Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 8 gennaio 2015, n. 262

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. GRILLO Renato – Consigliere
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ASTI;
nei confronti di:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2037/2013 GIP TRIBUNALE di ASTI, del 28/10/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;
lette le conclusioni del PG Dott. SELVAGGI Eugenio annullamento con rinvio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe indicata il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Asti, disattendendo la richiesta di decreto penale di condanna formulata ex articolo 459 c.p.p. dal Pubblico Ministero, ha assolto l’imputato, ai sensi dell’articolo 129 cpp, dal reato di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1 perche’ il fatto non sussiste. Al predetto era stato contestato di avere, in assenza dell’iscrizione nell’albo dei gestori ambientali, effettuato attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi (per lo piu’ rottami ferrosi).
Ha osservato il giudicante che la condotta debba essere riferita all’esercizio di un mestiere in forma ambulante e non in forma professionale nell’accezione che deriva dai principi generali esplicitati nel Decreto Legislativo n. 152 del 2006, sicche’ deve trovare applicazione la norma di cui all’articolo 266 comma 5 con esclusione quindi della possibilita’ di ritenere integrato il reato contestato.
Ha rilevato inoltre il GIP piemontese che il riferimento, contenuto nell’articolo 266, comma 5, cit. Decreto Legislativo, ai “soggetti abilitati” allo svolgimento dell’attivita’ di raccolta e trasporto in forma ambulante sarebbe frutto di una svista del legislatore o del mancato coordinamento tra norme, non essendosi tenuto conto dell’abrogazione della norma istitutiva del registro degli esercenti mestieri girovaghi, cui conseguirebbe l’inevitabile liberalizzazione dell’attivita’ medesima, non potendosi peraltro ritenere ragionevole un’interpretazione che subordini l’operativita’ della deroga di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, al possesso dei requisiti soggettivi richiesti dalla disciplina del commercio introdotta con il Decreto Legislativo n. 114 del 1998, trattandosi di disposizioni il cui ambito di operativita’ e’ del tutto diverso da quello delineato per il Decreto Legislativo n. 152 del 2006.
2. Il Pubblico Ministero ricorre per cassazione deducendo la violazione di legge. Rileva in particolare che il G.I.P. ha fondato la propria decisione sull’assenza di “professionalita’” rilevante ai sensi del Decreto Legislativo n. 152 del 2006 nella condotta oggetto di contestazione e sulla circostanza che, a seguito dell’abrogazione della norma istitutiva del registro degli esercenti dei mestieri girovaghi ai sensi dell’articolo 121 TULPS, l’attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante deve ritenersi liberalizzata in quanto non soggetta a specifici provvedimenti autorizzativi.
Cio’ posto, osserva che la decisione impugnata si porrebbe in contrasto con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, secondo cui il reato contemplato dall’articolo 256 cit. Decreto Legislativo ha natura di reato comune ed istantaneo e che in ogni caso, pur non aderendo a tale tesi interpretativa, considerando quindi il reato in questione come reato proprio, la questione non muterebbe, in quanto la condotta posta in essere dall’imputato, per le sue caratteristiche oggettive, sarebbe in ogni caso caratterizzata dalla necessaria “professionalita’” o “imprenditorialita’”, risultando dagli atti di causa che, in occasione dell’attivita’ di osservazione da parte della polizia giudiziaria, protrattasi per alcuni mesi, era emerso che questi aveva conferito i rifiuti raccolti ad un centro di recupero con idoneo mezzo di trasporto utilizzando la cd. “ricevuta privata”, la quale attesta che i rifiuti sono prodotti dal soggetto conferente, pur non essendo egli titolare di un’impresa dall’esercizio della quale derivano rifiuti.
Aggiunge che, in ogni caso, se il giudice avesse nutrito dubbi in proposito avrebbe dovuto, al piu’, rigettare la richiesta di decreto penale e non anche pronunciare una sentenza assolutoria.
