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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza  4 giugno 2013, n. 14017

 

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 7 settembre 2010 la Corte d’Appello di Catania ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale aveva dichiarato l’illegittimità delle sanzioni disciplinari irrogate dalla società Cogemat srl al dipendente M..D.F. con lettere del 31 ottobre 1997 e del 6 novembre 1997; l’illegittimità del licenziamento per giusta causa con condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno pari a sei mensilità di retribuzione, oltre al pagamento del trattamento di fine rapporto, in parziale riforma della sentenza del Tribunale la Corte d’Appello ha condannato la società a pagare a favore del lavoratore Euro 21.255, 00, oltre la rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme via via rivalutate dalla data della sentenza al soddisfo, a titolo di risarcimento per il “mobbing” subito dal lavoratore.

La Corte territoriale ha ritenuto sforniti di prova i fatti addebitati con le sanzioni disciplinari, nonché quelli posti alla base del licenziamento per giusta causa. Ha affermato che i testi avevano dichiarato circostanze apprese de relato e che difettava alcun ulteriore elemento idoneo a suffragare o confermare i fatti non potendosi attribuire rilievo probatorio alla circostanza che il lavoratore, nell’immediatezza della contestazione, non aveva fornito alcuna giustificazione.

La Corte ha, altresì, confermato la misura del risarcimento per l’illegittimo licenziamento determinata dal Tribunale in sei mensilità di retribuzione, tenuto conto della durata del rapporto di lavoro di oltre sei anni e delle dimensioni dell’impresa, di una certa consistenza, pur avendo meno di 16 dipendenti.

Con riferimento al mobbing la Corte ha rilevato la sussistenza della prova per il periodo 97/98 delle reiterate condotte vessatorie della società sia in quanto il lavoratore era stato oggetto di un gran numero di contestazioni, risultate non provate, l’ultima determinante il licenziamento illegittimo; sia in quanto erano stati adottati provvedimenti disciplinari nel 1998 la cui legittimità la società non aveva affatto provato non avendo aderito alla costituzione dei collegi di conciliazione, né essendosi rivolta all’autorità giudiziaria. Ha osservato, inoltre, che i provvedimenti disciplinari, benché connessi a fatti accaduti in varie epoche precedenti, erano stati concentrati in brevi periodi: le contestazioni del 1997 erano avvenute subito dopo l’azione giudiziaria proposta da un lavoratore parente del ricorrente e che il D.F. aveva fatto assumere; le contestazioni del 1998 erano avvenute pochi giorni dopo che il lavoratore si era iscritto al sindacato. Secondo la Corte, pertanto, le contestazioni apparivano strumentali ed effettuate a scopo ritorsivo.

In ordine al danno subito ed al nesso di causalità la Corte ne ha ritenuto raggiunta la prova, sia mediante le deposizioni testimoniali, sia mediante la relazione di consulenza tecnica.

Infine, circa la quantificazione del danno la Corte territoriale ha escluso la possibilità di liquidare alcuna somma, in via autonoma, a titolo di danno esistenziale dovendo ritenersi tale danno già inserito nelle somme liquidate per danno non patrimoniale e, quindi, considerato che il D.F. aveva comunque sempre continuato a lavorare, ha determinato il risarcimento in favore del lavoratore nella complessiva somma di Euro 21.255,00.

Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione la società Cogemat formulando tre motivi.

Si costituisce M..D.F. depositando controricorso con ricorso incidentale costituito da due motivi. La società ricorrente ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale nonché memoria difensiva ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione dell’articolo 116 c.p.c., dell’articolo 7 legge n. 300 del 1970; nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo (art. 360 n. 3 e 5 cpc).

Censura la sentenza nella parte in cui ha confermato l’annullamento delle sanzioni in quanto ha ritenuto tutti gli addebiti rimasti sforniti di prova. Osserva che, pur essendo i testi de relato, la Corte non aveva tuttavia considerato che le dichiarazioni trovavano conferma nel comportamento del controricorrente, che non aveva fornito alcuna giustificazione del suo comportamento, nonché nella

deposizione del teste Pappalardo che aveva riferito, per conoscenza diretta circa “l’errato montaggio dei mordenti di sostegno della catena di macellazione”.

