Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 6 luglio 2015, n. 13861

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SANTACROCE Giorgio – Primo Presidente f.f.

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente Sezione

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione

Dott. DI AMATO Sergio – Consigliere

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9685/2011 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso l’appartamento (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), per deleghe in atti;

– ricorrente –

MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 549/2010 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 29/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/04/2015 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

uditi gli avvocati (OMISSIS) per delega dell’avvocato (OMISSIS), (OMISSIS) dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, inammissibilita’ del ricorso incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’attore, sottoufficiale di Marina, e’ stato sottoposto a procedimento penale nella sua qualita’ e ha sostenuto spese legali, delle quali ha chiesto il rimborso all’amministrazione. Quest’ultima, acquisito il parere dell’avvocatura erariale, gli ha rimborsato circa 13 milioni di lire su 39 milioni spesi.

Ha agito invano per il recupero integrale davanti al tribunale di Taormina prima e alla Corte di appello di Messina, che ha respinto l’appello con sentenza 29 ottobre 2010.

L’avvocatura dello Stato in entrambi i gradi di giudizio ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.

Davanti alla Suprema Corte, investita da ricorso per cassazione notificato inizialmente il 2 aprile 2011 presso l’avvocatura distrettuale e nuovamente notificato all’avvocatura generale nel termine concesso dal Collegio della Terza sezione civile, e’ stato proposto ricorso incidentale per far valere il difetto di giurisdizione del giudice adito.

La causa e’ stata quindi rimessa alle Sezioni Unite per lo scrutinio di detta questione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2) In sede di discussione orale l’avvocatura dello Stato, aderendo ai principi stabiliti da Cass. SU 5456/09, ha precisato che il ricorso incidentale, ancorche’ inerente la giurisdizione, e’ da considerare condizionato all’accoglimento del ricorso principale.

3) La Corte di appello di Messina ha premesso che il rimborso effettuato dall’amministrazione ai sensi del Decreto Legge n. 67 del 1997, articolo 18, conv. in Legge n. 135 del 1997, e’ dovuto nei limiti riconosciuti congrui dall’avvocatura dello Stato. Ha ritenuto che l’avvocatura compie una vantazione basata sulla discrezionalita’ tecnica, riferita alla tariffa penale, alla natura e alla complessita’ delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualita’ dell’opera prestata, al vantaggio recato al cliente.

Ha negato che possa assumere rilievo il parere di congruita’ espresso favorevolmente dal Consiglio dell’Ordine locale; ha affermato la necessita’ di contenimento della spesa pubblica quale criterio di contemperamento della liquidazione, posta a carico dell’erario “nei limiti del necessario”.

3.1) Il ricorso consta di quattro motivi.

Con il primo il ricorrente denuncia “violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, in relazione al R.D.L. n. 1578 del 1933, articoli 14 e 57, e al Legge n. 67 del 1997, articolo 18”.

Sostiene che i giudici di merito avrebbero dovuto applicare la normativa in tema di parere del consiglio dell’Ordine forense, unico organo cui sarebbe “demandata la competenza ad esprimere parere sulla congruita’ della nota delle spese”.

Afferma che solo il Consiglio dell’Ordine ha carattere di Ordine indipendente e di effettivo controllo dell’attivita’ del difensore rispetto ai diritti e agli interessi del proprio rappresentato; che il Decreto Legge n. 67, articolo 18, demanda all’Avvocatura il diritto di esaminare la parcella del difensore dei dipendente statale, sebbene sia l’Avvocatura stessa il difensore dello Stato, il quale peraltro beneficia della difesa del dipendente fatta dal libero professionista.

Denuncia quindi un interesse contrastante insito nella funzione dell’Avvocatura, chiamata a tutelare gli interessi dello Stato, senza avere quindi quell’indipendenza che connota il COA. Quest’ultimo esprime invece un parere “assistito da presunzione di veridicita’”.

Il secondo motivo, che lamenta la violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, in relazione alle norme di cui sopra e anche all’articolo 36 Cost., ripropone la prima censura, circa la “prevalenza” del parere COA rispetto a quello dell’avvocatura, anche sotto il profilo della conseguente violazione della norma costituzionale concernente la giusta retribuzione.

Tale principio verrebbe violato dal potere, che la Corte di appello ha riconosciuto all’avvocatura, di contenere la spesa entro il minimo

strettamente necessario.

Il terzo motivo rileva l’illegittimita’ della decisione appellata sotto il profilo della mancata considerazione dell’assenza di opposizione del cliente alla parcella dell’avvocato. Cio’, ad avviso del ricorrente, rendeva intangibile l’importo riconosciuto congruo dal COA.

