.15., presso lo studio dell’Avvocato Fa.BL., rappresentato e difeso dagli Avvocati An.AR. e Da.FO.;

controricorrente

Avverso la sentenza n. 1168/2021 della Corte d’Appello di Genova, depositata il 19/11/2021; udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 02/10/2024 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

FATTI DI CAUSA

1. Mi.Lo. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1169/21, del 19 novembre 2021, della Corte d’Appello di Genova, che – accogliendo il gravame esperito da Or.Fe. avverso la sentenza n. 392/18, del 10 aprile 2018, del Tribunale di Savona – ha revocato, in accoglimento dell’opposizione proposta dall’allora appellante, il provvedimento monitorio emesso in favore della Mi.Lo., per l’importo di Euro 88.000,00, oltre interessi.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver conseguito il decreto ingiuntivo – poi opposto da Or.En. – in forza di una scrittura datata 8 febbraio 2004, con la quale costui dichiarava che essa Mi.Lo., a quell’epoca sua convivente “more uxorio”, aveva “messo Euro 55.000,00 dei suoi risparmi per il completamento delle opere edili, idrauliche ed elettrici (sic) e di arredamento della villa sita in Boissano, Via Co.52.”, avendogli “inoltre dato Euro 33.000,00 per l’acquisto di parte della mansarda di via St.”. Sul presupposto, infatti, che tale dichiarazione avesse natura di ricognizione di debito, la Mi.Lo. conseguiva il richiesto provvedimento monitorio, fatto poi oggetto di opposizione dall’ingiunto.

L’opponente, in particolare, sosteneva, per quanto ancora d’interesse, che il denaro oggetto del supposto prestito – che la Mi.Lo. assumeva di aver erogato all’allora convivente (poi divenuto marito, con successiva, però, separazione personale dei due) – fosse stato, in realtà, dal medesimo destinato in favore della propria famiglia d’origine, essendo entrambi gli immobili, di cui alla scrittura suddetta, di proprietà del proprio padre, Or.Gi.

L’iniziativa ex art. 645 cod. proc. civ., inoltre, si basava pure sull’assunto che, in occasione del giudizio di separazione personale, secondo quanto attestato dal verbale e dal decreto di omologa (nonché dal ricOr.En. per separazione, sottoscritto da entrambi nell’anno 2009) i separandi coniugi ebbero a dichiarare “reciprocamente di non avanzare alcuna pretesa economica l’uno dall’altro a titolo di concOr.En. nel mantenimento né per alcun altro titolo”.

Rigettata dal giudice di prime cure la proposta opposizione, il gravame esperito dall’attore in opposizione veniva accolto dal giudice d’appello.

A tale esito esso perveniva sul rilievo che la scrittura privata, posta a base del ricOr.En. per ingiunzione, non potesse valere come ricognizione di debito, recando “solo il riconoscimento di due fatti”, ovvero che la Mi.Lo. “aveva contribuito con l’importo di Euro 55.000,00 al pagamento dei lavori di ristrutturazione ed arredamento di quella che a breve sarebbe stata la casa coniugale”, ma “di proprietà del padre dell’appellante”, ed inoltre che “l’appellante” (recte: appellata) “aveva dato Euro 33.000,00 per l’acquisto di parte della mansarda (che sarebbe stata anch’essa intestata al padre dell’appellante)”.

Su tali basi, pertanto, individuato nel suocero della Mi.Lo. il soggetto “a vantaggio del quale il denaro era stato corrisposto”, il giudice di seconde cure – nel ritenere fondato il motivo di gravame, con cui Or.En. aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva – ha ritenuto che fosse l’odierna ricorrente a dover “provare in giudizio che era proprio l’ex marito a dover restituire l’importo dalla stessa versato e non l’ex suocero”. In ogni caso, la Corte territoriale sottolineava che, anche a ritenere la dichiarazione sottoscritta dall’appellante, nel 2004, come riconoscimento di debito, “l’espressa rinuncia sottoscritta dalla Mi.Lo. (o come d’altra parte quella sottoscritta dall’Or.En.) nel ricOr.En. per separazione consensuale, impediva a quest’ultima di azionare in data successiva il presunto titolo”.

