www.studiodisa.it

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza n. 28014 del 26 giugno 2013

Fatto e diritto

Con sentenza pronunciata il 19.4.2012 il tribunale di Cremona, in qualità di giudice di appello, confermava la sentenza con cui il giudice di pace di Cremona aveva condannato C.G. e B.E. alle pene ritenute di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato, in relazione al delitto di cui agli artt. 110, c.p., 595, co. 2, c.p., commesso in un esposto inviato all’ordine degli avvocati di Cremona contenente espressioni ritenute offensive della reputazione professionale degli avvocati Br.Gi. e G.A., difensori di C.G. in una causa civile.
Avverso tale decisione, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso gli imputati, articolando distinti motivi di impugnazione.

Con il primo i ricorrenti lamentano i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p., in ordine alla mancata applicazione in loro favore dell’esimente di cui all’art. 51, c.p. Con il secondo motivo denunciano la illogicità ovvero la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del delitto di cui all’art. 595, c.p., in particolare sotto il profilo dell’elemento soggettivo.
Tanto premesso, il ricorso va accolto, essendo fondato il primo motivo di impugnazione.
Come si evince dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, il presente procedimento nasce da una denuncia-querela presentata dagli avvocati B. e G., del Foro di Cremona, nei confronti del loro cliente C.G. e di B.E., rappresentante della “Associazione Difesa Orientamento Consumatori”, in qualità di estensori e firmatari di un esposto presentato all’Ordine degli avvocati di Cremona, che, secondo l’impostazione accusatoria, condivisa dai giudici di merito, conteneva frasi diffamatorie nei confronti dei suddetti avvocati Br. e G. .
Rilevava al riguardo il tribunale che “nell’esposto il C. (e con lui il B.) si lamentava del comportamento dei due avvocati, suoi difensori in una causa di risarcimento dei danni derivanti da sinistro stradale intrapresa e poi definita avanti al giudice di pace di Cremona, rilevando che sarebbe stata inutile, attesa la congruità dell’assegno di Euro 4000,00 medio tempore corrisposto dalla compagnia assicurativa di controparte e dannosa in quanto la causa, proprio per questo, era finita con la compensazione al 50% delle spese di lite”. Nella sentenza oggetto di ricorso, il giudice procedente, analizzando il contenuto dell’esposto, rilevava che delle quattro espressioni in esso utilizzate, contestate agli imputati nel capo d’imputazione, solo due avessero contenuto diffamatorio ed, in particolare, quelle con cui “si accusano i legali, dando oltretutto per certo il fatto, da un lato di aver intrapreso un contenzioso “temerario” e dall’altro di aver voluto incentivare il contenzioso non per soddisfare gli interessi del cliente ma per fini propri (questa è la conclusione non detta ma necessariamente traibile) e pertanto non deontologicamente corretti” (cfr. p. 2 dell’impugnata sentenza).
Orbene tale assunto non può essere condiviso, risultando in aperto contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, secondo cui non integra il delitto di diffamazione, la condotta di colui che invii un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale del proprio legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51, c.p., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche. (cfr. Cass., Sez. V, 5.7.2010, n. 33994, Cernoia, rv. 248422).
Ed invero il C. aveva il diritto di accertare se fosse conforme o meno ai principi propri della deontologia forense il comportamento dei suoi legali, che avevano coltivato la lite civile procedendo alla relativa iscrizione della causa al ruolo, pur avendo ricevuto dalla compagnia assicuratrice, a titolo di risarcimento, la somma di Euro 4000,00 subito dopo la notifica dell’atto di citazione a giudizio, che lo stesso imputato aveva ritenuto “quasi totalmente satisfattiva delle pretese risarcitorie”. Il dubbio sulla opportunità di continuare nel giudizio civile, anche in considerazione della intervenuta compensazione delle spese pronunciate dal giudice civile lamentata dal C. , legittimava quest’ultimo a chiedere l’intervento dell’Ordine professionale, che, secondo l’ordinamento vigente, annovera tra i suoi compiti la tutela dei singoli rispetto a eventuali violazioni di regole deontologiche da parte dei liberi professionisti che ne fanno parte.
Vero è che le perplessità del C. si sono dimostrate infondate, in virtù dell’esito dell’accertamento del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Cremona, che ha adottato, all’unanimità, provvedimento di archiviazione; tuttavia, la pretesa dei querelanti di ottenere tutela di diritto penale a fronte di un soggetto (il C. ), che ha formulato, nella sede istituzionale a ciò preposta, interrogativi sulla correttezza professionale dei propri patrocinatori legali, non può trovare risposta positiva, in quanto appare evidente che il C. ha esercitato un diritto riconosciutogli dall’ordinamento a tutela dei propri interessi. Una risposta diversa si tradurrebbe in un inconcepibile divieto, per gli interessati, di chiedere agli organi a ciò preposti, il controllo sul livello deontologico di soggetti, la cui attività di liberi professionisti può profondamente incidere sui diritti personali e patrimoniali di chi ad essi si affida per la tutela delle proprie posizioni soggettive. L’interrogativo sulla correttezza professionale di questi soggetti, pertanto, non può tradursi automaticamente, sempre e comunque, in una reazione punitiva dello Stato. Non può, infatti, ipotizzarsi l’esistenza di un divieto per i singoli di chiedere nella sede istituzionale, senza anticipazioni di giudizio e senza devianti comunicazioni, la verifica della conformità della condotta di chi ha operato e opera nella loro sfera giuridica, alle regole deontologiche imposte ai propri aderenti dagli ordini professionali o dagli enti collettivi a questi ultimi assimilabili, regole che, altrimenti, vivrebbero in una dimensione puramente virtuale, priva di effettività, ove, sotto la minaccia della sanzione penale, si inibisse ai singoli di accedere agli organi a ciò preposti allo scopo di verificarne l’eventuale violazione.

Siffatto orientamento interpretativo trova conferma, oltre che nell’arresto richiamato in precedenza, anche in altre decisioni della Corte di Cassazione, in cui è stato ugualmente riconosciuto l’esercizio di un diritto nel caso della condotta di chi indirizzi un esposto contenente espressioni offensive ad un’autorità disciplinare, perché ricorre la generale causa di giustificazione ex art. 51 c.p., quale esercizio di un diritto di critica costituzionalmente tutelato dall’art. 21 della Carta Costituzionale, che è da ritenere prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione, considerato che senza libertà di espressione e di critica, la dialettica democratica non può realizzarsi (cfr. Cass. sez. V, 20/2/08, n. 13549, Pavone, rv. 239825).
Come si ricava facilmente dal capo di imputazione, peraltro, nell’esposto non sono state usate espressioni direttamente e smodatamente offensive, nei confronti dei querelanti, ma solo dubbi e perplessità, che, seppure manifestatisi infondati, non travalicano il confine di un corretto esercizio del diritto di critica.
Sulla base delle svolte considerazioni la sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio perché il fatto contestato al C. ed al B. non costituisce reato.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *