Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 12 gennaio 2015, n. 262

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Presidente
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8794-2013 proposto da:
(OMISSIS) ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SPA ((OMISSIS)), in persona dell’Amministratore Delegato e da (OMISSIS) S.P.A. ((OMISSIS)), in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, elettivamente domiciliate in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) che le rappresentato e difendono giusta mandati a margine della prima e della seconda pagina del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 332/2012 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI – SEZIONE DISTACCATA di SASSARI – del 10/10/2012, depositata il 16/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/11/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;
uditi gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) (delega avvocato (OMISSIS)) difensori della ricorrente che si riportano ai motivi.
uditi gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) (delega avvocato (OMISSIS)) difensori delle controricorrenti che si riportano ai motivi e depositano, dopo la discussione, note di udienza al cui deposito i difensori della ricorrente si oppongono.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Tempio, in parziale accoglimento della domanda proposta da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS) S.p.A. e di (OMISSIS) S.p.A. (cui medio tempore era stato ceduto il ramo di azienda comprendente tutte le attivita’ connesse al volo), accertava la nullita’ del termine apposto ai contratti stipulati dalla ricorrente con (OMISSIS) dal 2000 al 2008 e dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato sin dal primo contratto condannando dette societa’ al pagamento di sette mensilita’ globali di fatto. Escludeva la sussistenza del diritto alle retribuzioni per i periodi non lavorati e non si pronunciava sulla domanda diretta ad ottenere la ricostruzione della carriera ed il pagamento delle conseguenti differenze retributive connesse all’anzianita’ man mano maturata durante i vari rapporti a termine, dunque in costanza di questi. Avverso tale decisione proponeva appello la (OMISSIS); la Corte di appello di Cagliari – sez. distaccata di Sassari – respingeva il gravame della lavoratrice. Riteneva la Corte territoriale che non potessero essere riconosciute le maggiorazioni retributive e contributive derivanti dall’anzianita’ lavorativa per tutti i periodi dei contratti a termine effettivamente lavorati al pari di quelli non lavorati in ragione della onnicomprensivita’ dell’indennita’ della Legge n. 183 del 2010, ex articolo 32 che esclude qualunque altra possibilita’ di risarcimento o di danni risarcibili con riferimento al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del giudice che abbia ordinato la ricostituzione del rapporto.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso (OMISSIS) affidato a due motivi poi ulteriormente illustrati con memoria ex articolo 380 c.p.c..
(OMISSIS) S.p.A. e (OMISSIS) S.p.A. resistono con controricorso egualmente illustrato da memoria.
Le societa’ controricorrenti hanno depositato note di udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Collegio rileva preliminarmente che non e’ di ostacolo alla trattazione del ricorso la mancata presenza, alla odierna udienza, del rappresentante della Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’articolo 70 c.p.c., comma 2, quale risultante dalle modifiche introdotte dal Decreto Legge 21 giugno 2013, n. 69, articolo 75 convertito, con modificazioni, nella Legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero “deve intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge”. A sua volta, il Regio Decreto 10 gennaio 1941, n. 12, articolo 76 come sostituito dal citato Decreto Legge n. 69, articolo 81, al comma 1 dispone che:
“il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di cui all’articolo 376 c.p.p., comma 1, primo periodo “. L’articolo 376 c.p.c., comma 1 stabilisce che: “Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di consiglio”.
Infine, il gia’ citato Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 75 quale risultante dalla Legge di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al comma 1, la sostituzione dell’articolo 70 c.p.c., comma 2, e la modificazione dell’articolo 380-bis c.p.c., comma 2 e articolo 390 c.p.c., comma 1, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si tengono dinanzi alla sezione di cui all’articolo 376, comma 1, al comma 2 ha stabilito che: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, e cioe’ a far data dal 22 agosto 2013. Il Collegio, a tal fine, rileva che l’esplicito riferimento contenuto, sia nel Regio Decreto n. 12 del 1941, articolo 76, comma 1, lettera b), (come modificato dal Decreto Legge n. 69 del 2013, articolo 81), sia nell’articolo 75, comma 2, citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioe’ quella di cui all’articolo 376 c.p.c., comma 1), consenta di ritenere, non solo che la detta sezione e’ abilitata a tenere, oltre alle adunanze camerali, anche udienze pubbliche, ma anche che alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non e’ piu’ obbligatoria la partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facolta’ dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’articolo 70 c.p.c., comma 3, e cioe’ ove ravvisi un pubblico interesse (cfr. in tal senso Cass. 17 marzo 2014, n. 6152; Cass. 20 gennaio 2014, n. 1089; Cass. 8 aprile 2014, n. 8243).