Per cio’ che concerne, inoltre, la lettura dell’articolo 266, comma 5, cit. Decreto Legislativo offerta dall’impugnata sentenza, premessa l’analisi della normativa di settore e richiamate le precedenti pronunce di questa Corte in materia, rileva che la parziale abrogazione dell’articolo 121 TULPS non avrebbe di fatto liberalizzato, come ritenuto dal giudice, l’esercizio dell’attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante, essendo stata, al contrario, ripristinata la norma generale che impone l’obbligo di iscrizione all’Albo dei gestori ambientali ai sensi del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 212. Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
3. Il Procuratore Generale ha concluso per l’annullamento con rinvio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ fondato. Il Pubblico Ministero ricorrente sottopone a questa Corte, sostanzialmente, due questioni: l’una concernente la natura del reato di cui all’articolo 256 cit. Decreto Legislativo e l’altra l’ambito di operativita’ della deroga prevista dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, per le attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante, ritenute entrambe rilevanti per confutare le argomentazioni poste a sostegno del provvedimento impugnato. Il G.I.P. assume, infatti, che l’iscrizione richiesta Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 212 riguarda esclusivamente l’attivita’ di gestione di rifiuti svolta in forma imprenditoriale, cosicche’ la sua mancanza assumerebbe rilievo penale solo in tale ipotesi, restando quindi estranea la condotta di coloro che, come l’imputato, agiscono su piccola scala, raccogliendo modeste quantita’ di rifiuti abbandonate o consegnate dai privati. Osserva, inoltre, che il riferimento, contenuto nel Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, ai “soggetti abilitati” allo svolgimento dell’attivita’ di raccolta e trasporto in forma ambulante sarebbe frutto di una svista del legislatore o del mancato coordinamento tra norme, non essendosi tenuto conto dell’abrogazione della norma istitutiva del registro degli esercenti mestieri girovaghi, cui conseguirebbe l’inevitabile liberalizzazione dell’attivita’ medesima, non potendosi peraltro ritenere ragionevole un’interpretazione che subordini l’operativita’ della deroga di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5 al possesso dei requisiti soggettivi richiesti dalla disciplina del commercio introdotta con il Decreto Legislativo n. 114 del 1998, trattandosi di disposizioni il cui ambito di operativita’ e’ del tutto diverso da quello delineato per il Decreto Legislativo n. 152 del 2006.
2. Date tali premesse, occorre prendere in considerazione la prima delle questioni sollevate, concernente il corretto inquadramento della fattispecie astratta contemplata dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1 il quale, dopo le modifiche apportate dal Decreto Legislativo 4 marzo 2014, n. 46, cosi’ recita “Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attivita’ di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 e’ punito: a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi; b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”.
Come rilevato dal Pubblico Ministero ricorrente, la giurisprudenza di questa Corte ha piu’ volte ribadito la natura di reato comune della disposizione appena richiamata, ma tale soluzione interpretativa e’ stata ripetutamente criticata dalla dottrina, con argomentazioni che non possono essere ignorate.
3. Procedendo, pertanto, ad una sommaria analisi dei precedenti giurisprudenziali, risulta che questa Corte, gia’ sotto la vigenza dell’ormai abrogato Decreto Legislativo 22 del 1997, prendendo in esame l’articolo 51 (il cui contenuto era sostanzialmente identico a quello dell’articolo 256), aveva affermato la natura di reato comune della disposizione in esame, ponendo in evidenza la utilizzazione, da parte del legislatore, dell’espressione “chiunque” e la soppressione, ad opera del Decreto Legislativo 8 novembre 1997, n. 389, articolo 7, comma 6, in relazione all’appartenenza dei rifiuti, dell’inciso “prodotti da terzi” originariamente contenuto nella disposizione in questione. Affermando, inoltre, la funzione meramente esplicativa dei comportamenti cui vanno riferite le espressioni adoperate nel corpo della legge nell’elenco delle definizioni contenuto nel Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 6 si sosteneva che il reato fosse ascrivibile anche a colui che eserciti attivita’ di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all’esercizio di un’attivita’ primaria diversa (Sez. 3 n. 21925, 6 giugno 2002). Le imputazioni contestate al ricorrente riguardavano, tuttavia, l’articolo 51, comma 2 e u.c. e argomentazioni sviluppate in motivazione si riferiscono all’articolo nel suo complesso, mentre la massima (RV 221959) menziona il “reato di attivita’ di gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione, previsto dal Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, articolo 51”. L’affermazione veniva successivamente ribadita, sempre con un generico riferimento all’articolo 51, sostenendosi, attraverso un espresso richiamo alla sentenza 21925/2002, che “il reato di cui all’articolo 51 non ha natura di reato proprio la cui commissione sia possibile solo da soggetti esercenti professionalmente una attivita’ di gestione di rifiuti, ma costituisce una ipotesi di reato comune che puo’ essere commesso anche da chi esercita attivita’ di gestione di rifiuti in modo secondario o consequenziale all’esercizio di un’attivita’ primaria diversa” (Sez. 3 n. 16698, 8 aprile 2004). La fattispecie sottoposta all’esame della Corte in quell’occasione riguardava esclusivamente un’ipotesi di abbandono di rifiuti, come chiaramente indicato in motivazione anche con richiamo al Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 14 concretatasi nell’immissione in acque superficiali di residui derivanti dall’attivita’ di pulizia degli argini di un torrente che, lasciati sul posto, avevano ostacolato la circolazione dell’acqua, concorrendo a causare una moria di pesci. Anche in questo caso la massima della sentenza appena ricordata (RV 227956) contiene un riferimento al “reato di attivita’ di gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione, previsto dal Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, articolo 51”.
