Cassazione 12

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 7 gennaio 2016, n. 98

Fatto e diritto

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 20 luglio 2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.:
“Con sentenza in data 16 luglio 2014, la Corte d’Appello de L’Aquila ha rigettato il reclamo proposto da L.A. , contro la sentenza del Tribunale di Vasto, che aveva dichiarato il fallimento della propria impresa individuale.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso il fallito personalmente, con atto notificato il 1 agosto 2014, sulla base di tre motivi, con cui denuncia violazione e falsa applicazione di norme di legge processuale (art. 112 c.p.c.) e fallimentare (artt. 5), nonché vizi motivazionali.
Il curatore ed i creditori (M. e Mi. ) hanno resistito con distinti controricorsi.
Il ricorso appare manifestamente infondato, giacché: a) con riguardo alla prima doglianza (violazione di legge processuale: art. 112 c.p.c.), con la quale si postula la lesione del dovere di pronuncia in relazione ad una fattispecie (recante la pretesa violazione del diritto di difesa davanti al Tribunale fallimentare) allegata sono in sede di memoria di replica, in fase di reclamo, in ossequio al principio di diritto (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 22970 del 2004) secondo cui Con le memorie di cui all’art. 190 cod. proc. civ., le parti possono solo replicare alle deduzioni avversarie e illustrare ulteriormente le tesi difensive già enunciate nelle comparse conclusionali, sicché nelle memorie non possono essere esposte questioni nuove o formulare nuove conclusioni. Pertanto, ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova con tale atto, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo”;
b) con riguardo alla congerie di doglianze (violazione di legge e vizi motivazionali) riportate sotto il 2 motivo, con il quale si rappresenta l’avvenuta cancellazione dell’impresa dal registro, con riguardo alla legittimazione dell’impresa fallita va esclusa la riferibilità all’impresa individuale della richiamata giurisprudenza relativa al regime di liquidazione e cancellazione proprio delle società (di persone e di capitali);
che, infatti, questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9744 del 2011) ha già affermato il principio secondo cui La disciplina di cui all’art. 2495 cod. civ. (nel testo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003),. secondo la quale l’iscrizione della cancellazione delle società di capitali e delle cooperative dal registro delle imprese, avendo natura costitutiva, estingue le società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell’ente, non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, il quale non si distingue dalla persona fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché 1 ‘inizio e la fine della qualità di imprenditore non sono subordinati alla realizzazione di formalità, ma all’effettivo svolgimento o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale;
che tale diversità di regime esclude anche l’applicabilità all’accertamento dell’insolvenza dell’imprenditore individuale le regole richiamate dal ricorrente ed enunciate a proposito delle società poste in liquidazione;
che, infine, con riguardo alle consistenze immobiliari possedute dall’imprenditore individuale, questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7252 del 2014)ha già chiarito che lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell’imprenditore non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. In particolare, il significato oggettivo dell’insolvenza, che è quello rilevante agli effetti dell’art. 5 legge fall., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all’esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio. Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza dello stato di insolvenza costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta;
c) con riguardo alla congerie di doglianze (violazione di legge e vizi motivazionali) riportate sotto il 3 motivo, con il quale si rappresenta la violazione di legge e i vizi motivazionali circa l’accertamento dello stato d’insolvenza in relazione a crediti che si assumono come contestati, tali doglianze, tutte miranti alla inammissibile ripetizione del giudizio di merito, attraverso il riesame di atti e documenti oggetto di apprezzamento nella fase di merito, con riferimento alle sentenze (come quella oggetto del presente giudizio) pubblicate oltre il termine di trenta giorni successivo all’entrata in vigore della legge n. 134 del 2012 (che ha convertito il DL n. 83 del 2012), per le quali è stato dettato un diverso tenore della previsione processuale (al di là delle formulazioni recate dal ricorso) sostanzialmente invocata (ossia, l’art. 360 n. 5 c.p.c.), si infrangono sull’interpretazione così chiarita dalle SU civili (nella Sentenza n. 8053 del 2014): la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione;
In conclusione, si deve disporre il giudizio camerale ai sensi degli artt. 380-bis e 375 n. 5 c.p.c.”.
Letta la memoria di parte ricorrente e Uditi i difensori intervenuti all’udienza camerale.
Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione di cui sopra;
che le osservazioni critiche contenute nella memoria di parte ricorrente, e quelle svolte oralmente all’udienza odierna, non colgono nel segno;