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna e’ stato emesso in data successiva al 22 agosto 2013, sicche’ deve concludersi che l’udienza pubblica ben puo’ essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia integrale del ruolo di udienza e’ stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai sensi dell’articolo 70 c.p.c., comma 3.
E’ del tutto evidente che laddove il pubblico ministero non partecipi, come nel caso di specie, all’udienza pubblica, non vi e’ alcuno spazio per le “note di udienza” che, a norma dell’articolo 379 c.p.c., in sede di discussione davanti alla Corte di cassazione sono consentite alle parti solo per replicare alle conclusioni assunte dal P.M. in udienza.
Tali note, dunque, vanno considerate irricevibili.
2. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della Legge n. 183 del 2010, articolo 32, comma 5, della Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 13, nonche’ violazione della Legge n. 230 del 1962, articolo 5 e Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 6 della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinate del 18/3/1999 contenuto in allegato alla direttiva del Consiglio delle Comunita’ Europee 1999/70/CE relative all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP e violazione degli articoli 3 e 117 Cost., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3. Rileva la ricorrente che la decisione della Corte territoriale e’ in palese contrasto con il principio di parita’ di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. Evidenzia che l’onnicomprensivita’ dell’indennita’ di cui alla Legge n. 183 del 2010, articolo 32 come pure interpretata dalla Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 13, non puo’ che riferirsi ai soli periodi non lavorati che vanno dalla scadenza del termine alla sentenza che ricostituisce il rapporto e non anche a quelli lavorati.
3. Con il secondo motivo si deduce la violazione del Decreto Ministeriale 8 aprile 2004, n. 127, in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 4, omessa o insufficiente motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5 e violazione degli articoli 112, 132 e 279 c.p.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, ed all’articolo 161 c.p.c.. Si duole della conferma liquidazione delle competenze legali relative al giudizio di primo grado come operata dal Tribunale (complessivi euro 1.800,00 di cui euro 1.000,00 per onorari ed euro 800,00 per diritti) che aveva formato oggetto di specifico motivo di gravame ed in particolare della valutazione della controversia quale “controversia seriale”.
4. Il primo motivo e’ fondato.
La Legge n. 183 del 2010, articolo 32 ha modificato il regime della tutela del lavoratore assunto con un contratto a termine illegittimo.
Il precedente assetto era cosi’ organizzato: nel caso in cui si accertasse l’illegittimita’ del termine, il giudice doveva ordinare la riammissione in servizio del lavoratore, con conseguente diritto a percepire le retribuzioni anche qualora il datore di lavoro non consentisse la ripresa del lavoro. Questa prima fondamentale conseguenza e’ rimasta immutata. Anche dopo la Legge n. 183 del 2010 e la legge di interpretazione autentica, la sentenza che accerta l’illegittimita’ del termine converte il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato e dispone la riammissione del lavoratore in servizio. Da quel momento il lavoratore avra’ diritto a percepire le retribuzioni tanto se il datore di lavoro adempie, quanto se non adempie (in questo secondo caso a titolo di risarcimento del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di assunzione: cfr. Cass. 11 aprile 2013, n. 8851; ma v. anche Corte cost. 30 luglio 2014, n. 226).
Con riferimento, invece, al periodo che precede la sentenza, il quadro e’ parzialmente cambiato.
Nel regime previgente mancava una norma che regolasse specificamente questo profilo e la regolamentazione venne delineata in base ai principi generali del diritto civile e del lavoro. Fondamentale fu la sentenza delle Sezioni unite 5 marzo 1991, n. 2334, che risolse il contrasto tra due orientamenti: quello che riteneva che al lavoratore spettassero tutte le retribuzioni pregresse e quello che invece riteneva che il lavoratore avesse diritto alle retribuzioni pregresse solo se e a decorrere dal momento in cui avesse messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative.
E’ bene ricordare che la diversita’ dei due orientamenti concerneva il diritto alla retribuzione per gli intervalli non lavorati tra un contratto a termine e l’altro, in caso di sequenza di contratti a termine, mentre nessuna delle sentenze in conflitto negava che spettasse la retribuzione per i periodi di lavoro effettuati nella sequenza di contratti a termine.
Le Sezioni unite ritennero che il problema concernente i periodi “non lavorati”, non trovasse soluzione in una norma specifica, come invece avveniva nella materia affine ma non identica dei licenziamenti illegittimi con l’articolo 18 St. lav., e dovesse quindi essere risolto in base ai principi generali dell’ordinamento. Affermarono che il principio regolatore della materia, data la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, fosse quello della corrispettivita’ tra lavoro e retribuzione e che non potesse esservi retribuzione in assenza della prestazione lavorativa. Per questa ragione ritennero non fondato l’orientamento che riconosceva tutte le retribuzioni pregresse per i periodi non lavorati, ed invece fondato quello che le riconosceva, ma solo a condizione ed a far tempo da un eventuale atto di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore. Queste conclusioni hanno guidato la giurisprudenza dei decenni successivi.