Con il secondo motivo la Cogemat denuncia violazione dell’articolo 2119 c.c., 116 c.p.c.; dell’articolo 8 legge n. 604 del 1966, dell’articolo 1362 c.c. in relazione all’articolo 24, lettera e, del C.C.N.L. del settore; nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo (art. 360 n 3 e 5 cpc).

Censura la sentenza nella parte in cui la Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento in quanto la società non aveva provato la negligenza contestata atteso che i testi erano a conoscenza dei fatti solo per averli appresi da altri. Osserva che i testi, seppure de relato in genere, avevano confermato che il D.F. aveva saldato una struttura metallica dell’impianto sito nel macello del comune di Reggio Calabria invece di limitarsi a montare con bullonatura, come era stato previsto in apposito disegno progettuale, e di avere inoltre montato non correttamente il complesso delle distanze tra pedane e linee di macellazione. Rileva che il fatto trovava conferma nel comportamento del lavoratore che non aveva fornito alcuna giustificazione e che tale fatto costituiva giusta causa di licenziamento anche ai sensi dell’articolo 20/4 dei C.C.N.L. di settore che prevedeva il danneggiamento colposo o volontario al materiale dello stabilimento e al materiale di lavorazione, oltre che grave insubordinazione.

Censura, altresì, la determinazione della misura del risarcimento non avendo la Corte valutato le dimensioni della società, ampiamente al di sotto dei 15 dipendenti, né il comportamento e le condizioni delle parti.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli articoli 2697, 2087, 2043 c.c.; nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso decisivo. (art. 360 n. 3 e 5 cpc). Censura la sentenza nella parte in cui la Corte territoriale ha riconosciuto la sussistenza del mobbing Deduce che non era stata data la prova sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo di comportamenti persecutori. Contesta, altresì, la sussistenza del nesso di causalità tra la patologia psichica e la condotta datoriale essendo la motivazione largamente insufficiente, basata su una CTU contestata dal CTP e su deposizioni dei testi di dubbia attendibilità.

Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate. La ricorrente si limita a proporre, sia con riferimento alle sanzioni disciplinari sia in relazione al licenziamento, una diversa valutazione dei fatti formulando in definitiva una richiesta di duplicazione del giudizio di merito, senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Costituisce principio consolidato che “Il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione”. (Cass. n. 2357del 07/02/2004; n. 7846 del 4/4/2006; n. 20455 del 21/9/2006; n. 27197 del 16/12/2011).

La motivazione della Corte territoriale, sui vari punti oggetto di impugnazione, è congrua e corretta sul piano logico-giuridico.

La Corte d’Appello ha, infatti, esaminato tutti gli elementi probatori pervenendo ad escludere la prova dei fatti addebitati al lavoratore considerato che i testi avevano riferito circostanze apprese da terzi, non adeguatamente supportate da altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragassero la credibilità, o, comunque, generiche non idonee a costituire prova adeguata dei fatti addebitati. La Corte ha escluso, altresì, in conformità con i principi espressi da questa Corte, che il comportamento del lavoratore, il quale a seguito della contestazione non aveva fornito giustificazioni, potesse esonerare o attenuare l’onere probatorio gravante sulla società datrice di lavoro.

Quanto, inoltre, alla misura del risarcimento per l’illegittimo licenziamento le censure svolte dalla ricorrente non sono idonee a evidenziare errori o difetti di motivazione della sentenza impugnata atteso che la Corte territoriale ha valutato sia la dimensione dell’azienda, sia la durata del rapporto di lavoro.

Analoghe osservazioni devono essere svolte con riferimento alla prova del “mobbing” avendo la Corte territoriale adeguatamente motivato la raggiunta prova della prolungata vessazione psicologica cui era stato sottoposto il D.F. , attuata in modo sistematico, ripetuto e per un apprezzabile periodo temporale. È risultato che i suddetti addebiti ed i relativi procedimenti disciplinari relativi anche a fatti accaduti in vari periodi precedenti siano stati concentrati in brevissimi periodi (contestazioni del 1997) per il fatto che il D.F. era stato, da parte dell’azienda considerato responsabile dell’azione giudiziaria proposta da un suo parente che egli aveva fatto assumere dall’azienda ; le contestazioni del 1998 risultavano, invece, effettuate pochi giorni dopo che il D.F. si era iscritto al sindacato.

