Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 7 gennaio 2016, n. 100

Fatto e diritto

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 20 luglio 2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-Jbis cod. proc. civ.:
“Con sentenza in data 17 ottobre 2013, il Tribunale di Milano ha accolto la domanda proposta da Corani & Partners SpA, per la condanna al risarcimento dei danni di PLM srl, per concorrenza sleale, violazione delle norme in materia di pubblicità comparativa e utilizzo abusivo del marchio JLD (Jean Luois David), affermando che il messaggio pubblicitario indirizzato agli affiliati della catena di franchising JLD (di cui Corani & Partners SpA era licenziataria esclusiva per l’Italia) era un caso di pubblicità comparativa illecita ed integrava gli estremi della condotta sleale riconducibile all’art. 2598 n. 2 e. e. nonché l’abusivo utilizzo del marchio JLD.
La Corte territoriale, investita dell’appello, con ordinanza dell’8 luglio 2014 ha, a sua volta, dichiarato inammissibile l’impugnazione.
Avverso la decisione del Tribunale ha proposto ricorso per cassazione la PLM srl, con atto notificato il 22 ottobre 2014, sulla base di due motivi (violazione e falsa applicazione degli artt. 4 D.Lgs. n. 145/2007, in relazione all’art. 2598, comma 1, n. 1, c.c., e 2598, comma 1, n. 2 c.c.).
Corani & Partners SpA ha resistito con controricorso.
Il ricorso appare manifestamente infondato giacché:
a) Con riferimento al presunto error iuris contenuto nella sentenza impugnata (primo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 4 D.Lgs. n. 145/2007, in relazione all’art. 2598, comma 1, n. 1, c.c.), costituito dal non aver considerato l’assenza dell’elemento soggettivo ed oggettivo della confondibilità dei prodotti posti in comparazione (per essere i destinatari del messaggio attori professionali del mercato ed i prodotti identici e, quelli proposti, comunque privi del marchio) in quanto, richiamando l’art. 2598 n. 2 (non il n. 1) c.c., il Tribunale ha qualificato come atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa svolta con l’intento di agganciamento del proprio prodotto alla rinomanza di quell’altro (JLD) già accreditato presso gli stessi operatori, e cioè come imitazione di un prodotto protetto da un marchio. Infatti, il carattere confusorio del messaggio promozionale non è requisito necessario allo scopo di integrare una fattispecie di pubblicità comparativa illecita, potendo questa essere costituita semplicemente, in violazione dell’art. 4 lett. g) ed h), dall’imitazione (o contraffazione) di un bene (o servizio) protetto da un marchio o da una denominazione depositata (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 10416 del 1998).
b) Con riferimento al secondo presunto error iuris contenuto nella sentenza impugnata (secondo mezzo: violazione e falsa applicazione dell’art. 2598, comma 1, n. 2, c.c.), costituito dal non aver considerato l’assenza dell’elemento soggettivo ed della confondibilità dei prodotti posti in comparazione (per essere i destinatari del messaggio attori professionali neppure vincolati, nell’ambito della catena di franchising, all’acquisto di prodotti marchiati JLD) e considerando la funzione meramente descrittiva del riferimento ai prodotti posti in comparazione, atteso che nella fattispecie della concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n. 2, ciò che costituisce violazione della regola legislativa è la presentazione dei propri prodotti come simili o identici a quello del concorrente, sfruttando proprio la rinomanza che quel prodotto ha già acquisito (con sforzo economico per gli investimenti già compiuti al riguardo) presso i destinatari della proposta e dell’attività pubblicitaria comparativa. In sostanza, è proprio la sostanziale affermazione di identità del prodotto con marchio rinomato, immesso sul mercato dalla concorrente, a rendere illecita la condotta di quest’ultimo, mossa dalla ricerca di favorire la vendita di un prodotto identico, sfruttando, in violazione del principio di correttezza nella citazione del marchio concorrente (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17734 del 2009), la notorietà e la rinomanza di quello, così parassitariamente agganciandosi allo stesso per sfruttarne i vantaggi economici conseguiti dal marchio protetto attraverso investimenti e costose attività pubblicitarie. Senza che possa invocarsi il carattere accessorio del prodotto commerciato (nella specie, il c.d. Kimono monouso) rispetto alle attività principali protette dal marchio (le acconciature, ecc.), considerato che la capacità espansiva del marchio tende ad investire, anche nelle c.d. catene di franchising, prodotti e servizi pure non centrali nello svolgimento dell’attività coperta dagli accordi negoziali tra l’affiliante e gli affiliati.
In conclusione, si deve disporre il giudizio camerale, ai sensi degli artt. 380-bis e 375 n. 5 c.p.c., apparendo il ricorso manifestamente infondato.”.
Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione di cui sopra, alla quale sono state mosse osservazioni critiche da parte della società ricorrente;
che le dette osservazioni, in parte, vengono svolte attraverso la prospettazione di fatti riguardanti le modalità di manifestazione dell’illecito concorrenziale (l’offerta era di vendita a prova di prodotti propri; in essa non era mai riportato il marchio JLD; il richiamo alla casa madre aveva esclusivamente la funzione di individuazione e destinazione del prodotto oggetto della proposta commerciale; assenza di volontà di appropriazione indebita di pregi o notorietà; ecc: alle pp. 3 e 5), così come esso è stato ricostruito dai giudici della fase di merito, e a cui ha fatto riferimento – per riportarsi ad essa – la Relazione sopra riprodotta, chiedendo, nella sostanza, un riesame della stessa che, ovviamente, non può essere compiuto in questa sede e che il ricorrente erra a considerare come possibile, tra l’altro, non avendo neppure svolto censure alla motivazione (nei limiti stretti in cui esse possono essere svolte, nell’applicazione del nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c.);
che, infatti, il ricorso muove solo censure di violazione di legge, peraltro infondate e che non possono essere accolte neppure nell’illustrazione dei motivi di ricorsi fatti con la memoria illustrativa ex art. 380-bis c.p.c.;
che, anzitutto, è irrilevante il fatto che i prodotti offerti in vendita da PLM non formino oggetto di tutela brevettuale o non si riferiscano ad un modello industriale;
che, infatti, l’art. 2598 c.c. avverte che la tutela contro gli atti di concorrenza sleale (sia nelle fattispecie nominate sia in quelle innominate di cui alla clausola di chiusura, ivi prevista) lasciano “ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto”; che, inoltre, il comportamento censurato in riferimento all’ipotesi nominata di cui all’art. 2598 n. 2 c.c., una volta acquisito l’accertamento fattuale del giudice di merito [secondo cui “la convenuta ha presentato i propri prodotti come simili (addirittura medesimi) a quelli di un concorrente noto, sfruttandone la rinomanza tra i destina tari del messaggio e cosi facendo accreditare i propri prodotti presso la clientela senza sforzi d’investimento”. (p. 6 sent.); “nel promuovere i propri prodotti, ha usato indebitamente il marchio JLD, facendovi espresso riferimento nell’intestazione del messaggio (Negozi JLD offerta monouso) e, implicito richiamo, nel contesto del messaggio pubblicitario, con i riferimenti alla Casa Madre e con la manifesta volontà di accreditare la qualità del proprio prodotto, presentando agli affiliati JLD i prodotti come medesimi rispetto a quelli marchiati e caratterizzati da elevati standard qualitativi” (p. 7 sent.)], in questa sede non più discutibile (contrariamente a quanto si opina a p. 6 della memoria), deve essere valutato, alla luce e nei limiti del giudizio impugnatorio a critica limitata, proprio dell’esame di legittimità, come conforme a legge, secondo i principi interpretativi consolidati, già posti da questa Corte, senza che il “Giudice Relatore” possa né riconsiderarli né accertarli (p. 6 della memoria del ricorrente); che, a tal proposito, il precedente giurisprudenziale di questa Corte, oggetto di critica da parte della ricorrente (secondo la quale esso non sarebbe stato bene interpretato), invero costituisce lo sviluppo degli altri enunciati, già affermati da questa Corte, secondo cui:
a) La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui (art. 2598 n. 2 cod. civ.) non consiste nell’adozione, sia pur parassitarla, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9387 del 1994);
b) La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui (art. 2598 n. 2, seconda parte, cod. civ.) non consiste nell’adozione, sia pur parassitarla, di tecniche, materiali o procedimenti già usati da altra impresa, che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile, ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti o alla propria impresa pregi, quali, ad esempio, premi, medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti o alla impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6928 del 1983);
che, l’area di tutela offerta dalla previsione di cui all’art. 2598 c.c. ha lo scopo di offrire una protezione all’uso corretto degli strumenti concorrenziali, considerati un valore – strumento per il benessere sociale, e non già, come afferma la ricorrente, una misura volta a rendere possibile la creazione di monopoli o cartelli d’imprese, in grado di escludere dal mercato qualsiasi concorrente che intenda competere con il marchio noto;
che, infine, le doglianze riguardanti il fatto che l’offerta pubblicizzata avesse come destinatari gli attori professionali del circuito dell’estetica personale è questione nuova, che non risulta posta nella fase di merito e in ordine alla quale non sono richiamati atti ed elementi che siano stati trascurati dai giudici a quo;
che, pertanto, il ricorso deve essere respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questa fase, liquidate come da dispositivo;
che, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 8.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre a spese generali forfettarie e ad accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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