Inoltre, poiche’ il primo giudice non aveva disconosciuto alcuna voce della parcella, si doveva ritenere che non avesse espresso “la valutazione di congruita’” e che il difensore non avesse materia per specifiche lamentele su detrazioni o tagli operati dal giudice di primo grado.

Infine il quarto motivo rinnova l’eccezione di incostituzionalita’ dell’articolo 18 nella parte in cui prevede il parere di congruita’ dell’avvocatura dello Stato.

4) Nessuno dei motivi e’ meritevole di accoglimento.

E’ da escludere in primo luogo la configurabilita’ della questione di costituzionalita’ in relazione alla norma sospettata.

Essa e’ manifestamente infondata in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., indicati in rubrica del motivo quali parametri di riferimento.

Il tertium comparationis dell’asserita disparita’ di trattamento non viene esplicitamente indicato in ricorso: deve credersi che il ricorrente si dolga del fatto che non sia previsto il parere di congruita’ espresso dal Consiglio dell’Ordine per la liquidazione delle parcelle che i professionisti intendono presentare ai propri clienti.

La differenza di trattamento non contrasta con il principio di eguaglianza, giacche il rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente pubblico a cagione del suo ufficio e la determinazione (nel regime allora vigente) del compenso spettante ai professionisti costituiscono due situazioni molto diverse, alle quali il legislatore puo’ ben dare risposte dissimili, prevedendo procedimenti differenziati per valutare la congruita’ del compenso.

4.1) Anche sotto il profilo dell’esercizio del diritto di difesa (articolo 24 Cost.) non e’ agevole comprendere in qual senso possa essere ritenuto incostituzionale il disposto normativo che limita il rimborso alla misura ritenuta congrua dall’avvocatura.

E’ da ricordare che prima del 1997 mancava una espressa previsione legislativa di rimborsabilita’ delle spese legali per i dipendenti statali e che sarebbe in palese contrasto con ogni regola di buona amministrazione (articolo 97 Cost., e ora articolo 81) addebitare allo Stato una spesa di importo non controllabile.

Tale spesa resterebbe soggetta alla determinazione pattizia tra il dipendente pubblico assistito e il suo difensore di fiducia, o anche alla sola verifica ordinistica, limitata alla riconducibilita’ delle voci alla preesistente tariffa e all’attivita’ svolta su mandato del cliente, senza alcun riguardo per la posizione del terzo obbligato verso quest’ultimo (lo Stato).

5) Quest’ultimo inciso introduce l’esame del primo e secondo motivo di ricorso.

La ratio del Decreto Legge n. 67 del 1997, articolo 18, convertito in Legge n. 135 del 1997 (per il quale “le spese legali relative a giudizi per responsabilita’ civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali… sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”, sempreche’ tali giudizi si siano “conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilita’” dei dipendenti medesimi) e’ comunemente ricollegata a un interesse generale, quello di tenere indenni i funzionari pubblici che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’amministrazione, sollevandoli dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento delle loro attivita’ istituzionali.

In giurisprudenza la disposizione e’ considerata espressione della regola civilistica generale di cui all’articolo 1720 c.c., comma 2, in tema di rapporti fra mandante e mandatario, secondo la quale il mandatario ha diritto ad esigere dal mandante il risarcimento dei danni subiti a causa dell’incarico, che declina e traduce, a sua volta, il principio generale dell’ordinamento di divieto di locupletatio cum aliena iactura, (cfr in questi termini le correnti massime di Cons. Stato 11.4.2007 n. 1681 e inoltre Tar Lig., n. 882/2002; v. Cass., sez. un., 13.1.2006 n. 478; Tar Lazio, Roma, sez. 1 , 12.2. 2007 n. 1130), ma anche dal divieto di arricchimento senza causa di cui all’articolo 2041 celi legislatore tuttavia, nel porre a carico dell’erario una spesa aggiuntiva, ha dovuto contemperare le esigenze economiche dei dipendenti coinvolti per ragioni di servizio in un procedimento penale e quelle di limitazione degli oneri posti a carico dell’amministrazione (cfr Cass. 9173/13). Le censure proposte dal ricorrente trascurano il rilievo che inevitabilmente assume il dovere del legislatore di tener conto delle esigenze di finanza pubblica, che impongono di non far carico all’erario di oneri eccedenti quanto e’ necessario, e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l’istituto del rimborso spese. Queste esigenze erano gia’ implicite nell’articolo 20 del decreto legge che ha introdotto l’istituto del rimborso.

5.1) La pretesa di condizionare l’entita’ del rimborso all’esclusivo vaglio del consiglio dell’Ordine degli avvocati toglierebbe qualsiasi rilevanza pubblicistica alla spesa e ai relativi doveri di governo di essa. Condurrebbe a un’equiparazione tra il debito del cliente verso il professionista e quello di protezione dei dipendente, che e’ a carico dello Stato.

Tale equiparazione e’ improponibile, giacche’ il debito del cliente risponde al soggettivo andamento da lui impresso al rapporto professionale, cioe’, esemplificando, all’impostazione difensiva prescelta; alla frequenza delle consultazioni che ha richiesto al legale; agli scritti difensivi non indispensabili, ma sollecitati e prodotti per sola cautela; alle spese vive eventualmente concordate per trasferte e partecipazione a ogni tipo di udienze.

Di oneri di tal genere, di natura casuale, in gran parte non sindacabili da parte del COA, non puo’ farsi carico l’amministrazione, sicche’ prudentemente il legislatore ha previsto che siano vagliati, sotto il profilo della congruita’, dall’avvocatura dello Stato.

La scelta di questo organo e’ in funzione del ruolo che esso svolge ai sensi del Regio Decreto n. 1611 del 1933, articolo 13, norma che assegna all’avvocatura, tra gli altri, una delicata e insostituibile funzione consultiva, chiamandola a “provvedere” “alle consultazioni legali richieste dalle Amministrazioni dello Stato”.

La posizione di autonomia che l’Avvocatura vanta rispetto alle Amministrazioni esclude ogni illazione del tipo di quelle avanzate in ricorso.

Nel momento in cui l’Avvocatura rilascia il parere di congruita’ non e’ impegnata nella “difesa dello Stato”, difesa che assumera’ in sede giurisdizionale se e quando verra’ attivato da un procedimento giurisdizionale.

Il suo parere e’ quindi scevro da “doveri” difensivi, ma legato solo all’obbligo di fornire consiglio nel rispetto della legge, somministrando un parere in una fase che e’ ancora tipicamente amministrativa.

5.2) Nel formulare il parere, l’avvocatura non puo’ avere quale riferimento esclusivo ne’, come vorrebbe il ricorso, l’interesse del dipendente a risultare sempre e in ogni caso indenne da ogni costo difensivo, ne’ quello dell’amministrazione a minimizzare la spesa, poiche’ il parere deve essere reso in termini di congruita’.

Esso e’ soggetto al vaglio del giudice per il necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione, come e’ stato gia’ chiarito da Cass. SL, n. 1418/07, puntualmente richiamata dalla sentenza della Corte di appello di Messina.

Cio’ significa ovviamente che e’ lo stesso parere a doversi ispirare a questi criteri nel valutare sia le necessita1 difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli erano state mosse ed ai presupposti, alla rilevanza e all’andamento del giudizio penale, sia la conformita’ della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale o ai compensi contemplati secondo i vigenti parametri.

La discrezionalita’ tecnica dell’avvocatura va indubbiamente intesa nel senso di dover considerare ogni elemento rilevante.

5.2.1) E’ questa l’occasione per chiarire e precisare che il riferimento, contenuto nella citata sentenza della sezione lavoro, al limite di quanto “strettamente necessario” non va inteso pedissequa mente, soprattutto dopo il venir meno del “sistema” delle tariffe forensi, nel senso cioe’ di ritenere legittima solo l’applicazione dei minimi tariffari.

L’espressione “strettamente necessario” traduce male, e rischia di tradire, il concetto di contemperamento dell’esigenza di salvaguardia della prudenza nell’erogazione della spesa pubblica e di protezione del dipendente infondatamente accusato, che e’ pero’ ben spiegata dai riferimenti, che si rinvengono gia’ nella pronuncia suddetta e nei precedenti giurisprudenziali noti, ai principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione.

6) Restano in tal modo vanificate anche le doglianze riferite, sotto profili non sempre chiaramente sviluppati, all’articolo 24 Cost., e all’articolo 36 Cost..

Il terzo motivo, che e’ ancorato all’invocazione di un peso vincolante del parere del COA, trova risposta anche nei principi teste’ enunciati: la valutazione di congruita’ dell’Avvocatura, pur potendo tener conto del parere del COA, non deve limitarsi a prenderne atto e tantomeno deve limitarsi a disconoscere “singole voci”: deve esprimersi in modo da fornire all’amministrazione gli strumenti per motivare comprensibilmente la eventuale riduzione rispetto alla pretesa di rimborso.

Va aggiunto, per completezza, che nel ricorso non v’e’ alcuna specifica censura in ordine ai profili di “congruita’” propriamente detti, ne’ contestazione concreta del riferimento al costo strettamente necessario, sicche’ la sentenza impugnata puo’ essere confermata con il rigetto del ricorso.

Resta assorbito il ricorso incidentale ed e’ dovuta la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Assorbito il ricorso incidentale.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite, liquidate in euro 3.000,00 per compenso, oltre accessori e rimborso delle spese prenotate a debito.

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