che, infatti, le stesse sono state nuovamente articolate ed esposte nella memoria depositata, ai sensi dell’art. 380-bis, 2 co., c.p.c., sostenendo:
a) che, nella fase di merito, vi è stata, senza che fosse rilevata dalla Corte territoriale (onde, la decisione avrebbe leso l’art. 112 c.p.c.), una violazione dell’art. 15 LF da parte del Tribunale di Vasto in quanto, in sede prefallimentare, non sarebbe stato notificato al debitore l’istanza di fallimento depositata – in un momento successivo alla notifica della prima richiesta di fallimento, avanzata dal creditore M. – dalla creditrice Mi. , cosicché non sarebbe stato rispettato il termine minimo tra la conoscenza legale della detta istanza (di cui pure si darebbe tenuto conto con la dichiarazione di fallimento) e l’udienza di trattazione della stessa;
b) che l’apparente tardività dell’eccezione (in realtà tempestiva) riguardante il mancato rispetto del termine di cui all’art. 15 LF, sopra menzionata e svolta solo in sede di replica scritta, dopo le conclusioni e le relative memorie illustrative (ove essa non era stata avanzata), era addebitabile solo al tardivo rilascio di copia di atti da parte del Tribunale, nonostante le plurime richieste del debitore resistente;
c) il diritto ad invocare i principi della fase di liquidazione, affermati per le società, ma trasferibili anche alle imprese individuali, considerato che l’imprenditore cessato aveva un patrimonio quadruplo rispetto alle debitorie accumulate;
che, tuttavia, le censure ulteriormente esposte nella memoria (e nella discussione orale) non sono fondate in diritto;
che, infatti, con riguardo alla prima, quella relativa alla mancata notificazione e/o conoscenza della seconda ed ulteriore istanza di fallimento, proposta dalla ex dipendente Mi. (dopo la notifica della prima istanza, quella del creditore M. ), questa Corte, ancora di recente (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24968 del 2013), ha affermato il principio, più volte già enunciato (ad esempio da Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6620 del 1981 e da Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 22060 del 2013), secondo cui: “Anche a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, nel procedimento per dichiarazione di fallimento al debitore, cui sia stato regolarmente notificato il ricorso nel rispetto delle forme previste dalla legge, non devono essere necessariamente notificati i successivi ricorsi che si inseriscano nel medesimo procedimento, avendo egli l’onere dì seguire l’ulteriore sviluppo della procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri diritti. Pertanto, la circostanza che il fallimento venga dichiarato su istanza di un creditore diverso rispetto a quello da cui proviene la notificazione del ricorso non lede il diritto di difesa, a meno che il debitore non deduca di non essere stato in grado di allegare tempestivamente circostanze idonee a paralizzare l’istanza ulteriore e diversa rispetto a quella che gli era stata tempestivamente notificata”;
che, tale indirizzo interpretativo, va confermato anche in questa sede ed applicato al caso, essendo ad esso del tutto pertinente ed esaustivo di ogni critica, così rivelantesi come infondata (non avendo il ricorrente indicato le specifiche ragioni che imponevano una addizionale notificazione dell’ulteriore istanza di fallimento, quella della creditrice Mi. ); che, peraltro, le osservazioni circa la tempestività dell’eccezione, come sopra confutata, pur prive di interesse (stante l’infondatezza del merito della censura) sono comunque prive di pregio in quanto, sebbene non documentabili, le critiche avrebbero dovuto, quantomeno, essere accennate nei primi scritti difensivi;
che, quanto alla doglianza che lamenta la mancata estensione all’imprenditore individuale dei principi propri alle società, con riferimento alla fase della loro liquidazione, deve ribadirsi il principio già affermato da questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9744 del 2011) e dal Collegio pienamente condiviso, secondo cui “La disciplina di cui all’art. 2495 cod. civ. (nel testo introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 6 del 2003), secondo la quale l’iscrizione della cancellazione delle società di capitali e delle cooperative dal registro delle imprese, avendo natura costitutiva, estingue le società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell’ente, non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, il quale non si distingue dalla persona fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché l’inizio e la fine della qualità di imprenditore non sono subordinati alla realizzazione di formalità, ma all’effettivo svolgimento o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale”;
che, in conclusione, irrilevante ogni altra critica rispetto a quanto già espresso nella relazione del Consigliere relatore, il ricorso è infondato e deve essere respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questa fase, liquidate come da dispositivo, in favore di tutti i resistenti;
che, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese processuali sostenute, che liquida in complessivi Euro 6.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre a spese generali forfettarie e ad accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater,del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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