3. Avverso la sentenza della Corte ligure ha proposto ricOr.En. per cassazione la Mi.Lo. sulla base – come detto – di tre motivi.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

3.1. Il primo motivo si articola in tre censure.

La prima deduce – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1988 e 2697, comma 1, cod. civ., denunciando il mancato riconoscimento della natura di atto di ricognizione di debito della scrittura sottoscritta dall’Or.En. in data 8 febbraio 2004 e la conseguente erronea distribuzione dell’onere probatorio tra le parti.

La seconda deduce – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., denunciando vizi di ragionamento e/o errori di diritto per errata applicazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si deve avvalere nell’interpretazione degli atti.

La terza deduce – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. – omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, censurando la sentenza impugnata perché la Corte territoriale non ha preso in considerazione la lettera datata 7 settembre 2016, indirizzata dalla Mi.Lo. ad Or.En., dal contenuto della quale si ricaverebbe che la prima era a conoscenza soltanto del fatto che la somma di Euro 55.000,00 era stata destinata alla ristrutturazione dell’abitazione ove viveva il secondo e che la somma di Euro 33.000,00 era stata destinata all’acquisto di una mansarda, senza che si facesse riferimento al padre dell’appellante.

La prima censura, in particolare, si appunta contro la decisione della Corte genovese di negare natura di ricognizione di debito alla dichiarazione dell’8 febbraio 2004, giacché – assume la ricorrente – “sostenuta da un percOr.En. motivazionale illogico, contraddittorio ed autoreferenziale”, essendo basata “su di una falsa e fuorviante applicazione dell’art. 1988 cod. civ. e dei criteri ermeneutici che debbono improntare il ragionamento del giudice nell’interpretazione degli atti”. Difatti, la Corte genovese è pervenuta a tale conclusione sul rilievo che la dichiarazione dovesse “comprendere all’interno del suo corpo” – sottolinea sempre la ricorrente – “la presenza di una formula che abbia effetti restitutori”, così richiedendo un requisito non contemplato né dalla legge né dalla giurisprudenza.

D’altra parte, errerebbe la sentenza impugnata nell’escludere che nella scrittura suddetta vi fosse “un riconoscimento implicito dell’obbligo di restituire le somme” da parte del dichiarante Or.En., esito al quale essa è pervenuta – secondo la ricorrente – sul rilievo che “i soldi erano stati utilizzati sia per miglioramenti di un immobile del padre (Euro 55.000,00) sia per l’acquisto di un immobile da parte del padre stesso (Euro 33.000,00)”.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

Svolge, al riguardo, la Mi.Lo. due considerazioni.

Per un verso, osserva come non vi sia alcuna prova che ella, al momento della dazione del denaro e del conseguente rilascio della dichiarazione, sapesse chi ne fosse il destinatario, nulla risultando dalla dichiarazione dell’8 febbraio 2004. Né, d’altra parte, in tal senso potrebbe assumere alcuna valenza probatoria la lettera del 7 settembre 2016, da essa Mi.Lo. inviata all’ex coniuge (il cui omesso esame la ricorrente contesta alla Corte territoriale, con la terza delle censure oggetto del presente motivo). Dalla stessa, anzi, emergeva come ella fosse a conoscenza del fatto che la somma di Euro 55.000,00 era destinata alla ristrutturazione dell’abitazione della famiglia dell’ex marito, ove il medesimo viveva, così come la somma di Euro 33.000,00 era diretta all’acquisto di una mansarda, della cui proprietà era ignara.

Per altro verso, poi, la ricorrente rileva come le finalità per le quali erano stati consegnati i denari “non mutano la natura della dichiarazione (che è una ricognizione di debito)” sottoscritta da Or.En., in capo al quale, pertanto, “sussiste e grava l’obbligo di restituzione delle somme”.

Infine, la ricorrente lamenta – in particolare, con la seconda censura oggetto del presente motivo – che la dichiarazione contenuta nella scrittura dell’8 febbraio 2004 avrebbe dovuto essere interpretata “partendo dal suo contenuto letterale, chiaro e lineare”, ma poi “tenendo conto dei principi della buona fede e correttezza tra le parti ed in coerenza con la sua ratio e gli interessi che le parti avevano voluto tutelare mediante la dichiarazione stessa”, dovendo essere “indagato” – in ossequio al canone dell’interpretazione funzionale – “lo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi la relativa causa concreta”. E ciò in quanto, se “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate”, esso, però, va pur sempre “verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2097 cod. civ., 24 Cost. e 81 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per “erronea ritenuta mancanza di legittimazione” di Or.En.