Sempre riguardo alla disciplina previgente, una successiva pronuncia (Sez. 3 n. 2950, 31 gennaio 2005) e’ stata cosi’ massimata: “in tema di rifiuti, il concetto di gestione del rifiuto, di cui al Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, articolo 51 non va inteso in senso imprenditoriale, ovvero come esercizio professionale dell’attivita’ tipicizzata, ma in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare una attivita’ di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione del rifiuto” (RV 230675). La massima, tuttavia, risulta fuorviante, perche’, esaminando la motivazione, emerge chiaramente che l’affermazione della Corte riguarda il reato di discarica abusiva, essendosi testualmente affermato “… si ha discarica abusiva tutte le volte in cui materiali destinati ad essere abbandonati vengano accumulati senza autorizzazione in un’area determinata, cosi’ trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti e che il concetto di “gestione” evocato nella norma stessa non deve essere inteso in senso imprenditoriale, ovvero come esercizio professionale dell’attivita’ tipicizzata, bensi’ in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare la condizione determinata dall’accumulo o dall’irregolare smaltimento dei rifiuti ed il degrado ambientale che vi si connette”. Con espresso riferimento, invece, ad un’ipotesi di illecita gestione, veniva riconosciuta la natura di reato comune della condotta contemplata dal Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 51, comma 1, lettera a) osservandosi, pure considerando l’analoga disposizione contenuta nel Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256 nel frattempo entrato in vigore, che la stessa puo’ essere posta in essere anche da persona che non esercita l’attivita’ di gestione o di trasporto di rifiuti (Sez. 3 n. 7462, 19 febbraio 2008).
L’affermazione del principio avveniva, peraltro, del tutto incidentalmente e senza ulteriori precisazioni, dal momento che la Corte, avendo rilevato la prescrizione del reato, aveva la necessita’ di giustificare esclusivamente l’assenza delle condizioni necessarie per un proscioglimento pieno nel merito.