Le Sezioni unite si espressero anche sui “periodi lavorati” e precisarono che l’unificazione del rapporto di lavoro “comporta, a prescindere dalle eventuali spettanze, nei limiti anzidetti, per gli intervalli non lavorati, un ricalcolo delle spettanze per i periodi lavorati una volta considerati inseriti nell’unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente applicazione degli istituti propri di questo quali, ad esempio, gli aumenti di anzianita’, la misura del periodo di comporto, la misura del periodo di preavviso, e determina comunque sicuri vantaggi per il lavoratore … quali l’acquisizione della corrispondente anzianita’, quanto meno per sommatoria dei periodi lavorati”.
Il quadro regolativo e’ cambiato con la Legge n. 183 del 2010, ma come si vedra’, il cambiamento riguarda solo i periodi non lavorati.
L’articolo 32, comma 5, cosi’ si esprime: “nei casi di conversione del contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore, stabilendo un’indennita’ onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella Legge 15 luglio 1966, n. 604, articolo 8”.
L’articolo 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, ha sancito che detta norma “si interpreta nel senso che l’indennita’ ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostruzione del rapporto di lavoro”.
Dalla norma si desume che l’indennita’ e’ volta al “risarcimento” del lavoratore. Quindi concerne un danno subito dal lavoratore e cioe’ il danno derivante dalla perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un danno da mancato lavoro.
La norma di interpretazione autentica afferma che l’indennita’ “ristora un pregiudizio” ribadendo, ancor piu’ esplicitamente, che e’ correlata ad un danno, un pregiudizio, derivante dalla perdita del lavoro e che essa onnicomprensiva perche’ ristora per intero le “conseguenze” retributive e contributive di quel danno da mancato lavoro. Quindi tutti i danni sul piano retributivo e contributivo che sono conseguenza, cioe’ sono legati da un nesso di causalita’ con la perdita del lavoro.
Se l’indennita’ serve a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato lavoro e’ evidente che il legislatore considera solo i periodi di non lavoro ai fini di tale risarcimento. Ed infatti esclude dal computo il periodo sino alla scadenza del termine, che e’ periodo di lavoro, in cui il lavoratore e’ stato retribuito e quindi non ha subito, ne’ puo’ subire conseguenze negative sul piano retributivo o contributivo. In tale periodo la retribuzione e’ dovuta e detto periodo si computa ai fini degli effetti riflessi e dell’anzianita’ di servizio. L’anzianita’ di servizio maturata in questo periodo lavorato, vale a tutti gli effetti. Rileva persino per la quantificazione della indennita’ volta a risarcire il danno derivante dalla perdita del lavoro, perche’ e’ uno dei criteri indicati dalla Legge n. 604 del 1966, articolo 8 richiamati dalla Legge n. 183 del 2010, articolo 32, comma 5.
Il problema oggetto della presente controversia deriva dal fatto che il datore di lavoro ha stipulato con il lavoratore non un unico contratto a termine, ma una serie di contratti a termine. Il legislatore non ha espressamente considerato questo caso, ma l’interpretazione logico-sistematica della norma impone di ritenere che, se e’ estraneo al risarcimento il periodo del primo contratto a termine, lo saranno anche i periodi lavorati in successivi contratti a tempo determinato.
Sarebbe assurdo affermare che per questi periodi la retribuzione non spetti e sia assorbita nella indennita’, ma e’ parimenti contrario alla logica della norma ritenere che questi periodi di lavoro e’ come se non fossero stati effettuati e non rilevino ai fini dell’anzianita’ di servizio e delle sue implicazioni economiche. Questi periodi non possono non avere lo stesso trattamento giuridico del periodo di lavoro per il primo contratto a termine in quanto, al pari del primo, sono estranei al danno determinato dal non lavoro, quindi estranei alla indennita’ prevista dal legislatore per risarcire le conseguenze retributive e contributive di quel pregiudizio. Il risarcimento riguardera’ solo i periodi di “non lavoro”. Solo per questi periodi vi e’ un danno da risarcire e un pregiudizio da ristorare.