Posto, infatti, che la legittimazione passiva è solo la coincidenza tra colui contro il quale la domanda è proposta e colui che nella domanda stessa è affermato quale soggetto passivo – o

“violatore” – del diritto azionato, sicché essa va valutata unicamente sulla base della “prospettazione”, differenziandosi dalla effettiva titolarità, dal lato passivo, del rapporto controverso (come chiarito da Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951), avrebbe errato la sentenza impugnata nel dichiarare il difetto di legittimazione di Or.En.

Avendo, infatti, costui sottoscritto la dichiarazione dell’8 febbraio 2004, una volta ritenuto – in via, appunto, di prospettazione – che essa valesse come ricognizione di debito verso la Mi.Lo., era nei confronti dello stesso che la pretesa creditoria andava fatta valere.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ., censurando la sentenza impugnata là dove ha ravvisato “reciproca rinuncia ai crediti da parte dei coniugi in sede di separazione personale, compreso quello oggetto del giudizio”, di cui alla dichiarazione dell’8 febbraio 2004, denunciando, altresì, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., in ragione dei “vizi di ragionamento e/o errori di diritto per errata applicazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si deve avvalere nell’interpretazione degli atti”.

Si censura la decisione della Corte genovese, là dove, lungi dal ritenere assorbito – dall’accoglimento dei primi due motivi di gravame – il terzo motivo dell’appello del già attore in opposizione (che aveva contestato la decisione del giudice di prime cure di escludere che la reciproca rinuncia ad ogni pretesa, operata dai due coniugi in sede di separazione consensuale, ricomprendesse anche il credito azionato in via monitoria dalla Mi.Lo. ed oggetto di ricognizione da parte di Or.En.), lo ha, invece, accolto. Esito motivato sul rilievo che l’accordo intervenuto in sede di separazione corroborerebbe la conclusione secondo cui l’appellante non aveva, a suo tempo, sottoscritto alcuna dichiarazione di debito; ciò perché, se esso fosse effettivamente esistito, la Mi.Lo. avrebbe dovuto far valere il corrispondente credito in sede di separazione, tanto più in ragione del fatto che essa era stata “sottoscritta tra i coniugi in forma consensuale, ove vige una libertà di accordi tra le parti”.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

Così pronunciandosi, però, la Corte territoriale, piuttosto che considerare – come sostenuto dall’allora appellante – che “la clausola liberatoria inserita in sede di separazione valga ad estinguere il debito”, ha ritenuto che il silenzio serbato nella scrittura in ordine al debito ne dimostri, piuttosto, l’inesistenza.

Si tratterebbe di ragionamento “pacificamente illogico”, in contrasto con i criteri dell’ermeneutica contrattuale, soprattutto ove si abbia riguardo al fatto che – secondo quanto si assume sostenuto da questa Corte – “non si rinviene, nel nostro ordinamento giuridico positivo, il principio che la separazione personale dei coniugi debba contenere la disciplina di ogni rapporto tra gli stessi, anche in materia patrimoniale”. Sicché, diversamente da quanto opinato dalla sentenza impugnata, “solo quello che è oggetto di indicazione nella separazione può essere oggetto di accordo”, ragion per cui il silenzio serbato nel documento, circa il credito della Mi.Lo. di cui alla scrittura dell’8 febbraio 2004, non può interpretarsi come prova della sua insussistenza.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricOr.En., Or.En., chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

5. La trattazione del ricOr.En. è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

6. La ricorrente ha presentato memoria.

7. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Il ricorrente è inammissibile, in ciascuno dei tre motivi in cui si articola.