In altre occasioni, la natura di reato comune della violazione in esame veniva riconosciuta solo attraverso il richiamo alla sentenza 21925/2002 (Sez. 3 n. 9544, 2 marzo 2004; Sez. 3 n. 11879, 12 marzo 2004, non massimata). Il principio veniva ribadito, vigente il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, in successive pronunce, concernenti:
– il trasporto e lo smaltimento in assenza di titolo abilitativo (Sez. 3 n. 24731, 22 giugno 2007, non massimata), ritenendosi non rilevante, ai fini della configurazione del reato, “la mancata iscrizione dell’indagato all’albo delle imprese” e rilevandosi che, avuto riguardo al tenore letterale dell’articolo 256 e, segnatamente, all’utilizzazione del termine “chiunque”, i destinatari del precetto non sono soltanto “i soggetti che svolgono professionalmente attivita’ di trasporto di rifiuti”;
– il trasporto non autorizzato (Sez. 3 n. 24431, 17 giugno 2011, con mero richiamo alla sentenza n. 2950/2005 cit. e ad altra non reperibile perche’ indicata con estremi verosimilmente errati, riferibili ad altro provvedimento non pertinente; Sez. 3 n. 23971, 15 giugno 2011, non massimata sul punto, ove la natura di reato proprio e’ esclusa per il fatto che non deve necessariamente essere integrato da soggetti esercenti professionalmente l’attivita’ di gestione rifiuti, dal momento che la norma fa riferimento a “chiunque”); – l’abbandono di rifiuti, incidentalmente richiamando la prima parte dell’articolo 256 (Sez. 3 n. 11490, 22 marzo 2011; Sez. 3 n. 41477, 24 ottobre 2012); Da ultimo, con mero richiamo ai precedenti (Sez. 3 n. 19452, 12 maggio 2014, non massimata; Sez. 3 n. 10921, 8 marzo 2013, non massimata) anche riferiti alla disciplina emergenziale di cui alla legge 210/2008 (Sez. 3 n. 42338, 15 ottobre 2013, non massimata sul punto; Sez. 3 n. 29077, 9 luglio 2013; Sez. 3 n. 6294, 8 febbraio 2013, non massimata), si e’ giunti ad analoghe conclusioni. In un caso (Sez. 3 n. 35710, 31 agosto 2004), nell’operare un confronto tra le ipotesi di abbandono ed illecita gestione allora contemplate dal Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 51 si e’ testualmente affermato che “il deposito o l’abbandono incontrollato di rifiuti, ove posti in essere da titolari d’imprese e responsabili di enti, integrano la contravvenzione di cui all’articolo 51, comma 2 in rel. Decreto Legislativo n. 22 del 1997, indipendentemente dalla circostanza che i materiali provengano dalla circostanza dell’esercizio di attivita’ di raccolta, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti, da parte dei soggetti attivi. L’esercizio di dette attivita’ connota in termini di “reato proprio” solo le ipotesi contravvenzionali, di esercizio abusivo di attivita’, previste nel comma 1 dell’articolo citato, mentre i soggetti attivi delle distinte ipotesi configurate nel comma 2 sono tutti, indistintamente, i titolari di impresa o responsabili di enti, che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti, non solo di propria produzione (come previsto nell’originaria formulazione della disposizione), ma anche di diversa provenienza. Il collegamento tra le fattispecie previste dai due diversi commi riguarda il solo trattamento sanzionatorio, e non anche la parte precettiva, che solo nel primo e’ indirizzata agli esercenti (abusivi) di specifiche attivita’; l’inclusione, d’altra parte, tra i soggetti attivi della contravvenzione di cui al comma 2, dei responsabili di enti, evidenzia anche l’implausibilita’ della tesi proposta, non essendo ipotizzabili da parte degli stessi attivita’ imprenditoriali correlate alla raccolta, smaltimento di rifiuti et similia”. 7. A fronte delle pronunce dianzi ricordate, la dottrina, come si e’ detto, quando non si e’ limitata a prendere atto delle conclusioni cui esse sono pervenute, ha criticato la qualificazione della disposizione in esame quale reato comune, osservando che, punendo l’articolo 256, comma 1, chi effettua attivita’ di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, l’individuazione dei soggetti responsabili andrebbe effettuata alla luce di tali ultime disposizioni, le quali stabiliscono in concreto quali siano i soggetti che devono dotarsi di uno dei titoli abilitativi prima di intraprendere un’attivita’ nel campo della gestione dei rifiuti, con la conseguenza che il pronome “chiunque” non si riferisce affatto ad un indefinito soggetto, come sostenuto dalla giurisprudenza, bensi’ soltanto a chi sia individuato dalla legge quale destinatario dell’obbligo di sottoporsi al controllo della P.A..
In altri casi, si e’ osservato come la circostanza che l’effettuare una delle menzionate attivita’ renda destinatari dell’obbligo giuridico di chiedere l’autorizzazione non muti la natura del reato in esame che resta comune e non proprio; mentre altra dottrina osserva che l’utilizzazione dell’espressione “chiunque” implica che il reato non deve essere necessariamente integrato da soggetti esercenti professionalmente l’attivita’ di gestione dei rifiuti. Analoghe valutazioni sono state effettuate anche in relazione alla disciplina emergenziale di cui alla Legge n. 210 del 2008. 8. In considerazione di quanto sopra esposto, e’ dunque necessario definire in modo piu’ netto l’ambito di operativita’ dell’articolo 256, comma 1, chiarendo meglio il senso dei principi in precedenza affermati (in relazione, e’ il caso di ricordarlo, alla peculiarita’ dei casi esaminati).