Pertanto l’indennita’ prevista dall’articolo 32, risarcisce il danno subito per il mancato lavoro e lo risarcisce in tutte le sue conseguenze retributive e contributive, in tal senso e’ onnicomprensiva. Mentre non riguarda il periodo (in caso di un unico contratto a termine) o i periodi di lavoro (in caso di piu’ contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi e’ niente da risarcire ed il risarcimento mediante indennizzo non puo’, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettivita’ con la prestazione lavorativa effettuata.
Questa ricostruzione e’ in continuita’ con quanto affermato nelle prime sentenze sull’articolo 32, come interpretato dalla Legge n. 92 del 2012.
In particolare, Cass. n. 15265 del 12 settembre 2012, nell’enucleare il principio di diritto parla di “indennita’ forfetizzata ed onnicomprensiva per i danni causati dalla nullita’ del termine nel periodo considerato intermedio”. Forfetizzazione dei danni determinatisi “nel” periodo intermedio, significa che l’indennizzo non incide sui diritti maturati in quel periodo nella parte del rapporto che non ha determinato danni: non tocca le retribuzioni per i periodi lavorati e gli effetti riflessi di tali retribuzioni, ne’ tocca l’anzianita’ lavorativa maturata in tale o in tali periodi.
La medesima pronuncia afferma: “legittimamente la sentenza impugnata ha considerato nell’anzianita’ lavorativa e retributiva tutti i periodi effettivamente lavorati, da sommarsi a quelli successivi alla formale assunzione a tempo indeterminato, in ragione del principio ripetutamente affermato da questa Corte (Cass., sez. un., 5 marzo 1991, n. 2334 e succ.)”. L’affermazione e’ netta ed e’ esplicito il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite che, come si e’ visto, affermo’ che nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di piu’ contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimita’ dell’apposizione del termine, gli “intervalli non lavorati” fra l’uno e l’altro rapporto, in difetto di un obbligo del lavoratore di continuare ad effettuare la propria prestazione o di tenersi disponibile ad effettuarla, non implicano il diritto alla retribuzione … e nemmeno sono computabili come periodi di servizio”, mentre i “periodi lavorati” danno diritto alla retribuzione e sono rilevanti ai fini della maturazione degli scatti di anzianita’. Quest’ultimo profilo dell’assetto dato dalle Sezioni unite del 91 alla materia – sottolinea la sentenza del 2012 – va oggi pienamente riaffermato non essendo stato scalfito minimamente dallo ius superveniens costituito dalla Legge n. 183 del 2010.
Le piu’ recenti Cass. 16 giugno 2014, n. 13630 e Cass. 17 giugno 2014, n. 13732 hanno fissato il seguente principio di diritto: “La Legge n. 183 del 2010, articolo 32, comma 5, commisura l’indennita’, dovuta nei casi di conversione, all’ultima retribuzione globale di fatto, cosi’ riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal proprio posto di lavoro nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito. L’espressione onnicomprensiva, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennita’, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato”.
In questo principio di diritto e’ detto chiaramente che l’indennizzo onnicomprensivo copre soltanto il danno derivante dall’allontanamento dal lavoro e quindi il danno subito per il “non lavoro” nel periodo o nei periodi “non lavorati”. Il che ancora una volta conferma che i diritti per i periodi in cui si e’ prestato lavoro non vanno ricompresi nell’indennita’ risarcitoria perche’ non sono stati danneggiati, sono fuori dal perimetro del danno e quindi del risarcimento.
Quanto alle conseguenze giuridiche di tale assetto sull’anzianita’, la Corte in queste ultime sentenze aggiunge, e non potrebbe essere piu’ chiara, che: “L’espressione onnicomprensiva, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennita’, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo determinato”.
In conclusione, nonostante i problemi lessicali derivanti dal fatto che probabilmente il legislatore ha configurato l’indennita’ avendo presente il caso, statisticamente piu’ frequente, della stipulazione di un unico contratto a termine, deve affermarsi che l’indennita’ prevista dalla Legge n. 183 del 2010, articolo 32 ristora in generale il danno subito dal lavoratore per l’allontanamento dal lavoro, tanto se questo sia stato unico, quanto se sia stato ripetuto. Per tali periodi di non lavoro, mentre prima il lavoratore aveva diritto ad essere comunque retribuito a decorrere dalla messa a disposizione delle energie lavorative pur non avendo lavorato, oggi e’ prevista solo l’indennita’ da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilita’.
Al contrario, per il periodo di lavoro (o i periodi di lavoro, in caso di sequenza di contratti) il lavoratore ha diritto ad essere retribuito ed ha diritto a che tale periodo o tali periodi siano computati ai fini della anzianita’ di servizio e, quindi, della maturazione degli scatti di anzianita’.