8.1. Il primo motivo è inammissibile.

8.1.1. Invero, delle tre censure in cui esso si articola è la seconda – che lamenta un vizio nell’interpretazione della scrittura dell’8 febbraio 2004 – quella che costituisce, per così dire, il suo “fulcro”, condizionando direttamente, a ben vedere, l’esito anche della prima censura. Solo, infatti, ritenendo che la Corte territoriale abbia, a torto, escluso – in forza, appunto, di un’interpretazione erronea – la natura di ricognizione di debito di tale scrittura, appare possibile ipotizzare una “erronea distribuzione degli oneri probatori” circa la sussistenza del rapporto fondamentale (notoriamente presunto, in presenza di una ricognizione), con conseguente violazione degli artt. 1988 e 2697 cod. civ. Difatti, occorre muovere dalla premessa – forse persino pleonastica – che la ricognizione di debito, “anche quando fa riferimento alla “causa debendi”” (che è quanto assume la ricorrente essersi verificato nel caso di specie), “è atto giuridico dichiarativo, produttivo dell’effetto giuridico dell’astrazione processuale della causa solo quando non esiste contrasto sull’interpretazione di questa” (Cass. Sez. 3, sent. 15 maggio 1997, n. 4276, Rv. 504347-01).

Orbene, la critica all’interpretazione che la Corte genovese ha fornito della scrittura “de qua”, escludendone la natura di ricognizione di debito, si articola attraverso doglianze che si palesano, tutte, inammissibili.

A tale esito conduce, innanzitutto, la constatazione che la sentenza impugnata non postula affatto, quale requisito necessario della ricognizione di debito, “la presenza di una formula che abbia effetti restitutori” (e ciò in contrasto con quanto stabilito dall’art. 1988 cod. civ. e con l’interpretazione giurisprudenziale di tale norma), sicché, sotto questo aspetto, la censura della ricorrente si indirizza, inammissibilmente, verso un’affermazione non presente nella decisione della Corte territoriale. Essa, in realtà, si è limitata ad osservare che, dal “punto di vista letterale”, la scrittura – “dichiaro che Mi.Lo. Loredana ha messo Euro 55.000,00 dei suoi risparmi per il completamento delle opere edili, idrauliche ed elettrici (sic.) e di arredamento della villa sita in Boissano, Via Co.52.. Mi ha inoltre dato Euro 33.000,00 per l’acquisto di parte della mansarda di via St.” – recava “solo il riconoscimento di due fatti”, soggiungendo che nel “testo non vi è alcun riconoscimento di un obbligo in quel momento di una restituzione delle somme o in futuro o in presenza di determinate condizioni”.

La Corte ligure, in altri termini, ha ritenuto che la scrittura per cui è causa si limitasse a descrivere una situazione di fatto, senza contenere alcun riconoscimento, da parte di Or.En., di essere debitore della Mi.Lo.

Si tratta di un’interpretazione incensurabile nella presente sede di legittimità, in base ai principi in tema di ermeneutica negoziale elaborati da questa Corte, la cui applicazione è attinta – da parte dell’odierna ricorrente – da una critica generica e riferita in modo sommario e complessivo a tutte le norme in materia; e, comunque, di un’interpretazione del tutto plausibile, avuto riguardo, appunto, al tenore letterale dell’atto, a mettere in discussione la quale, non a caso, la ricorrente pretende di invocare il ricorrente ad altri canoni ermeneutici, spingendosi persino ad affermare (pag. 35 del ricorrente) che, se “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate”, esso va pur sempre “verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale”. Così argomentando, però, essa – ancora una volta in modo inammissibile – finisce per proporre un modello di sindacato sull’interpretazione di un atto negoziale unilaterale (quale è pacificamente ritenuta la ricognizione di debito; cfr., tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 22 luglio 2004, n. 13642, Rv. 575437-01), che è del tutto “eccentrico” rispetto a quello configurato da questa Corte, secondo cui “le norme in tema di interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e seguenti cod. civ., in ragione del rinvio ad esse operato dall’art. 1324 cod. civ., si applicano anche ai negozi unilaterali, nei limiti della compatibilità con la particolare natura e struttura di tali negozi, sicché, mentre non può aversi riguardo alla comune intenzione delle parti ma solo all’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, resta fermo il criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto” (Cass. Sez. 1, sent. 6 maggio 2015, n. 9127, Rv. 635358-01). Ma qui l’atto, pur complessivamente considerato, risulta, appunto, “muto” sulle ragioni dell’avvenuto riconoscimento dei fatti in esso attestati, donde l’impossibilità di fare riferimento pure al criterio dell’interpretazione complessiva per assegnarvi il significato di riconoscimento, anche solo implicito, di un debito di Or.En. verso l’odierna ricorrente.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