La valutazione degli elementi di fatto effettuata dalla Corte è esente da vizi logici o contraddizioni con la conseguenza che non è consentito, in sede di legittimità, di procedere ad una rivalutazione degli stessi elementi, per trame un convincimento conforme a quello sostenuto dalla parte. Circa la sussistenza del danno subito dal lavoratore a causa del comportamento del datore di lavoro e del nesso di causalità, la Corte ha richiamato le conclusioni del CTU attestante lo stress subito dal D.F. a causa dei ripetuti addebiti che gli erano stati mossi, le risposte da quest’ultimo date ai rilievi formulati dal CTP della società, nonché gli elementi emersi dalla prova testimoniale.

Le motivazioni assunte dalla Corte sono ampie e complete con la conseguenza che la sentenza impugnata, anche sotto tale profilo, resiste a tutte le censure ad essa rivolte. Per le premesse considerazioni il ricorso principale deve essere respinto.

Con il ricorso incidentale il D.F. denuncia, con un primo motivo, violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2056, 2059, 1223, 1226, CC (art. 360 n. 3 cpc); violazione degli articoli 2, 3, 32 della Costituzione e del principio di rilievo costituzionale del risarcimento integrale del danno alla persona; insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia riguardante la quantificazione del danno (art. 360 n. 5 cpc).

Censura la sentenza nella parte in cui la Corte afferma che il danno esistenziale deve considerarsi già inserito nelle somme liquidate a titolo di danno non patrimoniale, dovendo, secondo il D.F. , tale danno ricevere un’autonoma valutazione.

Lamenta che la Corte aveva ridotto ad 1/4 il risarcimento giornaliero per l’invalidità temporanea totale sul presupposto che era continuata l’attività lavorativa, omettendo di valutare che lo svolgimento dell’attività lavorativa era irrilevante attenendo al danno patrimoniale. Lamenta, altresì, che la Corte aveva affermato di applicare le tabelle di Milano, ma in realtà aveva applicato altro.

Con il secondo motivo il D.F. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 cc (art. 360 n. 3 cpc). Censura la sentenza nella parte in cui fa decorrere interessi e rivalutazione dalla sentenza.

Le censure, congiuntamente esaminate in quanto attinente alla liquidazione del danno, sono infondate.

Dalla lettura integrale della sentenza d’appello si evince che la Corte territoriale non ha inteso negare l’esistenza del danno esistenziale – sempre risarcibile alla stregua del disposto dell’art. 2043 cc violandosi un diritto della persona anche se la condotta offensiva non costituisce reato – ma lo ha inteso includere nel danno biologico applicando un criterio liquidativo complessivo ed equitativamente determinato (pari ad Euro 16,25 al giorno) che risulta aver tenuto conto anche dei criteri soggettivi, avendo fatto riferimento alla specifica posizione lavorativa del D.F. che non aveva cessato di lavorare “dando così prova di aver conservato integra la maggior parte del proprio stato di salute”. Né può considerarsi errata la liquidazione degli accessori al danno liquidato globalmente fino alla sentenza in quanto il giudice d’appello ha con una formula generale (rivalutazione monetaria ed interessi legali decorrenti dalla data della sentenza) indicato un criterio di quantificazione che lungi da intendersi come disapplicativo dei principi più volte, sul punto, ribaditi dalla giurisprudenza circa la decorrenza della rivalutazione monetaria dal verificarsi del fatto in caso di debito di valore quale quello in esame, deve, invece, leggersi come rispettoso di tali principi avendo la Corte manifestato di aver valutato il danno complessivamente determinato all’epoca della sentenza (i fatti si riferiscono invece agli anni 1997/1998) già comprensivo di detti accessori.

Per le considerazioni che precedono deve essere respinto anche il ricorso incidentale.

Il rigetto di entrambi i ricorsi giustifica la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte Riunisce i ricorsi e li rigetta.

Spese compensate.

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