Questa interpretazione della Legge n. 183 del 2010, articolo 32, comma 5 e’ la piu’ coerente sul piano logico sistematico. Si coordina con i tratti del sistema delineato dalle Sezioni unite che, come si e’ visto e come hanno sottolineato le decisioni del 2012, sotto questo profilo rimangono fermi, ed e’ in continuita’ con i primi interventi di questa Corte successivi alla modifica legislativa. E coerente con i principi espressi dalla Legge n. 230 del 1962, articolo 5 e dal Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 6 nonche’ con i principi costituzionali e del diritto dell’Unione Europea: in particolare con il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, anche e specificamente in ordine all’anzianita’ di servizio, affermato con la Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.
La Corte territoriale non si e’ attenuta agli indicati principi.
5. Il secondo motivo non e’ fondato.
La parte che censuri la sentenza di primo grado, lamentando una liquidazione inferiore al dovuto ed al di sotto dei minimi in relazione alla natura e valore della causa ha l’onere di fornire al giudice di appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso spettante al professionista, indicando, in maniera specifica ed analitica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado (solo in presenza della quale il giudice non puo’ limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata). In mancanza delle suddette indicazioni – cui la parte non puo’ ovviare ex post con la riproduzione in sede di ricorso per cassazione della nota spese) e’ da presumere che la liquidazione sia avvenuta con riferimento a quel che risulta dagli atti, quanto alla corrispondenza fra l’attivita’ svolta dal difensore e la somma spettante a titolo di spese, diritti ed onorari (cfr. Cass. 9 luglio 2009, n. 16149; si vedano anche Cass. 27 marzo 2013, n. 7654; Cass. 4 luglio 2011, n. 14542; Cass. 9 luglio 2009, n. 16149; Cass. 19 giugno 2009, n. 14455).
Nella specie, dal motivo di appello, come risultante dal ricorso per cassazione (pag. 23), si evince che il ricorrente si era lamentato della “incongruita’” della liquidazione delle spese opponendo un preteso importo complessivo di diritti ed onorari redatto con la considerazione dei valori “medi” dello scaglione di riferimento (indicato in quello di valore compreso tra euro 51.700,00 ed euro 103.300,00). Non risulta, pero’, che l’appellante avesse precisato nel ricorso al giudice del gravame le voci singolarmente determinanti il suddetto importo complessivo ne’ invero risulta se e quando la relativa nota spese fosse stata sottoposta al giudice di primo grado. Neppure, invero, era stata espressamente dedotta, in sede di appello, una liquidazione degli onorari in misura inferiore ai minimi delle tariffe professionali cosi’ come innanzi al giudice di appello non era stata specificamente censurata la determinazione quantitativa dei diritti e degli onorari con riferimento a tutti i parametri tariffati rilevanti. Il devolutum, dunque, era stato circoscritto alla sola “incongruita’” della liquidazione (tanto dei diritti quanto degli onorari) senza che il giudice di appello fosse messo in condizione di rilevare l’eventuale specifico errore. Anche in questa sede di legittimita’ (ove per la prima volta la ricorrente si duole di una liquidazione al di sotto dei minimi di cui alla tariffe professionali ratione temporis vigenti) e’ mancato ogni elemento per valutare l’espletamento di determinate attivita’ difensive svolte a favore della parte, nonche’ per l’individuazione dell’esatto scaglione tariffario di riferimento in ragione del valore complessivo della lite sulla base del contenuto effettivo della decisione (criterio del “decisum”). Tali considerazioni, unitamente al rilievo che la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non puo’ formare oggetto di sindacato in sede di legittimita’, se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate (cfr. in tal senso Cass. 23 maggio 2002, n. 7527; Cass. 22 giugno 2004, n. 11583; Cass. 11 gennaio 2006, n. 270), precludono a questa Corte una positiva delibazione della doglianza.
4. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso e rigettato il secondo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimita’, alla Corte di appello di Cagliari che decidera’ la causa attenendosi al seguente principio di diritto: “Nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di piu’ contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimita’ dell’apposizione del termine, l’indennita’ risarcitoria, dovuta ai sensi della Legge 4 novembre 2010, n. 183, articolo 32, comma 5, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprendendo tutti i danni – retributivi e contributivi – causati dalla perdita del lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine, con riferimento agli “intervalli non lavorati” fra l’uno e l’altro rapporto a termine; al contrario, i “periodi lavorati”, non solo nel primo, ma anche nei successivi contratti del periodo intermedio, una volta inseriti nell’unico rapporto a tempo indeterminato, fanno parte della anzianita’ lavorativa e retributiva e devono essere considerati ai fini della quantificazione degli aumenti periodici di anzianita’”.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimita’, alla Corte di appello di Cagliari.

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