E’ essenziale chiarire, in primo luogo, che l’uso del termine “chiunque” non puo’ ritenersi sufficiente per affermare che il precetto sia rivolto, indifferentemente, a tutti i soggetti che svolgono le attivita’ indicate in assenza di titolo abilitativo, poiche’ il testuale richiamo alla “mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216” presuppone necessariamente, ai fini della configurabilita’ del reato, come e’ stato correttamente osservato, che la condotta posta in essere sia tra quelle astrattamente assentibili ai sensi delle disposizioni richiamate. Si e’ anche rilevato, in dottrina e nel ricorso proposto, che dette disposizioni si riferiscono inequivocabilmente ad una attivita’ imprenditoriale, come emerge dal loro contenuto testuale, in considerazione dei reiterati riferimenti alle “imprese” (si menzionano, a tale proposito, l’articolo 208, comma 17-bis; articolo 209, commi 1 e 2; articolo 212, commi 7, 8, 9 e 11; articolo 214, comma 9; articolo 215, comma 3 e articolo 216, comma 3).
Anche tale attivita’ deve dunque essere individuata e cio’ puo’ avvenire semplicemente ricordando quanto gia’ affermato in una precedente decisione di questa Corte (Sez. 3 n. 38364, 18 settembre 2013, richiamata anche in ricorso) relativamente alla individuazione della nozione di “titolari di imprese ed ai responsabili di enti” cui fa riferimento Decreto Legislativo n. 152 del 2006, l’articolo 256, comma 2 quale qualifica soggettiva rilevante per la valutazione in sede penale della condotta di abbandono di rifiuti.
In tale occasione si e’ infatti affermato il principio secondo il quale il reato di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 2 e’ configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell’ambito di una attivita’ economica esercitata anche di fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o dell’attivita’ medesima, cosi’ dovendosi intendere il “titolare di impresa o responsabile di ente” menzionato dalla norma. Si e’ anche chiarito che quanto puntualizzato teneva conto di precedenti arresti giurisprudenziali, nei quali la individuazione dei soggetti qualificati indicati dall’articolo 256, comma 2 non andava effettuata con esclusivo riferimento a coloro che svolgono attivita’ tipiche di gestione di rifiuti (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti), essendo la norma
rivolta ad ogni impresa, avente le caratteristiche di cui all’articolo 2082 c.c. o ente, con personalita’ giuridica o operante di fatto. Tale affermazione traeva origine dal confronto tra il testo originario del Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 51 allora vigente, e quello antecedente alla modifica introdotta dalla Legge n. 426 del 1998, osservando che laddove erano originariamente indicate imprese ed enti “che effettuano attivita’ di gestione dei rifiuti”, dopo l’intervento del legislatore tale espressione era stata soppressa, cosi’ ampliando l’ambito di operativita’ della norma (Sez. 3 n. 9544/2004, cit. Principio ribadito, anche con riferimento alla disciplina ora vigente da Sez. 3 n. 22035, 10 giugno 2010).
Si ricordava anche come, nelle precedenti pronunce, si fosse escluso che, nella individuazione del titolare d’impresa o del responsabile dell’ente, debba farsi riferimento alla formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta (Sez. 3 n. 19207, 13 maggio 2008. V. anche Sez. 3 n. 35945, 7 ottobre 2010; Sez. 3 n. 24466, 21 giugno 2007, entrambe non massimate) tanto che, in due occasioni, il reato era stato ritenuto configurabile anche con riferimento ad attivita’ di tiro al piattello esercitata da associazione sportiva (v. Sez. 3 n. 4733, 30 gennaio 2008). Tali osservazioni, come si e’ detto, possono essere utilizzate anche con riferimento alla ipotesi contravvenzionale disciplinata dall’articolo 256 comma 1, che dunque sanziona ogni attivita’ – da intendersi come condotta che non sia caratterizzata da assoluta occasionante (cfr. Sez. 3 n. 5031, 9 febbraio 2012, non massimata), cosi’ distinguendosi da quella di cui al medesimo articolo 256, comma 2 che si caratterizza, invece, anche per la rilevanza della mera episodicita’ – svolta pure di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attivita’ primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati.