D’altra parte, essendosi pure precisato, sempre da parte di questa Corte, come eventuali dichiarazioni unilaterali di riconoscimento di debito “postulino, sul piano interpretativo, una ricostruzione dell'”intenzione delle parti” (rilevante sotto il profilo di cui all’art. 1362 cod. civ.) afferente, in via esclusiva, alla volontà espressa dal dichiarante, e non certamente a quella –

peraltro, del tutto ipotetica – del destinatario di quelle dichiarazioni” (Cass. Sez. 3, sent. 01 agosto 2002, n. 11433, Rv. 556500-01), non si vede come possa rilevare la circostanza, oggetto della terza censura in cui si articola il primo motivo di ricorrente.

Essa, infatti, lamenta l’omesso esame di un documento, la disamina del quale avrebbe reso edotta la Corte genovese – si assume – circa la mancata conoscenza che la Mi.Lo. aveva dell’effettiva destinazione delle somme di cui alla scrittura per cui è causa, investendo, così, una circostanza per nulla afferente alla volontà dell’autore della dichiarazione. Ciò che, a ben guardare, finisce per riconoscere – sebbene con eterogenesi dei fini – la stessa ricorrente, allorché afferma che le finalità per le quali erano stati consegnati i denari “non mutano la natura della dichiarazione”.

8.2. Il secondo motivo risulta, nuovamente, inammissibile.

8.2.1. È vero, infatti, che la sentenza impugnata fa riferimento, impropriamente, ad una “carenza di legittimazione” di Or.En.; affermazione, appunto, impropria, dal momento che – secondo la prospettazione della Mi.Lo. – costui era l’autore della ricognizione di debito, sicché nei suoi confronti andava azionata la pretesa di pagamento, visto che la “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, “consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte” (cfr., tra le molte, Cass. Sez. 1, sent. 27 marzo 2017, n. 7776, Rv. 644832-01).

Il rilievo, tuttavia, non giova all’odierna ricorrente, perché l’errore in cui è incorsa la Corte genovese – probabilmente solo sul piano terminologico, piuttosto che concettuale – non incide sulla (o meglio, non inficia la) sua conclusione, che ha carattere dirimente, circa l’impossibilità di interpretare la scrittura dell’8 febbraio 2004 come ricognizione di debito e, tanto meno, di un debito diretto del dichiarante stesso.

Trattandosi, dunque, di errore privo di concrete ricadute sul “decisum” della Corte territoriale, la censura volta a stigmatizzarlo si palesa inammissibile.

8.3. Anche il terzo motivo, infine, è inammissibile.

8.3.1. La Corte genovese, in accoglimento pure del quarto motivo d’appello dell’Orsi (non dichiarato, invece, assorbito), afferma – pag. 10 della sentenza impugnata – che “se anche la dichiarazione sottoscritta dal futuro marito nell’anno 2004 dovesse essere interpretata come un riconoscimento di debito”, quest’ultimo sarebbe stato oggetto di “espressa rinuncia sottoscritta dalla Mi.Lo.”.

Comunque si intenda tale affermazione, la sua censura risulta, in ogni caso, inammissibile.

Difatti, ove lo si intenda come un argomento “ad abundantiam”, esso, come tale, non poteva, o meglio non doveva, costituire oggetto di impugnazione, donde la sua inammissibilità (cfr. Cass. Sez. 1, ord. 10 aprile 2018, n. 8775, Rv. 648883-01; Cass. Sez. Lav., sent. 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495-01); ove lo si intenda come l’espressione di una seconda “ratio decidendi”, deve darsi seguito al principio secondo cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza (o inammissibilità) delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. Sez. 5, ord. 11 maggio 2018, n. 11493, Rv. 648023-01; in senso analogo già Cass. Sez. Un., sent. 29 marzo 2013, n. 7931, Rv. 625631-01; Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio 2012, n. 2108, Rv. 621882-01).

9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

10. A carico della ricorrente, stante la declaratoria di inammissibilità del ricOr.En., sussiste l’obbligo di versare, al competente ufficio di merito, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Ricognizione debito: dichiarazione, astrazione processuale causa

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricOr.En., condannando Mi.Lo. a rifondere, a Or.En., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.900,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricOr.En., a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 2 ottobre 2024.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2025.

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