4. Cosi’ delineato l’ambito di operativita’ del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1, deve rilevarsi che detta disposizione e’ astrattamente applicabile anche con riferimento alle ipotesi di raccolta e il trasporto di rifiuti in forma ambulante nei casi in cui non operi la deroga
di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, della quale si dira’ appresso. Invero, diversamente da quanto ipotizzato nel provvedimento impugnato, una siffatta attivita’ che presuppone una organizzazione minima, anche rudimentale, la predisposizione di un apposito mezzo di trasporto e dalla quale deriva un ricavo economico, rientra pienamente nel concetto di impresa sopra individuato, a nulla rilevando la minore o maggiore entita’ del volume di affari, al quale il giudice del merito sembra attribuire rilievo laddove richiama l’agire su piccola scala, raccogliendo modeste quantita’ di rifiuti abbandonati o consegnate dai privati.
5. Venendo alla seconda questione da trattare, concernente l’ambito di operativita’ della deroga prevista dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5 – il quale stabilisce che “le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 non si applicano alle attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attivita’ medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio” – va preliminarmente rilevato che la stessa e’ stata ripetutamente esaminata dalla giurisprudenza di questa Corte, da ultimo con una decisione (Sez. 3 n. 16111, 3 maggio 2013, non massimata) che pare opportuno riproporre nei suoi contenuti essenziali, anche per i richiami alle precedenti pronunce in materia.
Nella sentenza si ricordava che il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, sostanzialmente riproducente il contenuto dell’articolo 58, comma 1-quater dell’abrogato Decreto Legislativo n. 22 del 1997, e’ stato interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che l’attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata da soggetti abilitati allo svolgimento dell’attivita’ in forma ambulante, non prevede l’iscrizione all’albo dei gestori dei rifiuti, con conseguente esclusione della configurabilita’ del reato di illecito trasporto sul presupposto che essa faccia riferimento a titoli abilitativi disciplinati da altre leggi statali, in quanto la normativa generale sui rifiuti non prevede specifici istituti di abilitazione all’attivita’ di raccolta e trasporto in forma ambulante (Sez. 3 n. 1287, 13 settembre 2005; v. anche Sez. 2 n. 28366, 8 agosto 2006; Sez. 3 n. 20249, 14 maggio 2009). Si rilevava anche come si fosse comunque precisato che tale attivita’ deve essere effettuata previo conseguimento del titolo abilitativo attraverso l’iscrizione presso la camera di commercio ed i successivi adempimenti amministrativi (Sez. 3 n. 28366/06, cit.), che il soggetto che la esercita, oltre al possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attivita’ commerciale in forma ambulante, deve trattare rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3 n. 20249/09, cit.) e che tali principi erano stati oggetto di successiva conferma (Sez. 3 n. 25352, 27 giugno 2012; Sez. 3 n. 27290, 10 luglio 2012).
Si osservava, inoltre, che le richiamate decisioni, nel considerare il titolo abilitativo legittimante il commercio ambulante, ricordano che la normativa di riferimento e’ quella contemplata dal Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114 che ha riformato la disciplina relativa al settore del commercio (in tal senso si e’ successivamente espressa anche Sez. 3 n. 39774, 25 settembre 2013 in un caso riguardante un soggetto che, sebbene iscritto all’albo della Camera di Commercio, non risultava in possesso dell’autorizzazione comunale al commercio in forma itinerante di cui al Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114, articolo 28). Fatte tali premesse, si aggiungeva che, riproponendo il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5 analoga disposizione previgente (emanata prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 114 del 1998, considerando, evidentemente, le disposizioni che a quel tempo disciplinavano il commercio ambulante) non poteva dubitarsi – nonostante gli evidenti problemi di coordinamento con altre disposizioni che hanno caratterizzato il Decreto Legislativo n. 152 del 2006 fin dalla sua emanazione – che in occasione della stesura dell’articolo 266 ed in occasione dei numerosissimi interventi modificativi al decreto, si fosse tenuto conto del necessario raccordo con l’attuale disciplina del commercio che la concreta applicazione della norma richiede.
Sulla base di tale presupposto si affermava dunque che, tenendo presente quanto stabilito dal Decreto Legislativo n. 114 del 1998, dovra’ farsi in primo luogo riferimento alla definizione, contenuta nell’articolo 4, comma 1, lettera b) di “commercio al dettaglio”, descritto come “l’attivita’ svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale” e che la disciplina astrattamente applicabile e’ quella regolata dal Titolo 10 , relativo al commercio al dettaglio su aree pubbliche, queste ultime definite, dall’articolo 27, comma 1, lettera b), come “le strade, i canali, le piazze, comprese quelle di proprieta’ privata gravate da servitu’ di pubblico passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso pubblico”. L’attivita’ commerciale esercitabile e’, inoltre, quella indicata dall’articolo 18, comma 1, lettera b) e, cioe’, quella che puo’ essere svolta “su qualsiasi area purche’ in forma itinerante” e soggetta all’autorizzazione di cui al successivo comma 4, rilasciata, in base alla normativa emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica, intende avviare l’attivita’. Non poteva farsi a meno di rilevare, nella suddetta decisione, che il raccordo tra le disposizioni in tema di commercio e il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5, considerato il tenore letterale delle prime, e’ reso particolarmente arduo, pur evidenziando che cio’ non autorizzava una forzata estensione dell’ambito di operativita’ della disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 114 del 1998, che risulta compiutamente definita, ne’ di quella dell’articolo 266, comma 5 che, riguardando la materia dei rifiuti, richiede una lettura orientata all’osservanza dei principi generali comunitari e nazionali e, prevedendo un esclusione dal regime generale dei rifiuti, impone sicuramente un’applicazione restrittiva.
Si puntualizzava, inoltre, che l’applicazione della disciplina derogatoria in esame non puo’ prescindere dal contenuto letterale dell’articolo 266, comma 5 e, segnatamente, dell’ultima parte della disposizione, laddove l’esonero dall’osservanza della disciplina generale e’ chiaramente circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore merceologico entro il quale il commerciante e’ abilitato ad operare deve essere oggetto di adeguata verifica, cosi’ come la riconducibilita’ del rifiuto trasportato all’attivita’ autorizzata.
Si osservava, infine, che la deroga e’ giustificata dalla valutazione di minor pericolosita’ per la salute e per l’ambiente operata dal legislatore con riguardo ad una attivita’ che poteva pacificamente ricondursi a quella dei cd. robivecchi, dovendosi nel contempo escludere che la disciplina in esame possa essere utilizzata per legittimare attivita’ diverse che richiedono, invece, il rispetto delle disposizioni di carattere generale.
Ricordando quindi che, vertendosi in tema di disciplina eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria in tema di rifiuti, l’onere della prova sul verificarsi delle condizioni fissate per la liceita’ della condotta grava su chi ne invoca l’applicazione, come piu’ volte affermato, si precisava che il giudice del merito ha il potere ed il dovere di verificare in concreto la efficacia e validita’ del titolo abilitativo eventualmente esibito e che la natura personale del suddetto titolo, desumibile dalla disciplina dianzi richiamata, che presuppone il possesso di determinati requisiti per l’esercizio dell’attivita’ di commercio, implica una ulteriore verifica, nel caso in cui detta attivita’ non sia svolta direttamente da colui che vi e’ abilitato, finalizzata alla corretta individuazione del rapporto effettivamente intercorrente tra i diversi soggetti.
Tali affermazioni, pienamente condivise dal Collegio, vanno ribadite. Va tuttavia considerato che il Pubblico Ministero ricorrente ed il giudice del merito prendono in considerazione il contenuto dell’articolo 121 TULPS pervenendo, sostanzialmente, l’uno alla conclusione che, in conseguenza della intervenuta abrogazione del testo, non opererebbe piu’ la deroga dell’articolo 266, comma 5, dovendosi quindi applicare anche alla raccolta ed al trasporto ambulante di rifiuti la disciplina ordinaria e l’altro, invece, che dalla abrogazione sarebbe derivata la liberalizzazione di tale attivita’.
Entrambe le conclusioni non paiono convincenti.
L’articolo 121 TULPS, nella sua originaria formulazione stabiliva, al comma 1, che “salve le disposizioni di questo testo unico circa la vendita ambulante delle armi, degli strumenti atti ad offendere e delle bevande alcooliche, non puo’ essere esercitato il mestiere ambulante di venditore o distributore di merci, generi alimentari o bevande, di scritti o disegni, di cenciaiolo, saltimbanco, cantante, suonatore, servitore di piazza, facchino, cocchiere, conduttore di autoveicoli di piazza, barcaiuolo, lustrascarpe e mestieri analoghi, senza previa iscrizione in un registro apposito presso l’autorita’ locale di pubblica sicurezza. Questa rilascia certificato della avvenuta iscrizione”.
La Legge 19 maggio 1976, n. 398, articolo 14 ha abrogato la disposizione nella parte relativa all’obbligo della iscrizione in apposito registro presso le autorita’ di pubblica sicurezza per l’esercizio del commercio ambulante, mentre, con il Decreto del Presidente della Repubblica 28 maggio 2001, n. 311, sono stati abrogati i commi 1 e 2.
Dunque al momento in cui la Legge 426 del 1998 introduceva per la prima volta la deroga, aggiungendo al Decreto Legislativo 22 del 1997, articolo 58, il comma 7-quater vigevano l’articolo 121 TULPS nella originaria formulazione e la Legge n. 398 del 1976 sul commercio ambulante, quest’ultima poi abrogata dalla Legge 28 marzo 1991, n. 112, a sua volta abrogata dal Decreto Legislativo 114/98, attualmente vigente.
Cio’ posto, deve rilevarsi come non vi sia alcun elemento che lasci intendere che, nella formulazione del Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 58, comma 7-quater (poi riprodotta nel Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5), il legislatore intendesse riferirsi all’articolo 121 TULPS allora vigente e non anche alla disciplina generale sul commercio, attivita’ che espressamente richiama, anche perche’ il mestiere di “cenciaiolo” cui fa riferimento il Pubblico Ministero ricorrente, cosi’ come le altre attivita’ descritte nell’articolo 121 TULPS, sono indicate in modo dettagliato e viene quindi da chiedersi per quali ragioni non sia stata utilizzata la medesima espressione o un richiamo diretto alla disciplina allora ancora vigente, ricorrendo invece ad una formulazione – rivelatasi ambigua – che contempla, appunto, una eccezione per i soggetti formalmente autorizzati all’attivita’ di “raccolta e trasporto di rifiuti” da esercitare in forma ambulante, ma limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio. Inoltre, come si e’ gia’ detto, considerata la scansione temporale delle varie leggi nel tempo succedutesi, sembra poco verosimile, pur ammettendo che il legislatore avesse originariamente inteso riferirsi all’articolo 121 TULPS, che non si sia avveduto della sua abrogazione quando e’ stato emanato, anni dopo, il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, continuando ad ignorarla nelle innumerevoli, successive occasioni in cui il decreto e’ stato, anche in maniera rilevante, modificato. Posto che la disciplina generale sui rifiuti non contempla, se non nella disposizione in esame, l’attivita’ di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante e considerato che, come si e’ appena detto, la deroga opera limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del commercio dei soggetti autorizzati (evidentemente allo svolgimento di tale ultima attivita’, poiche’, altrimenti, se ci si riferisse ai rifiuti, i titoli abilitanti sarebbero quelli oggetto di deroga), e’ alla disciplina sul commercio attualmente in vigore che deve farsi riferimento. Resta affidata al giudice del merito, trattandosi di accertamento in fatto, la verifica dell’esistenza e validita’ del titolo abilitante al commercio e la riconducibilita’ del rifiuto raccolto o trasportato all’attivita’ autorizzata.
Dunque il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5 spieghera’ i suoi effetti solo nel caso in cui si verifichino le condizioni suddette, dovendosi applicare, in tutti gli altri casi, la disciplina generale sui rifiuti.
6. La sentenza impugnata deve conseguentemente essere annullata con rinvio, formulando i seguenti principi cui il giudice del merito dovra’ attenersi: – la condotta sanzionata dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 1 e’ riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attivita’ rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 226 del medesimo Decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attivita’ primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalita’;
– la deroga prevista dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 266, comma 5 per l’attivita’ di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attivita’ commerciale in forma ambulante ai sensi del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114 e, dall’altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Asti.

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